La peste Durante le epidemie del 1576 e 1630
Solidarietà e cure agli appestati di Milano
S.Carlo Borromeo scrisse un “Memoriale ai milanesi” in cui descrive le miserande condizioni della città durante la pestilenza del 1576.
Atmosfera plumbea, lamenti, grida, corpi putrescenti serrati dalla peste, fame, mancanza di acqua pulita, improperi contro le autorità accusate d’imprevidenza. La peste infieriva e non accennava a rallentare.
Il Lazzaretto, situato a porta Orientale (l’attuale Porta Venezia) in corrispondenza con le vie S.Gregorio, Lazzaretto, Castaldi, Casati, Tunisia, era stracolmo di appestati e non bastava più. Era attrezzato alla meglio con capanne sorrette da travi e assi, il pavimento in terra battuta, un fossato che cingeva completamente il Lazzaretto e raccoglieva tutte le putride ed infette acque provenienti dalle aree di ricovero.
Nel centro di questo speciale ospedale viveva una chiesetta, S. Carlino (ancora esistente) ove si celebravano
di continuo imploranti liturgie. Gli ammalati una volta individuati venivano liberati dei loro abiti, lavati e rivestiti con panni puliti. La carità ed il soccorso non mancarono. Gli aiuti umanitari erano inqualche modo sollecitati e diretti dall’Arcivescovo Carlo Borromeo che profuse in quest’opera d’aiuto ingenti risorse personali vendendo perino gli arazzi, i drappi, oggetti preziosi del palazzo arcivescovile, alienò persino il suo guardaroba personale.
Anche dal contado arrivarono vettovaglie e vino a conforto degli ammalati. I ricchi mercanti si unirono per acquistare e poi assegnare centinaia di giacigli.
Anche durante il morbo del 1630, con Federico Borromeo arcivescovo, i soccorsi non mancarono. Offerte,
contributi, aiuti in denaro e derrate alimentari pervennero in Arcivescovado per essere immediatamente distribuiti agli ammalati del Lazzaretto.
Il mondo femminile rispose in modo superbamente generoso. Balie, levatrici, casalinghe volontarie, si occuparono dei bimbi rimasti soli per avere perso i genitori a causa del morbo.
Sia Carlo che Federico Borromeo misero a disposizione il clero per l’assistenza. Si distinsero i Camilliani e soprattutto i Cappuccini e molti di loro, esposti al contagio, perirono durante le faticose opere di soccorso e cura. Il frate padre Michele ebbe la responsabilità di organizzare i soccorsi dei religiosi. Grazie alla sua dedizione, al polso fermo ed ai suoi pieni poteri, l’assistenza fu attuata in modo eficiente.
Padre Michele, stremato dalle fatiche, morì dopo poche settimane dalla fine della pestilenza. Nell’elenco deiCappuccini morti igurano padre Cristoforo frà Galdinodi manzoniana memoria.Altro grande protagonista dei soccorsi fu il padre cappuccino Felice Casati. Grande organizzatore agì con abnegazione e fu sua l’idea di provvedere con il lattedelle capre all’allattamento dei bambini ricoverati nel Lazzaretto. Terminata la sua umanitaria avventura, padre Casati, fu Provinciale dell’Ordine e Custode generale.
Il morbo, che prese per contagio, lo iacciaccò per tutto il resto della sua vita fino al sopraggiungere della morte che lo colse in quel di Livorno all’età di 73 anni.
Ricordiamo che il Lazzaretto di Milano è stato voluto dal Duca Ludovico il Moro e fu realizzato dal 1489 al 1509 dietro speciale delibera del Consilium medicarum della Città.
Era costituito da un grande quadrato con al centro la già citata chiesa di S.Carlino, dotato di 576 cameroni capanna per accogliere gli infermi ed i servizi essenziali per la cura ed il soccorso.
Lazzaro Palazzi ne fu l’architetto che utilizzò precedenti disegni del Filarete. Suo cognato, il famoso Giovanni Antonio Amedeo, alla morte del Palazzi, mise mano alla realizzazione del progetto debitamente ampliato si da risultare alla ine una vera e propria cittadella dei malati isolati appena fuori le mura di Porta Orientale.