Legnano story - note personali
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Etruschi - LA STORIA
 
 
La storia degli etruschi è ricostruibile solo a grandi linee, perché la documentazione scritta, oggi in parte decifrata, non è molto significativa e i reperti archeologici, per quanto ricchi e interessanti, non bastano a riempire le lacune. Sono inoltre andate perdute, fin dall’antichità, le opere che al mondo degli etruschi dedicarono alcuni scrittori greci e latini e i riferimenti storici che sono giunti fino a noi appaiono frammentari e spesso contraddittori, se non addirittura falsati quando essi vanno a toccare gli ‘‘interessi di parte” greci o romani. È tuttavia indubbia la precocità dello sviluppo della civiltà etrusca, l’originalità delle sue espressioni, la sua importanza anche sul piano politico che assegnarono a questo popolo una posizione di privilegio nel quadro della più antica storia della penisola italiana e di quella mediterranea.
 
 
Il ‘‘caso”, il ‘‘mito”, la ‘‘diversità”, insomma il ‘‘mistero” degli etruschi: nessun altro popolo dell’antichità ha acceso un dibattito tanto vivace come quello riguardante la nazione storica etrusca, posta in età arcaica e classica al limite del mondo civilizzato, ma allo stesso tempo così ricca e culturalmente progredita. Quasi che gli etruschi siano vissuti chiusi nei loro confini o addirittura fuori del tempo, per scomparire lasciando dietro di sé segreti non ancora svelati, testimonianze vaghe e enigmatiche di una civiltà senza possibili confronti.
 
Gli storici più antichi facevano giungere gli etruschi da Oriente in età eroica o in ogni modoin una fase precedente all’età storica; discordavano solo nel collegarli ora con i lidi ora con i pelasgi. Secondo lo storico greco Erodoto (V secolo a.C.) gli etruschi sarebbero giunti in Italia dalla Lidia (Asia Minore) sotto la guida del re Tirreno dal quale presero il nome di tirreni (o tyrsenòi); a spingerli ad Occidente era stata una carestia scoppiata poco prima della guerra di Troia. Secondo lo storico greco Ellanico (V secolo a.C.) essi sarebbero stati invece pelasgi, un popolo guerriero che, dopo aver vagato a lungo nell’area danubiana, giunse infine nel Ponto Eusino (Mare Nero) alla fine del III millennio a.C.; da qui i pelasgi avrebbero poi raggiunto la Tessaglia, l’Attica e il Peloponneso. Gruppi di pelasgi si sarebbero quindi spinti in Italia dopo aver navigato a lungo tra le isole del mare Egeo. Della stessa opinione è anche lo storico Anticlide (IV-III secolo a.C.), anch’egli greco, per il quale i pelasgi, prima di spingersi a Occidente, avrebbero colonizzato le isole egee di Imbro e di Lemno. Vanno inoltre ricordate le fonti egiziane che indicano tra i ‘‘popoli del mare” i tusha o tirreni, ossia gli antenati degli etruschi.
 
 
Erodoto riferisce nelle sue Storie (I,94):
‘‘Narrano che sotto il regno di Ati, figlio di Mida, una tremenda carestia colpisse tutta la Lidia. I lidi per un certo tempo la tollerarono ... ma poiché questa carestia, anziché diminuire, infieriva sempre più, il re divise i lidi in due gruppi e tirò a sorte coi dadi quale sarebbe rimasto nel paese e quale sarebbe emigrato; a capo di coloro che dovevano rimanere pose se stesso, a capo degli altri il proprio figlio di nome Tirreno. I lidi a cui toccò di lasciare la patria si recarono a Smirne e cominciarono a costruire navi; quindi, raccolte su di esse tutte le cose che erano loro utili si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra, finché, dopo aver costeggiato molte regioni, giunsero presso gli umbri, e qui edificarono le città nelle quali vivono tuttora. Abbandonarono però il nome di lidi e, dal nome del figlio del re che si era posto alla loro guida, si chiamarono tirreni”.
 
La tesi di Erodoto sull’origine lidia degli etruschi fu contestata nella stessa antichità dallo storico e retore greco Dionigi d’Alicarnasso (I secolo a.C.). Nelle sue Antichità romane in 20 libri (dei quali ci sono pervenuti i primi 10), in cui narra la storia di Roma dalle origini alla prima guerra punica Dionigi puntualizza: ‘‘Per me, non credo che i tirreni siano coloni lidi, poiché non parlano la stessa lingua né conservano nessun’altra caratteristica della loro presunta patria. Infatti non onorano le medesime divinità dei lidi e hanno leggi e istituzioni diverse ... Mi sembra dunque che si avvicinino più alla verità coloro che sostengono che questo popolo non è immigrato da terre straniere, ma è autoctono, giacché risulta che esso è antichissimo e per lingua e costumi affatto diverso da ogni altra stirpe”. A sostegno della sua tesi Dionigi riferiva che gli stessi etruschi erano della sua stessa opinione, tanto che chiamavano se stessi ‘‘rasenna” e non tirreni. La teoria di Dionigi di Alicarnasso non ebbe molta fortuna e l’opinione corrente degli antichi continuò a basarsi sull’autorità di Erodoto; Virgilio chiama li etruschi anche col nome di lidi.
 
 
La storiografia moderna ha ripreso ora l’una ora l’altra delle due tesi cercando di corroborarla e di aggiornarla mediante i risultati dell’indagine linguistica e archeologica. I sostenitori della provenienza dall’Oriente – tesi che contribuirebbe a spiegare l’anticipo dello sviluppo civile dell’Etruria rispetto ad altre regioni d’Italia – rivelano che la civiltà etrusca sorse nell’VIII secolo a.C., proprio quando si affermava in Etruria, nelle manifestazioni artistiche, lo stile detto ‘‘orientalizzante” per le sue connessioni con i tipici motivi del Vicino Oriente; pongono in evidenza i rapporti della religione etrusca con credenze mesopotamiche; sottolineano certe concordanze tra l’etrusco e le lingue preelleniche dell’area egea. Dall’altra parte i sostenitori dell’autoctonia obiettano che lo stile ‘‘orientalizzante” non è specificatamente proprio degli etruschi, ma largamente diffuso, e spiegano che gli etruschi, diversi per lingua e tradizioni culturali da tutti i popoli circostanti, rappresentavano un antico strato etnico, anteriore ai movimenti di popoli dell’età del Bronzo. Alle tesi tradizionali e alle loro varianti, se ne è aggiunta anche una terza (già ombreggiata da Tito Livio) che postula ‘‘un’origine settentrionale”: gli etruschi sarebbero discesi attraverso le Alpi (dove i reti del Trentino Alto Adige, quasi analoghi per nome ai rasenna, parlavano una lingua affine alla loro), la pianura padana e gli Appennini.
 
Anche se le iscrizioni in lingua etrusca sono molte - ne possediamo circa 10 mila - solo un decimo di esse contiene qualcosa di più di semplici nomi propri, e una minima parte testi di una certa ampiezza. Lo sforzo di interpretare la lingua etrusca non è quindi pervenuto a risultati conclusivi, anzi ha aggiunto ‘‘mistero a mistero”.
 
L’etrusco non è una lingua indeuropea come quella usata dai vicini italici e non è comparabile con nessun’altra lingua conosciuta, viva o morta, come affermava anche Dionigi d’Alicarnasso. Eppure alcuni storici ritengono che l’etrusco rappresenti una derivazione di antiche parlate del Mediterraneo, risalenti a epoche precedenti le invasioni indoeuropee, probabilmente imparentate con l’idioma che veniva usato a Lemno, l’isola che secondo lo storico Anticlide sarebbe stata colonizzata dagli antenati pelasgi degli etruschi. Ma se avessero ragione Diodoro Siculo e certi storici moderni che puntano sulla autoctonicità? In effetti gli etruschi adottarono una forma arcaica dell’alfabeto greco che modificarono per adeguarlo ai suoni della loro lingua e, poiché questo  alfabeto ci è noto, è un luogo comune parlare di ‘‘indecifrabilità” e di ‘‘mistero” della lingua etrusca. Ma i testi che abbiamo sono scarsamente significativi perché consistono per lo più in brevi iscrizioni funerarie o dedicatorie; solo pochissimi sono più ampi e se ne intuisce il significato religioso o giuridico. Su tutti questi materiali si sono esercitati con vari metodi parecchi filologi, e i risultati non sono mancati: si sono distinti verbi e sostantivi; si è accertato che i nomi venivano declinati (ma in modo del tutto diverso che in latino o in greco); si è precisato l’esatto valore di qualche decina di parole; si sono individuate alcune coincidenze sia con lingue indoeuropee (il che è spiegabile con i contatti con gli italici) sia, come abbiamo detto, con lingue ‘‘mediterranee” dell’area egeo-anatolica. Come per il mondo greco, anche in Etruria è possibile definire delle scritture locali sulla base del diverso uso di taluni segni per esprimere uno stesso suono.
 
Sul finire dell’VIII secolo a.C., gli etruschi erano in possesso di un alfabeto introdotto nell’Italia centrale dai coloni greci provenienti dall’Eubea, stabilitisi prima nell’isola di Ischia (775 a.C. ca.) e poi a Cuma. Quest’alfabeto comprendeva in origine 26 segni di cui però solo 22 furono utilizzati per la scrittura etrusca: gli etruschi rifiutarono a esempio la vocale o, le consonanti b, d e g perché non corrispondenti alle loro esigenze fonetiche, e altre le impiegarono diversamente. Allo stesso periodo risale la comparsa dei segni d’interpunzione per dividere le varie parole. L’andamento della scrittura andava da destra verso sinistra. Dopo la fine dell’età arcaica, la serie alfabetica si stabilizzò nel numero di 20 segni. Tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. l’uso dell’alfabeto etrusco venne progressivamente abbandonato a favore di quello latino. Gli etruschi si servirono dell’alfabeto per scrivere i loro documenti e i loro libri. Sappiamo che ebbero un’ampia letteratura composta da testi religiosi, da libri di storia di tipo annalistico e da testi teatrali, ma purtroppo nulla di questa copiosa produzione ci è pervenuto. Rimangono solo un migliaio di iscrizioni, per lo più epigrafi funerarie, con le sole generalità del defunto (prenome, gentilizio e patronimico). Rarissimi sono i testi più complessi come le lamine di Pyrgi o il cosiddetto libro della mummia di Zagabria. È questo il più importante manoscritto etrusco tramandato in lingua originale, che anticamente doveva costituire un testo di almeno 12 colonne verticali. Si tratta di un calendario liturgico con l’indicazione delle principali cerimonie scoperto in Egitto. Aveva in origine la forma di un rotolo (volumen), ma fu successivamente tagliato a strisce e impiegato per avvolgere il corpo di una giovane donna di età tolemaica o imperiale conservato oggi nel Museo di Zagabria. Una conoscenza ormai acquisita riguarda il sistema numerale che appare di tipo decimale e con le cifre indicate con segni tratti almeno in parte dall’alfabeto, come in latino.
 
È ancora diffusa l’idea che la storia etrusca abbia avuto termine in maniera repentina, quasi per un ‘‘collasso” provocato dalla mollezza e dalla sregolatezza dei costumi. Di ciò avrebbero approfittato i ‘‘rozzi” romani per infliggere ai loro nemici il colpo di grazia finale. Un altro mito generato dall’aura di mistero che ha sempre aleggiato attorno agli etruschi.
 
Scomparsi nel nulla portandosi nella tomba i propri segreti? Nonostante il mito che ha chiamato in causa persino una sorta di ‘‘genocidio” perpetrato dalle legioni romane, la fine degli etruschi non fu né misteriosa né eccezionale. In effetti, essa non fu diversa da quella di tutti gli altri popoli dell’Italia assorbiti nell’orbita romana. Successe ai lucani, agli apuli, ai sanniti, agli umbri, ai galli della Cisalpina e persino ai greci della Magna Grecia: tutti finirono per integrarsi in quella nuova realtà che era la ‘‘nazione” romana e diventarono parte di essa godendo, ai diversi livelli, della concessione della ‘‘cittadinanza” e adottando la lingua latina e il diritto romano. E non furono cittadini di ‘‘serie B”, perché una volta sottomessi, gli etruschi contribuirono all’affermazione romana nella penisola e alle vittorie nelle guerre esterne. Non va dimenticato né sottovalutato l’aiuto che le città etrusche fornirono nel 205 a.C. per l’allestimento della spedizione di Scipione contro Cartagine che condusse al ritiro di Annibale dall’Italia e alla decisiva vittoria di romana di Zama. Quanto alle fasi finali della loro vicenda, che si concluse con il passaggio della repubblica all’impero, gli etruschi vi parteciparono con due diversi e opposti atteggiamenti: da una parte alcune città si schierarono nelle lotte civili dell’ultimo secolo della repubblica con i partiti ‘‘democratici” (con Mario contro Silla; con Catilina; con Antonio contro Ottaviano); dall’altra appoggiarono con le loro aristocrazie le posizioni conservatrici dell’oligarchia romana e l’opera restauratrice di Augusto. E proprio sotto Augusto, grazie anche all’opera del suo consigliere ‘‘etrusco” Mecenate (di Arezzo) l’Etruria diede inizio a una seconda fioritura: in questo clima sarà ‘‘rifondata” la città di  Veio distrutta nel lontano 396 a.C.
 
Fra i presunti misteri diffusi sul mondo etrusco, uno di essi riguarda il tipo fisico delle antiche genti dell’Etruria nel quale si crede di poter identificare la prova della loro provenienza orientale. Cosa hanno a che fare con i tratti italici quei profili sfuggenti, i nasi dritti e sottili, le bocche larghe dalle labbra atteggiate nel caratteristico sorriso e, soprattutto, i grandi occhi a mandorla documentati in tante opere figurate?
 
Il sapore d’Oriente che effettivamente si ritrova nelle rappresentazioni dei volti etruschi, ma limitato per lo più al periodo arcaico (VI secolo a.C.), non è altro che un preciso canone artistico, diffuso anche in altri ambienti del mondo mediterraneo, Roma compresa. Fu elaborato nella regione greca della Ionia, in Asia Minore, e prima ancora che nell’Etruria, si diffuse nella stessa Grecia (i kuroi e le korai, ad esempio) e nelle sue colonie. Il volto orientale sarebbe insomma una sorta di ‘‘maschera” cui si ricorse per rappresentare un’immagine convenzionale con la quale gli etruschi, specie gli aristocratici, volevano essere ricordati. Nel V secolo a.C. la ‘‘moda all’orientale” era già in declino e le rappresentazioni dei tratti somatici cambiò radicalmente per diventare più realistica. Si dovrebbe per questo supporre un cambiamento di razza? Fu solo un cambiamento di gusto e dello stile artistico: nella ‘‘nuova” grande varietà di volti e di fattezze ritroviamo allora davvero i tratti dei nostri antenati.
 
 
 
Come narrare le vicende di un popolo di cui non possediamo una tradizione storiografica diretta? Poiché essa è andata perduta, fin dall’antichità, insieme a tutta la letteratura nazionale, dobbiamo necessariamente ricorrere alla ricostruzione indiretta basandoci, come del resto accade per i cartaginesi, su quelle parti di storia dei greci e dei romani che in certi momenti hanno coinciso con quella degli etruschi. Con discernimento però, e con la consapevolezza che non sempre le informazioni che ci vengono fornite dalle fonti sono obiettive. A complicare le cose c’è il fatto che quella etrusca fu la storia di un mondo vario e composito, in cui ognuna delle singole entità corrispondenti alle diverse città-stato agiva e si comportava in maniera autonoma, distinta e spesso contrastante con le altre. Rimane la documentazione archeologica e quella più generica delle possibili analogie che legarono gli etruschi alla ‘‘storia universale” del Mediterraneo.
 
 
Gli antichi indicarono con varie denominazioni il territorio in cui si sviluppò la civiltà etrusca. I greci lo chiamarono Tyrrhenía o Tyrsenía, i latini Etruria, gli ultimi scrittori latini Tuscia. Corrispondentemente i nome del popolo che lo abitò fu per i greci tyrrenòi o tyrsenòi, presso i latini etrusci o tusci, per gli umbri turskus. Essi invece, a quanto ci riferisce Dionigi d’Alicarnasso, chiamarono se stessi rasena o rasenna, ma pare confermato il termine rasna, che in questa forma o in forme simili ricorre più volte nelle iscrizioni etrusche.
 
 
I confini storici dell’Etruria sono segnati dal corso dei due fiumi principali dell’Italia peninsulare: l’Arno che limitava il territorio etrusco verso settentrione, e il Tevere che costruiva il confine a oriente e a mezzogiorno; il mare, che dagli etruschi prese il nome di Tirreno, segna il quarto lato dell’ampia regione che oggi chiamiamo tosco-laziale. In essa convivono almeno tre paesaggi. Una prima zona a sud, costituita dall’Alto Lazio, presenta larghe zone di pianura, ma più spesso strette valli incise da fiumi e da torrenti, affluenti del Tevere, e un succedersi di basse colline e di pianori tufacei di varia forma e grandezza e dalle pendici scoscese; su di essi sorsero le principali città etrusche meridionali: Veio, Orvieto, Caere, Tarquinia ecc. Tutta l’area è punteggiata di antichi crateri vulcanici diventati, nella maggior parte dei casi, bacini lacustri (lago di Bracciano, di Bolsena, di Martignano, di Vico ecc.). A ovest di quest’area, il ‘‘paesaggio del tufo” cede al paesaggio della Maremma con pianure variamente estese lungo la costa, rotte da rilievi come i Monti della Tolfa, dell’Uccellina o il Monte Argentario. In epoca antica la zona era paludosa e malsana, ragione per cui tutte le grandi città dell’Etruria marittima, tranne Populonia, sorsero a una distanza di diversi chilometri dal mare, destinando la funzione di porto a insediamenti minori (è il caso di Pyrgi per Caere). La terza area corrisponde al resto dell’attuale Toscana con l’appendice umbra di Perugia. Anche qui il paesaggio è collinare, con ampie vallate fluviali interne (del Tevere, dell’Arno, dell’Elsa, del Chiana, dell’Era ecc.) che innervano tutto il territorio. A vaste zone di calanchi si alternano massicci montani (Colline Metallifere, Amiata, Pratomagno, Monti del Chianti) che rendono più aspro il territorio e difficili le comunicazioni. Le città etrusche erano qui più disperse e in numero più limitato: più o meno quante quelle del Meridione in un territorio grande il doppio.
 
 
 
Le tre grandi aree territoriali offrirono agli etruschi possibilità di sviluppo diverse, legate alle vocazioni spontanee del suolo in relazione allo sfruttamento agricolo: viti e olivi su tutte le zone collinari, grano nelle pianure fluviali e specie nell’agro di Chiusi, arboricoltura diffusa. In stretta connessione con l’agricoltura era l’allevamento del bestiame; i buoi etruschi erano famosi per forza e resistenza, grandi cure venivano dedicate agli equini e molto diffuso era, soprattutto nel sud, l’allevamento specializzato dei suini. Estesi e folti boschi davano legname abbondante e di buona qualità destinato a vari usi (opere di carpenteria, costruzioni di navi, alimentazione dei forni dell’industria metallurgica ecc.) e ospitavano una grande quantità di animali selvatici (cinghiali, cervi, lepri ecc.) che venivano regolarmente cacciati. Praticata era anche la caccia agli uccelli palustri che dovevano essere numerosi nelle lagune costiere e nei laghi vulcanici dell’Etruria meridionale. Ma la risorsa principale del suolo (e la ricchezza degli etruschi) era costituita dai minerali per l’estrazione dei metalli: rame, argento, piombo e soprattutto ferro. Le principali concentrazioni si trovavano in comprensori in cui l’attività mineraria è continuata fino ai giorni nostri: i Monti della Tolfa (ferro e allume che serviva per la concia delle pelli e i processi di riduzione della fusione), l’isola d’Elba (ferro), l’Argentario (piriti argentifere che fornivano ferro, argento e piombo), l’Amiata (cinabro); più difficile individuare le fonti per il minerale di rame, elemento fondamentale per la lega del bronzo: gli etruschi erano famosi per la capacità di lavorare questo metallo. Non a caso quindi, descrivendo l’Etruria, Diodoro Siculo poté affermare nel II secolo a.C.: ‘‘Questa è una terra che produce di tutto”.
 
 
 
Il problema delle origini degli etruschi è un falso problema che va impostato su basi metodologiche diverse: non tanto la ‘‘provenienza” è importante, quanto piuttosto la ‘‘formazione” di questo popolo, ciò che esso, sfruttando elementi di varia provenienza - anche orientali, anche indoeuropei - ha prodotto di originale nelle sue sedi storiche.
 
 
Comunque si imposti e si risolva il problema delle origini degli etruschi, l’area geografica dove storicamente essi insediarono il loro dominio era già definita e culturalmente connotata in senso unitario nel IX secolo a.C. Essa corrisponde a una larga parte dell’area in cui si era fino allora sviluppata la cultura del Ferro ‘‘villanoviana” e in essa dobbiamo riconoscere il primo manifestarsi del processo di formazione – sul suolo dell’Etruria – di quella che diverrà la ‘‘nazione” etrusca. I villaggi ‘‘villanoviani” erano organizzati in forme di carattere tribale, con un tipo di società sostanzialmente indifferenziata e con un’economia basata sull’agricoltura, l’allevamento e, marginalmente, su attività artigianali sulle quali predomina la metallotecnica. Ma all’inizio dell’VIII secolo a.C., questa struttura socio-economica cominciò a modificarsi per effetto delle prime frequentazioni di navi: mercanti fenici e greci attivarono un movimento commerciale basato sul traffico di risorse fondamentali (che in epoca antica erano cereali, olio, vino), dei minerali e dei metalli verso il bacino dell’Egeo e del Mediterraneo orientale; in cambio arrivavano manufatti di alta qualità e con essi maestri e idee. Alla primitiva utilizzazione in comune delle risorse si sostituì allora, a poco a poco, l’iniziativa dei singoli individui che sfruttarono a proprio vantaggio le risorse del territorio accumulando così (ed esibendo, come vediamo dai corredi funebri) ricchezza. L’originaria ‘‘unità villanoviana” si frantumò e il corpo sociale si scisse con l’emergere di un ceto più ricco che finì per imporsi come classe dominante.
 
 
La civiltà villanoviana ha preso il nome dal villaggio di Villanova, presso Bologna, dove sono stati rinvenuti i reperti archeologici più notevoli. Essa era presente in modo omogeneo su tutta l’Etruria, continuava a sud del Tevere con l’affine cultura laziale, e si era diffusa anche attorno a Capua e nella zona di Salerno, in Campania. Le nostre conoscenze dipendono quasi esclusivamente dalle necropoli, costituite in genere da vasti ‘‘campi d’urne” con tombe a pozzetto scavato nella roccia o nel terreno in cui era deposto un vaso cinerario biconico e qualche oggetto di corredo. Nel territorio laziale si manifestò anche l’uso dell’incinerazione in urne a capanna. Poco sappiamo delle aree abitate che sembrano essere state però disseminate di molti piccoli villaggi costituiti da capanne a pianta circolare o ovoidale. La capillarità e l’omogeneità degli insediamenti fa pensare a un gigantesco processo di colonizzazione, avviato nel corso del IX secolo a.C., che nel breve giro di due o tre generazioni deve aver occupato tutta l’area di diffusione (dall’Emilia alla Campania).
 
 
A poco a poco, dall’uniformità dei piccoli villaggi villanoviani cominciarono a emergere nettamente alcuni centri che, a metà dell’VIII secolo a.C., assunsero un evidente carattere di superiorità demografica ed economica su aree di territorio sufficientemente ampie. In questo processo di trasformazione, del resto vario e difforme, all’inizio furono avvantaggiate le comunità della fascia meridionale posta tra l’Albegna e il Tevere, perché più coinvolte nel traffico commerciale marittimo: prima di tutto il ‘‘sistema” di Tarquinia, poi quelli di Veio, Caere, Vulci, Vetulonia. In seguito la stessa novità si affermò anche nelle zone più interne dove sorsero centri minori collegati attraverso valli fluviali alle città maggiori e alla costa. Le città etrusche, fin dalle origini, si proposero come obiettivo di controllare i luoghi di produzione dei metalli e assicurarsi la disponibilità e lo sviluppo delle vie commerciali, sia per mare, sia per terra. Naturalmente esse attrassero il ceto dominante, ma anche il ceto medio che si andava affermando grazie all’industria dei metalli e al commercio. Si definì così, nei decenni iniziali del VII secolo a.C., la distinzione tra città e campagna, si incrementarono le attività artigianali, si sviluppò l’industria metallurgica, si diffuse l’uso della scrittura come sussidio indispensabile al commercio, si rinforzò la struttura sociale dominata da potenti nuclei di famiglie gentilizie che diedero vita a un sistema di vita ‘‘clientelare” e a istituzioni di regimi di tipo monarchico.
 
 
 
Le varie città etrusche non costituiranno mai una compagine politico-amministrativa unitaria e, come quelle greche e quelle fenicie, adottarono la struttura politica della città-stato. Anche se indipendenti, le città erano riunite in un’alleanza o lega di tipo religioso, e forse anche militare, e da una stretta collaborazione commerciale. Si trattava di una sorta di federazione costituita da dodici (o forse quindici) città e perciò detta Dodecapoli; di queste città non conosciamo né il nome né l’epoca nella quale furono associate, ma poiché ben più di dodici erano le metropoli che potevano aver fatto parte di questa federazione, si deve supporre che esse si siano avvicendate nel tempo, quando la decadenza di una accelerava l’ascesa di un’altra. In origine, a capo di ogni città-stato stava probabilmente il lucumone, un personaggio regale sostituito in seguito, come avvenne anche nelle poleis greche, da un’oligarchia nobiliare costituita da famiglie delle quali conosciamo i nomi (i Maru di Cerveteri o i Pompu di Tarquinia) e i tumuli destinati ai membri della stessa stirpe. Dalle iscrizioni si ricavano i nomi di diverse magistrature, ma non sono esattamente definibili le funzioni dello zilath, del purth o del maru. Di fronte alla classe privilegiata, la plebe era in gran parte in condizione di clientela o, forse, di servitù della gleba.
 
 
Nella prima metà del VII secolo a.C., gli etruschi dei principali centri del Sud hanno già portato a compimento il processo di urbanizzazione e danno inizio a una vicenda che li vedrà per un secolo e mezzo tra i grandi protagonisti della storia mediterranea, insieme ai greci delle colonie e ai fenici di Cartagine.
 
 
Nel VI secolo a.C. l’Etruria divenne il principale mercato dei prodotti artigianali greci. Allo stesso tempo, la vitalità e il dinamismo delle sue città determinò un accentuato sviluppo delle attività produttive destinate non solo al mercato interno ma soprattutto all’esportazione. I centri dell’Etruria meridionale, economicamente e politicamente più potenti, diedero allora inizio a precisi e arditi programmi di espansione che miravano ad assicurare il controllo dei mercati e delle vie di comunicazione. Quindi gli etruschi si volsero verso il vicino Lazio, ma anche verso regioni più lontane che, come la Campania, facilitassero il contatto con il mondo greco, o che, come la Liguria o la Provenza, non disponessero di un’autonoma rete mercantile. Tale espansione avvenne in modi e forme diverse. L’espansione nel Lazio determinò una vera supremazia politica con l’acquisizione di un saldo controllo dei più importanti nodi di traffico: Praeneste (Palestrina) a guardia della valle del Sacco e sede del tempio della Fortuna Primigenia, uno dei più importanti e frequentati santuari d’Italia fino al IV secolo a.C., ma soprattutto Roma che dominava il guado sul Tevere. Qui transitava la più importante via di terra che attraversava l’Italia da nord a sud, passaggio obbligato per i traffici etruschi verso le città del meridione e il mondo greco peninsulare. Nel 616 a.C., secondo la tradizione sostanzialmente confermata dall’archeologia, a Roma si insediò la dinastia di origine etrusca dei Tarquini. La penetrazione in Campania avvenne attraverso l’intensificazione dei contatti con antichi centri di cultura ‘‘villanoviana”, come quello di Capua sul fiume Volturno, di Nola e di Pontecagnano presso Salerno; in Liguria e in Provenza, infine, furono creati scali marittimi e piccoli empori in cui si congiungevano le rotte provenienti dall’Etruria e le vie naturali del retroterra.
 
 
La tradizione riferisce che a Roma regnarono i sovrani etruschi Tarquinio Prisco (616-579 a.C.), Servio Tullio (579-535 a.C.) e Tarquinio il Superbo (535-509 a.C.): ciò in realtà significa che per un lungo periodo Roma fu ‘‘dominata” dagli etruschi. Ecco come, secondo Tito Livio, Tarquinio Prisco riuscì ad assicurarsi il potere:
 
‘‘Lucumone arrivò in città con la moglie Tanaquilla e, presovi alloggio, dichiarò il nome di Lucio Tarquinio Prisco. Il fatto che fosse straniero e molto ricco lo rese subito interessante agli occhi dei romani, e lui faceva di tutto per aumentare la sua popolarità, finché la sua fama giunse alla reggia ... Alla fine il re Anco Marzio, nel testamento, lo nominò tutore dei suoi figli (Alla morte di Anco Marzio) i figli erano ormai vicini alla maggiore età. Per questo Tarquinio si dava daffare perché si tenessero i comizi che dovevano eleggere il nuovo re: appena furono indetti, egli allontanò da Roma i giovinetti organizzando per loro una battuta di caccia ... Tarquinio fu eletto re con il pieno consenso del popolo. E anche quando fu re, quest’uomo di grande valore sotto ogni aspetto, conservò lo stesso desiderio di popolarità che aveva avuto nell’aspirare al potere”.
 
 
Non meno vigorosa dell’espansione via terra, documentata dall’archeologia, fu quella marittima di cui abbiamo notizia dalle fonti letterarie greche (Strabone, Diodoro Siculo, Pausania, Erodoto) che parlano di accese rivalità per il controllo delle rotte e danno notizia di vere e proprie battaglie navali, le prime che si conoscano nella storia dell’Occidente. Il Tirreno era nel VI secolo a.C. teatro di azioni commerciali e piratesche di greci, punici ed etruschi e l’espansione etrusca non poté svilupparsi senza fenomeni di concorrenza e di aperti conflitti con le altre due nazioni mercantili del Mediterraneo. Con i cartaginesi le città etrusche scelsero la via degli accordi, dividendo il Mare Tirreno in zone d’influenza. Una prova di collaborazione tra i due popoli è data dalle lamine d’oro scoperte a Pyrgi, porto di Caere. I rapporti degli etruschi con i greci si configurarono invece in ripetuti scontri avvenuti nel corso del VI secolo e fino agli inizi del V a.C. al largo delle isole Eolie: ad affrontarsi furono i coloni rodii e cnidii di Lipari e gli etruschi di non sappiamo quale città che disturbavano i traffici (o addirittura miravano a porli sotto il loro controllo) attraverso lo stretto di Messina, sulla rotta dall’Egeo al Tirreno. Gli storici greci non hanno dubbi sulla vittorie dei loro connazionali e a conferma citano i doni (bottini di guerra) che i liparesi avrebbero dedicato al tempio di Apollo a Delfi. Si trattava comunque, per il momento, di scorrerie e non di scontri decisivi, ma l’urto violento che avrebbe sancito il dominio etrusco del Tirreno orientale era prossimo.
 
 
La colonizzazione greca in Occidente fu promossa soprattutto da Corinto e Megara. I corinzi si diressero dapprima verso le coste dell’Epiro e dell’Illirico poi si volsero alla Sicilia dove Siracusa rimase a lungo la colonia più fiorente. I megaresi, da parte loro, partendo dalla base siciliana di Mègara Iblea diedero origine ad altre colonie tra le quali Selinunte che era l’ultimo avamposto greco prima degli stanziamenti fenici che avevano i loro centri a Mozia e a Ponormo (Palermo). Un’altra città molto attiva nella colonizzazione fu Calcide, nell’Eubea, che in Sicilia fondò nel 750 a.C. Zancle (Messina) e poco dopo Catania e Leontini (Lentini) alle due estremità della pianura del Simeto; più tardi fu la volta di Cuma, in Campania, dove i calcidesi furono bloccati dagli etruschi che aspiravano anch’essi alle fertili terre campane; i cumani fondarono allora nel VII secolo a.C. Neapolis, la “città nuova” che sostituì l’antica Partenope. Anche Rodi e Creta si inserirono nella colonizzazione della Sicilia con Gela e Akragas (Agrigento); rodii e cnidii (di Cnido, nella Caria) colonizzarono poi le isole Eolie. Le coste del golfo di Taranto e quelle tirreniche della Calabria fino a Posidonia (che i romani chiamarono Paestum) erano occupate da stirpi greche meno progredite culturalmente delle genti corinzie, calcidiche o megaresi, eppure fu proprio questa la Magna Grecia, cioè Grande Grecia perché della madrepatria aveva lo spirito, i principi e la cultura. Taranto, fondata dagli spartani dai quali si staccò completamente come concezione culturale, fu uno dei maggiori centri economici; Locri era colonia delle genti della Locride; Metaponto, Sibari e Crotone furono invece fondazioni achee. La colonizzazione greca si spinge ben oltre le coste dell’Italia meridionale e della Sicilia ma i nuovi arrivati dovettero competere sia con i celti della Gallia che non permisero la penetrazione all’interno pur consentono alle colonie della costa – come Massalia (Marsiglia) dei focesi – di svolgere un’attività essenzialmente commerciale, sia con etruschi e fenici che già si dividevano il dominio del mare Tirreno.
 
 
Uno degli episodi salienti della lotta tra etruschi e greci per il controllo dei traffici marittimi si svolse intorno al 540 a.C. nelle acque del Tirreno, e più precisamente al largo della Corsica. Esso fu provocato dall’intrusione dei focesi nel mare ‘‘di casa” degli etruschi e, in particolare, dalla fondazione della colonia di Alalia (Aleria) sulla costa orientale della Corsica, proprio di fronte alle coste etrusche. Per sfuggire alla minaccia persiana, i coloni di Focea, nella Ionia, si erano trasferiti a più riprese in Occidente e già intorno al 600 a.C. avevano fondato la colonia di Massalia (Marsiglia) alle foci del Rodano, nel territorio dei celti. Naturalmente i massalioti si erano affrettati a installare basi marittime e scali commerciali in Liguria e nel Golfo del Leone che avevano duramente colpito gli interessi degli etruschi e messo in allarme i cartaginesi da poco insediati in Sardegna; tanto più che i greci di Massalia avevano tentato di aprirsi un mercato nel regno di Tartesso dove i fenici avevano forti interessi. Quando l’ultima ondata dei focesi si stabilì sulla costa còrsa facendo di Alalia la base delle loro scorrerie nel Tirreno, gli etruschi furono costretti a reagire: l’iniziativa fu di Caere, forse in quel momento la città più potente, la quale si alleò con Cartagine. I focesi, battuti duramente sul mare, dovettero abbandonare la Corsica per andare a stabilirsi a Elea (o Velia, presso Paestum, in ordine di tempo l’ultima grande colonia della Magna Grecia) e gli etruschi ebbero il controllo della Corsica e dell’Elba. Diodoro Siculo afferma che Alalia fu dagli etruschi ribattezzata Nikaia (Vittoria).
 
 
Lo scontro navale fra etruschi e cartaginesi contro i focesi di Alalia ci è stato riferito da Erodoto che, da greco, cerca di minimizzare la sconfitta focese. Parla infatti di vittoria ‘‘cadmea”, il che equivale a quella che fu poi definita una ‘‘vittoria di Pirro”, cioè con perdite tanto grandi da eguagliare una sconfitta.
 
‘‘Quando i focesi giunsero a Kyrnos (la Corsica), vi soggiornarono per cinque anni insieme ai coloni che vi si erano sistemati precedentemente e vi eressero templi. Poiché intrapresero scorrerie saccheggiando tutte le popolazioni limitrofe, allora tirreni e cartaginesi si strinsero in un accordo e mossero guerra contro di loro, con sessanta navi. I focesi, a loro volta, armarono altre sessanta navi e si diressero contro i nemici nel mare che si chiama Sardonio. I focesi ottennero una vittoria cadmea, poiché quaranta delle loro navi furono distrutte e le restanti venti rimasero inservibili, dato che i rostri erano rovinati. Ritornarono dunque ad Alalia, presero a bordo i figli, le donne e quanti dei loro beni potevano trasportare e, lasciata Kyrnos presero la rotta per Reggio”.
 
Con il tardo VI secolo a.C., nel periodo successivo alla  vittoria di Alalia gli etruschi toccarono l’apice della loro potenza. I trattati con gli alleati cartaginesi garantivano loro l’allargamento della zona d’influenza etrusca su tutta l’Italia continentale, esclusa la Magna Grecia, e il controllo del medio e alto Tirreno. Essi seppero approfittare della favorevole situazione e affermarono la loro presenza sul mare e in terraferma. Con la Corsica in loro possesso fu facile ricucire lo strappo con i greci di Massalia e riorganizzare la rete commerciale lungo le coste a nord dell’Arno appoggiandola alla nuova base strategica di Pisa e ad empori fissi aperti lungo la costa ligure. Per terra, le città dell’Etruria settentrionale interna (Volterra, Chiusi, Volsinii) iniziarono una vigorosa penetrazione verso Nord. Attraverso le facili vallate dell’Appennino (come la valle del Reno, in cui sorse Marzabotto) i coloni dell’Etruria sboccarono nella Valle Padana dove sorse Felsina (l’odierna Bologna), sul luogo del più cospicuo abitato villanoviano, e raggiunsero l’Adriatico, sulle cui rive fu fondata Spina, centro attivissimo di scambio col mondo greco. Se l’area comprendente Marzabotto, Felsina e Spina costituì il nucleo principale dell’Etruria padana, l’espansione etrusca si estese fino a Modena e a Parma e, oltre il Po, a Mantova e a Melpo (forse Melzo, presso Milano), tutte tradizionalmente considerate di fondazione etrusca. Nel resto dell’Italia settentrionale e centrale, anche là dove non si ebbe occupazione diretta da parte degli etruschi, si esercitò però la loro influenza culturale. Verso il 500 a.C., insomma, la civiltà etrusca sembra procedere a grandi passi verso l’unificazione culturale, se non politica, di buona parte dell’Italia, compiendo, con tre secoli di anticipo, quanto riuscirà a Roma dopo la seconda guerra punica. Invece, dopo il VI secolo, subentrò, rapido, il declino.
 
Il prodigioso periodo di fioritura dell’Etruria non dura a lungo, a causa soprattutto della fragilità del ‘‘sistema”. Le singole città-stato, infatti, continuano a operare ognuna per proprio conto, senza programmi di ampio respiro e in assenza di qualsiasi effettivo coordinamento.
 
 
Il cambiamento di tendenza fu piuttosto repentino, tanto che si parla di ‘‘crisi”. Essa viene collegata alla nuova situazione mediterranea conseguente alla guerre persiane e con le contemporanee turbolenze della penisola italiana, ma per le grandi città-stato del Sud la crisi si innestò nei cambiamenti istituzionali che sfociarono nell’instaurazione di regimi repubblicani retti da oligarchie aristocratiche e nella conseguente accentuazione delle tensioni sociali. Una prima crisi si presentò comunque come conseguenza, o contraccolpo, dell’occupazione della Ionia da parte dei persiani (517 a.C.) la quale determinò il crollo del sistema commerciale ionico in cui gli etruschi erano ben inseriti; né migliorarono la situazione le rivalità armate tra le città della Magna Grecia che determinarono, a esempio, la distruzione di Sicari da parte della rivale Crotone (510 a.C.). In più nel 509 a.C. la dinastia etrusca dei Tarquini fu cacciata da Roma con la conseguente rottura dell’equilibrio politico-economico che fino ad allora si era mantenuto tra il Lazio latino e le città dell’Etruria meridionale. Della situazione tentò di approfittare Chiusi, che con il lucumone Porsenna impose alla città la propria effimera egemonia, fino a quando la reazione della greca Cuma, che si alleo con i latini (battaglia di Ariccia, 504 a.C.), spense ogni ulteriore velleità degli etruschi di imporsi sul Lazio.
 
La perdita del Lazio rese più importante la presenza dell’etrusca Capua nel territorio campano. La città, che godeva allora di una splendida fioritura manteneva aperti i contatti via mare con le città-stato dell’Etruria meridionale; non riuscì però, nonostante i ripetuti attacchi, ad avere la meglio su Cuma. La pressione che attraverso Capua le città etrusche mantenevano in direzione della Sicilia provocò la reazione della nascente potenza di Siracusa che nel 480 a.C., avevano bloccato a  Imera i tentativi di espansione dei cartaginesi in Sicilia. Nel 474 a.C. la flotta dei siracusani affrontò e distrusse quella etrusca nelle acque di Cuma, fiaccando, insieme alla potenza navale, l’attività commerciale internazionale delle città etrusche il cui monopolio passò completamente ai cartaginesi. Le grandi metropoli dell’Etruria meridionale (Caere, Tarquinia, Vulci) entrarono in crisi e abbandonarono ogni velleità di riscossa, incapaci anche di impedire scorrerie e saccheggi dei siracusani sulle proprie coste: nel 453 e nel 451 a.C. i siracusani tentarono addirittura di insediarsi nell’Isola d’Elba attratti dalle sue risorse minerarie. Della crisi delle città costiere approfittarono quelle interne legate a un’economia agricola (Chiusi, Arezzo, Cortona, Volterra, Perugia) e che godevano anche delle risorse dello sfruttamento commerciale offerto dai mercati dell’Etruria padana e dei traffici dell’Adriatico.
 
Sul finire del V secolo a.C. iniziò il lento ma progressivo processo di penetrazione romana in Etruria. Esso fu diverso da città a città, a seconda dell’atteggiamento che le classi dominanti assunsero di fronte alla conquista romana, e diverse furono perciò anche le condizioni con cui esse furono ‘‘accolte”, con le buone o con le cattive, nella confederazione romana. Veio, a esempio, dopo uno scontro che si era prolungato per tutta la seconda metà del V secolo a.C., fu distrutta e il suo territorio venne incorporato nello stato romano; Caere invece, legata a Roma al punto di accogliere i profughi romani, con i sacerdoti, le vestali e i simboli sacri dell’Urbe durante il sacco dei galli del 387 a.C., diventerà nel 353 a.C. municipio senza diritto di voto. Di fronte al pericolo reale di un assorbimento o di una conquista da parte dei romani, la reazione degli etruschi furono come sempre prive di qualsiasi coordinamento; anzi, l’esasperato particolarismo e le mai sopite rivalità facilitarono la penetrazione romana e ad una ad una, nel corso del VI-III secolo, le città etrusche persero la propria indipendenza, se non la propria identità. Così nel 351 a.C. Tarquinia, dopo una serie di ostilità con Roma che duravano dal 358 a.C., accettò una tregua di quaranta anni, che sarà rinnovata nel 308 a.C. Nel 302 a.C. Roma intervenne ad Arezzo a favore degli aristocratici locali per sedare un’insurrezione democratica e, di fatto, pose l’oligarchia al proprio servizio. Roselle sarà invece sconfitta nel 283 a.C., come Vulci nel 280 a.C. e Volsinii (Orvieto) nel 264 a.C. Alla fine del III secolo a.C. l’Etruria era ormai completamente nell’orbita romana visto che molte sue  città contribuiranno nel 205 a.C. con aiuti di varia natura alla spedizione di Scipione in Africa, contro Cartagine.
 
 
La repubblica romana era una confederazione romano-italica sotto l’egemonia dell’Urbs, in cui il territorio abitato da cittadini romani rappresentava una parte modesta. Alla confederazione appartenevano sia le città che godevano in pieno dei diritti di cittadinanza romana (municipia optimo iure), sia quelle dotate di larga autonomia amministrativa i cui cittadini, pur usufruendo dei diritti civili, non potevano votare e accedere alle cariche pubbliche (municipia sine suffragio). I rimanenti popoli e città legati a Roma costituivano i confederati (socii, civitates foederatae) e le loro relazioni con l’Urbe erano diverse a seconda se l’accordo era avvenuto pacificamente o in seguito a una conquista. Altro importante elemento dello stato romano erano le colonie dedotte fra i popoli vinti. Esse avevano i propri magistrati e le proprie assemblee ma, in base alla provenienza dei coloni, potevano essere colonie romane con diritto di cittadinanza o colonie latine in condizione simile alle città federate.
 
 
Iniziata nel 447 a.C., la guerra contro Veio ebbe varie fasi e si concluse nel 396 a.C., dopo dieci anni di assedio, con la distruzione della città a opera del dittatore Marco Furio Camillo. Tito Livio racconta così la presa di Veio.
 
‘‘L’elezione a dittatore di Furio Camillo risvegliò la speranza nell’animo dei soldati. Egli ricondusse l’esercito a Veio, cominciò sa far costruire un cunicolo sotterraneo sotto la rocca dei nemici, e questa fu l’opera più grande e faticosa di tutte. Per non interrompere il lavoro e perché i soldati non fossero sfiniti dalla continua fatica sotto terra, Camillo li divise in sei turni. Ogni turno lavorava un’ora su sei e riposava per cinque ore. E si andò avanti giorno e notte finché non fu aperta una via fin dentro la rocca. Il dittatore, che già vedeva la vittoria a portata di mano e pensava che avrebbe preso la ricchissima città e fatto tanta preda in una sola volta, attaccò la città. I veienti non potevano immaginare che le mura fossero state scavate dal di sotto, e che la città fosse già piena di nemici. Infatti, dal passaggio sotterraneo i soldati uscirono proprio all’interno del tempio di Giunone, che era sulla rocca di Veio: mentre alcuni si buttavano sui nemici intenti a difendere le mura, cogliendoli di sorpresa alle spalle, altri spalancarono le porte, altri ancora appiccarono il fuoco alle case. Subito si levò un clamore di gente atterrita, misto al pianto delle donne e dei fanciulli. In un momento la città si riempì di nemici; si combatteva da ogni parte. Infine, dopo la strage, la battaglia languì e Camillo ordinò che non si combattesse contro i cittadini inermi. I soldati, col permesso del dittatore, cominciarono allora a darsi d’attorno a fare preda”.
 
 
Poco prima del 500 a.C. l’Etruria padana fu investita dall’invasione dei galli (o celti), popolazioni indoeuropee che da tempo si erano stabilite in Gallia. Essi penetrarono nell’Italia settentrionale, probabilmente in più ondate, attraverso i valichi delle Alpi occidentali e centrali, ricacciarono o soggiogarono le genti liguri del Piemonte e della Lombardia e si scontrarono quindi contro la resistenza dell’Etruria padana. La tradizione conserva il ricordo di una sconfitta subita dagli etruschi sulla riva del Ticino, tanto che a breve distanza dall’etrusca Melpo sorse un nuovo centro, la gallica Mediolanum (Milano). Più lunga resistenza oppose la metropoli dell’Etruria padana, Felsina; ma anch’essa, alla metà del IV secolo a.C., cedette e divenne la gallica Bononia. Oltre Felsina i galli raggiunsero l’Adriatico e si spinsero fino al fiume Esino, a nord di Ancona. Il territorio conquistato fu diviso tra varie tribù: insubri e cenomani in Lombardia, boi in Emilia, lìngoni in Romagna, sénoni nel Piceno ecc. Né la forza espansiva dei galli si era ancora esaurita: nel corso del IV secolo essi compirono varie escursioni a sud dell’Appennino e giunsero fino a Roma (387 a.C.). Nello stesso periodo dell’invasione dei galli, altri popoli, questa volta italici, si mossero dalle loro sedi della dorsale appenninica. Da quello che era il baricentro della nazione osca, il Sannio, mossero gli irpini che si stabilirono tra Benevento e Venosa, i lucani che dilagarono fino allo Ionio, i bruzi che raggiunsero la Calabria e i campani che, con altre tribù affini, occuparono la Campania. Qui le tribù italiche sommersero sia gli etruschi che i greci: Capua cadde in loro potere nel 423 a.C., Cuma due anni dopo.
 
 
L’ultimo periodo della storia etrusca è stato definito dell’Etruria federata, in quanto le città-stato, costrette a federarsi con Roma, confondono da ora in poi, pur conservando una peculiare identità, le loro vicende con quelle dell’Urbe e dell’Italia progressivamente unificata dai romani.
 
 
La federazione tra Roma e le città etrusche fece parte della più grande federazione romano-italica organizzata da Roma su tutta la penisola, e nella quale i rapporti e i vincoli di alleanza riguardavano esclusivamente ogni singola entità e la città egemone. A fondamento del nuovo ordine stavano cioè i trattati che presentavano, a seconda dei casi, clausole diverse da città a città, particolarmente dure per quelle che più direttamente e duramente si erano opposte a Roma. Alcune metropoli (come Vulci, Tarquinia, Caere) persero addirittura ampie parti dei loro territori dove Roma fondò, durante il III secolo a.C., colonie proprie (è il caso di Fregene, Gravisca, Cosa ecc.). A tutte le città i patti imposero di rinunciare a qualsiasi azione politica autonoma, di riconoscere come propri nemici i nemici di Roma, di fornire a questa aiuti in caso di bisogno, di mantenere gli ordinamenti istituzionali fondati sul potere delle oligarchie, di accettare o richiedere l’intervento di Roma in caso di gravi turbamenti sociali o politici interni. In cambio della perdita della sovranità, alle città etrusche fu consentito di continuare a vivere secondo le proprie tradizioni, di mantenere le proprie leggi, la propria lingua e la propria religione. La rottura dei patti prevedeva dure e immediate sanzioni: quando nel 264 a.C. Volsinii cacciò gli esponenti dell’oligarchia dominante, la città fu distrutta dai romani e gli abitanti deportati in una nuova sede, il sito dell’attuale Bolsena (Volsinii Novi).
 
 
Dopo che Roma, a seguito della prima guerra punica, sostituì Cartagine nel controllo del Tirreno, l’Etruria divenne la base delle operazioni romane contro i liguri e contro i galli che, nelle loro frequenti incursioni, si spinsero fino a Talamone (225 a.C.). L’impresa di  Annibale del 218 a.C. toccò solo marginalmente l’Etruria, ma risvegliò qualche sopito desiderio di rivalsa e persino qualche seria agitazione, ma i patti vennero fondamentalmente rispettati. Le città etrusche fornirono anzi il loro contributo alla resistenza e poi alla reazione romana prendendo parte all’allestimento della spedizione di Scipione contro Cartagine. In questa occasione Caere fornì frumento e viveri di vario genere; Tarquinia tela di lino per le vele; Roselle, Chiusi e Perugia legname per la costruzione delle navi e frumento; Populonia ferro; Volterra frumento; Arezzo, che più di ogni altra città etrusca era stata sospettata di simpatie verso Annibale, si riscattò con 3000 scudi e altrettanti elmi, 100 mila giavellotti, 100 mila moggi di grano e rifornimenti di ogni genere per 40 navi. Il contributo etrusco durò poi per tutto il II secolo a.C. nelle numerose guerre che condussero Roma alla creazione del suo impero. Tra il 90 e l’89 a.C., durante la guerra civile, l’Etruria si trovò in gran parte schierata con la fazione popolare guidata da Caio Mario e per questo subì le pesanti vendette di Lucio Silla quando questi, sconfitti i mariani, divenne dittatore e padrone dello stato: Arezzo Fiesole e Volterra furono saccheggiate e private della cittadinanza romana. Nel 63 a.C. l’Etruria appoggiò la congiura di Catilina che proprio a Pistoia venne sconfitto e ucciso l’anno successivo; nel 14 a.C. Perugia fu messa a ferro e fuoco da Ottaviano per aver accolto fra le sue mura Lucio, fratello del rivale Marco Antonio. Nel 27 a.C. quando Augusto divise la penisola italiana in XI regioni, la VII fu l’Etruria.
 
 
Gli etruschi erano concordemente celebrati dagli antichi come ‘‘costruttori di città” e diffusa era la convinzione che essi fossero stati i primi ad attuare in Italia il modello della struttura urbana. In effetti, mentre nella penisola la maggior parte delle popolazioni continuava a vivere nella tradizione storica del ‘‘villaggio” gli etruschi, sotto l’influenza del modello greco, si concentrarono in organismi urbani. ‘‘Civiltà della città”, quindi, quella degli etruschi, intesa non solo nel senso fisico e materiale, ma soprattutto nel senso politico e ideologico che fa della città l’organismo e il centro in cui sono ordinate e concentrate tutte le strutture del vivere insieme.
 
 
Degli aspetti e delle consuetudini della vita quotidiana, pubblica e privata, degli etruschi non ci è giunta alcuna documentazione letteraria diretta, mentre abbiamo, per fortuna, un’importante fonte complementare costituita sia dagli oggetti portati in luce dall’archeologia e rinvenuti per la maggior parte nelle necropoli, sia dalle rappresentazioni figurate con scene di vita presenti nelle tombe; queste ultime, tra l’altro, ci consentono di reintegrare nell’uso quotidiano gli stessi oggetti reali.
 
 
Il ruolo di sostanziale parità sociale che nel mondo etrusco la donna ebbe nei riguardi dell’uomo scandalizzò i greci che confinavano spose e figlie nel gineceo ad occuparsi esclusivamente dei lavori domestici. Le donne etrusche, come appaiono nelle rappresentazioni figurate, partecipavano alle varie fasi del banchetto distese sullo stesso letto dell’uomo, così come insieme prendevano parte alle diverse manifestazioni della vita quotidiana che si svolgevano fuori delle pareti domestiche (gare atletiche, spettacoli, cerimonie ecc.). Il fatto che in molte pitture le donne a banchetto abbiano un velo sulla testa le qualifica come mogli e non come cortigiane. La parità è dimostrata anche in altri ambiti, per certi versi più significativi. L’indicazione onomastica ufficiale dei cittadini di pieno diritto, contrariamente all’uso invalso in Grecia e a Roma, era completata spesso col nome del padre e con quello della madre; inoltre una donna etrusca, che non fosse schiava, era denominata sempre con un nome personale e uno di famiglia, mentre delle più illustri donne romane ci sono giunti solo i nomi di famiglia (Cornelia, Calpurnia ecc.). In molte iscrizioni, poi, la proprietà di un oggetto è attribuita a una donna, segno di parità anche giuridica. Alle donne venivano inoltre dedicati gli stessi riti funebri degli uomini ed erano titolari di tombe, come dimostrano alcune iscrizioni della necropoli del Crocefisso del Tufo a Orvieto.
 
 
 
In Grecia, e specialmente ad Atene, le sole donne a partecipare ai banchetti e alla vita pubblica con gli uomini erano le ‘‘etere”, ossia le ‘‘compagne” o cortigiane. Per questo i greci si stupivano e si scandalizzavano della libertà di cui godevano le ‘‘matrone” etrusche e condannarono l’intera vita privata dei ‘‘tirreni” con il marchio di sfrenata lussuria e di scostumatezza. Tra i più accaniti detrattori c’è lo scrittore Teopompo (IV secolo a.C.), per altro definito maledicentissimus, la lingua più velenosa della letteratura greca, da Cornelio Nepote (I secolo a.C.). Scrive Teopompo:
 
‘‘In occasione di riunioni di società o di parentado i tirreni si comportano come segue: anzitutto, quando hanno finito di bere e si dispongono a dormire, e mentre le fiaccole sono ancora accese, fanno entrare i servi, ora cortigiane, ora bellissimi giovani e qualche volta le loro mogli. Dopo aver soddisfatto le loro voglie con le une e con gli altri, fanno coricare giovani vigorosi con questi o con quelle. Fanno all’amore e si danno ai loro piaceri talora alla presenza gli uni degli altri... Le donne curano molto il loro corpo, fanno ginnastica con gli uomini e spesso si presentano nude. Banchettano accanto non ai propri mariti ma a chi capita, bevendo alla salute di chi vogliono. Sono anche grandi bevitrici e belle”.
 
 
I dati relativi al banchetto, espressione della potenza e ricchezza di un signore, si ricavano dalle fonti figurate, numerosissime tra il VII e il II secolo a.C.
Il banchetto solenne si articolava in due momenti successivi: quello in cui si mangiava, e quello (simposio) in cui ci si intratteneva, bevendo, in conversazione o in giochi di società. I commensali, da soli o in coppia, si stendevano su bassi letti appoggiandosi col gomito sinistro a un cuscino, avvolti spesso in una coperta decorata. Le mogli erano presenti a fianco dei mariti. Le mense venivano imbandite con carne e selvaggina, formaggi, focacce, pani, uova, dolci a forma di piramide, melagrane, uva, salse per il condimento. I rifiuti del pasto erano gettati sul pavimento e mangiati dai cani presenti nella sala insieme a gatti e a gallinacei. La bevanda era il vino, che veniva mischiato all’acqua in un grande vaso dalla bocca larga, da cui giovani coppieri attingevano con crateri, anfore e brocchette per servire i convitati. La riunione era allietata da musici, danzatori e danzatrici, acrobati. Sappiamo che presso i greci, argomento frequente di conversazione durante il simposio era la mitologia; per gli etruschi è logico supporre che essa si adattasse al tipo di riunione: festino, cerimonia funebre, banchetto familiare.
 
 
Come testimoniano le fonti antiche e le rappresentazioni figurate, gli etruschi davano una grande importanza alla musica, sia vocale sia strumentale. Essa non serviva solo a rallegrare i conviti, a regolare i movimenti della danza, a enfatizzare i riti e le cerimonie sacre o a infiammare gli animi dei combattenti, ma dirigeva anche la caccia, ritmava le gare sportive, scandiva persino le nerbate che venivano inflitte ai servi negligenti; a suon di musica (come si vede in una tomba di Orvieto) veniva impastato il pane e preparati i cibi. Gli strumenti musicali – e di conseguenza il ritmo, l’armonia, il carattere – erano di derivazione greca e tra essi si preferiva il doppio flauto e la cetra; la tromba sembra invece un’invenzione etrusca. Alla musica si univa frequentemente la danza. Nelle figurazioni funerarie appaiono spesso danzatori (isolati, in coppia o a gruppi) i cui atteggiamenti suggeriscono un tipo di danza molto scandita e ritmata (quasi certamente a tre tempi), con movimenti rapidi e decisi della testa e delle mani. Lo stretto rapporto esistente tra musica e gesto ritrovava forse espressione negli spettacoli scenici in cui appariva il mimo (histrio, da cui il nostro ‘‘istrione”) che si esibiva mascherato accompagnato dal flauto.
 
 
Fonti iconografiche dimostrano come la caccia, soprattutto degli animali di grossa mole, fosse molto diffusa fra l’aristocrazia etrusca. Era praticata ‘‘a suon di musica”, con reti e trappole ma anche con giavellotti, archi, spiedi e asce. Per i cervidi si faceva ricorso ai cani che inseguivano e attaccavano la preda, e s’impiegava talvolta un cervo da richiamo, tenuto con una briglia dal cacciatore. Per il cinghiale si organizzavano vere e proprie battute, con appostamento lungo i sentieri più frequentemente percorsi dall’animale. Gli etruschi dei ceti meno abbienti cacciavano animali selvatici più piccoli, utilizzando archi, fionde e trappole. Per la caccia alla lepre, oltre ai cani, si utilizzava un bastone ricurvo, il “legabolo”, per snidare e abbattere l’animale. Anche il pesce ebbe, nell’alimentazione etrusca, un ruolo importante. Ami, arpioni, fiocine, reti, lenze, pesi di vario genere e misura testimoniano sin da epoca molto antica quanto diffusa fosse la pesca nei mari (specie ai tonni), nei fiumi e nei laghi italiani. Rarissime però, a differenza della caccia, sono le raffigurazioni pittoriche, poiché la pesca fu sempre considerata un’attività modesta e poco gloriosa.
 
 
Claudio Eliano (170-235 d.C.), autore di un Trattato sulla natura degli animali in cui riferiva un gran numero di curiosità e stranezze sul loro comportamento, scrisse a proposito della caccia a cinghiali e cervi:
 
‘‘Si dice frequentemente in Etruria, dove i cinghiali e i cervi vengono catturati come di consueto con l’impiego delle reti, che aiutandosi con la musica il successo è maggiore. Ecco come: si tendono le reti e si piazzano le trappole, quindi viene fuori un flautista di talento che, evitando i toni alti, esagera quelli più dolci che il doppio flauto sa produrre. Nel silenzio più assoluto questa musica arriva fin sulle cime dei monti, nelle vallate e nei boschi e penetra in tutti i covi e i nascondigli degli animali. Questi dapprima rimangono stupiti e terrorizzati, poi il puro e irresistibile piacere della musica s’impadronisce di loro e, affascinati, abbandonano i cuccioli, la tana e i sentieri più nascosti dai quali non amano normalmente allontanarsi. Così gli animali delle foreste tirreniche, trascinati dal potere della melodia e come stregati, s’avvicinano e, vittime della musica, entrano nelle reti”.
 
 
Come per tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche nel caso dei giochi atletici e delle gare sportive le notizie che abbiamo provengono dalle rappresentazioni figurate. Delle manifestazioni sportive testimoniate presso gli etruschi alcune sono documentate contemporaneamente anche in Grecia, altre non hanno invece riscontro nel mondo greco e appartengono alla tradizione locale. Come i greci, gli etruschi si cimentavano nella corsa podistica, nella corsa dei carri, nel salto in lungo, nel lancio del disco e del giavellotto, nel pugilato, nella lotta; tipicamente etruschi sono invece il gioco di Troia e del Phersu. Il primo (ludus Troiae), descritto dagli scrittori classici romani, era un’esibizione di eleganza e di destrezza riservata ai giovani nobili che non superassero i diciassette anni: armati di tutto punto e in sella a un cavallo, compivano evoluzioni seguendo lo schema ideale di un labirinto concentrico. Di tutt’altro genere era il Phersu, di cui abbiamo una rappresentazione nella Tomba degli Aùguri di Tarquinia: un uomo incappucciato, con in mano un bastone, cerca di difendersi dagli assalti di un cane inferocito, tenuto a un lungo guinzaglio e aizzato da un personaggio con copricapo e maschera che un’iscrizione denomina Phersu (è evidente l’accostamento alla parola latina persona, che significa appunto ‘‘maschera”). Il carattere violento e cruento del Phersu richiama i giochi gladiatori che i romani dicevano essere di origine etrusca. Giochi atletici e gare facevano parte delle celebrazioni funebri, ma non ebbero però solo carattere funerario; si svolgevano infatti anche nei santuari in occasioni di feste o di riunioni straordinarie.
 
 
Le vesti etrusche erano realizzate in lana e in lino, diverse per resistenza, morbidezza e protezione dal freddo. Le fibre venivano filate dalle donne, anche di alto lignaggio ma, tra esse, solo alcune si specializzavano nella tessitura, che veniva tramandata di madre in figlia. Nei periodi più antichi le donne indossavano tuniche e mantelli, probabilmente ornati da disegni geometrici e un cinturone ellittico di cuoio con una lamina di bronzo sul davanti. L’abbigliamento maschile non era dissimile da quello femminile e comprendeva anche diversi tipi di perizoma variamente panneggiati che nelle stagioni più calde sostituivano ogni altro indumento; la nudità completa, del resto, non dava scandalo. Dal VI secolo a.C. il capo di vestiario più diffuso per entrambi i sessi divenne il chitone (la tunica di varia lunghezza cucita su un fianco e fissata alle spalle per mezzo di fibule) che poteva presentare pieghettature, fasce colorate all’orlo oppure una decorazione dipinta o ricamata. Sopra, o in alternativa al chitone, erano indossati mantelli di vari tipi, il più comune dei quali era la tabenna semicircolare, portata come uno scialle in modo da lasciare una spalla scoperta, mentre i due lembi si sovrapponevano sull’altra. Le stoffe, come mostrano le pitture, erano colorate con vivaci accostamenti di azzurro, rosso, nero, giallo verde, sia in campiture che in fasce. Anche le calzature (sandali di cuoio, pantofole di panno, stivaletti dalla punta ricurva e con lacci alla caviglia) erano colorate, dorate o ricamate. I copricapi erano molti e vari: tra i più singolari quello ‘‘a sombrero” e il berretto a punta cilindrica usato dagli arùspici. Uomini e donne facevano grande uso di ornamenti in metallo come spilloni, fibule, cinture e di gioielli in genere.
 
 
L’assetto sociale degli etruschi era basato sulla rigida suddivisione in due strati distinti e contrapposti: da una parte stava la potente e ristretta classe aristocratica, quella che secondo la terminologia latina comprendeva i domini (signori); dall’altra la massa della popolazione subalterna, i servi, che svolgeva attività non specifiche né socialmente caratterizzanti.
 
 
 
Sul finire del IX secolo, all’interno della primitiva società villanoviana, cominciò a determinarsi in Etruria la differenziazione sociale che divenne un fatto compiuto tra la metà dell’VIII e quella del VII secolo a.C. Il potere passò allora in mano a famiglie ricche e potenti che in piccoli gruppi (casati) si riconoscevano discendenti da un antenato comune (come le gentes dei romani). La nascita dei gruppi gentilizi trova conferma anche nell’onomastica: abbandonata la vecchia formula del nome individuale seguito dal semplice patronimico (‘‘figlio di”), i nobili adottano l’uso di far seguire al loro nome proprio quello del casato, derivato dal capostipite e passato di padre in figlio. I membri di questa aristocrazia, i domini o signori, non svolgevano alcuna attività produttiva che giudicavano degradante, ma detenevano le leve del potere politico ed economico e le funzioni di guida della comunità. Erano i possessori di terra che mostravano il loro potere, oltre che nella ricchezza dei beni, nell’esercizio delle attività militari. Nel VI secolo, emersero anche le famiglie dei proprietari terrieri appartenenti al ceto medio – che spesso derivavano dai rami cadetti delle famiglie aristocratiche cittadine – le quali finirono con il dar vita a una nuova e più ampia aristocrazia che mise fine al ristretto dominio oligarchico.
 
 
I servi erano esclusi dalle attività imprenditoriali e dal possesso della terra, non avevano il diritto di esercitare cariche pubbliche, non potevano entrare nell’esercito e tanto meno unirsi in matrimonio con membri dell’aristocrazia. Erano solo dei lavoratori legati da vincoli personali alle casate nobiliari, dalle quali dipendevano completamente. In linea di massima essi si distinguevano nella categoria dei servi domestici (a metà tra il libero e lo schiavo) addetti alla casa e al servizio personale del signore e della sua famiglia, e in quella dei contadini, veri e propri servi ‘‘della gleba”, distribuiti sulle proprietà fondiarie del dominus e perciò fuori dalla città. All’atto pratico questa situazione dovette configurarsi in maniera più sfumata. In alcuni potentati e col passare del tempo, essa si stemperò in una sorta di  gerarchismo della classe subalterna e i servi, che non erano schiavi nel senso classico del termine, occuparono livelli diversi di soggezione, godendo quindi di vari stadi di pur relativa libertà, anche con possibilità di concreti miglioramenti. Questo stato di cose è confermato dall’archeologia: nelle necropoli, attorno alle grandi tombe gentilizie, sono spesso presenti tombe minori destinate a famiglie subalterne.
 
 
Tra il VII e il VI secolo a.C., con il definitivo affermarsi della città e dell’organizzazione urbana, si istituì all’interno della classe subalterna una sorta di  gerarchismo. Gli artigiani e i mercanti si arricchirono con le attività produttive o con gli scambi e, pur restando sottoposti all’aristocrazia, seppero conseguire quelle prerogative da cui prima erano esclusi, cioè il possesso di beni e l’uso delle armi che costituivano la ‘‘patente” di cittadino a tutti gli effetti. Inoltre, nella prima metà del IV secolo a.C. cambiò – soprattutto nell’Etruria meridionale – il rapporto tra città e campagna. Per rivitalizzare i centri minori si sviluppò una sorta di ‘‘colonizzazione interna” che portò alla nascita di un numeroso e prospero ceto medio di proprietari terrieri. Più tardi, e soprattutto nell’Etruria settentrionale, i servi della gleba si emanciparono e si trasformarono in coltivatori diretti, proprietari e conduttori di piccoli appezzamenti di terreno, che vivevano dispersi in numerosi insediamenti rurali. Il bipolarismo di fondo della società etrusca venne così temperato da questa nuova e varia classe intermedia, contro la quale la rigida chiusura dell’oligarchia non tarderà a provocare un aperto conflitto, mai completamente risolto (solo attenuato a volte) neppure in età romana.
 
 
La documentazione diretta per quanto riguarda la vita pubblica e l’assetto istituzionale degli etruschi comincia ad essere soddisfacente solo a partire dal IV secolo a.C.  Per i periodi precedenti, accanto alle frammentarie e spesso confuse informazioni degli autori antichi, ci soccorrono per via indiretta  le verosimili analogie e i parallelismi col mondo greco e con quello romano.
 
 
Il formarsi dell’ordinamento gentilizio fece emergere l’autorità di un capo, di un magistrato supremo, che assunse nelle sue mani la sovranità politico-sacrale. Questo ‘‘re” era detto dai romani lucumone, lauxme o lauxume dagli etruschi. Non sappiamo con esattezza se la carica fosse a vita o temporanea, ereditaria o elettiva; accanto al lucumone doveva comunque esistere un senato di aristocratici, forse di anziani delle casate emergenti, e probabilmente un’assemblea costituita da tutti i cittadini che godevano dei diritti politici. Secondo gli scrittori latini, simboli dell’autorità regale dei lucumoni erano la veste di porpora (toga praetetexta o picta), il trono d’avorio (sella curulis), lo scettro, il fascio con la bipenne ed il carro da guerra, tutte insegna di potere rinvenute durante scavi o su raffigurazioni etrusche che risalgono sino al VII secolo a.C. Nella seconda metà del VI secolo a.C., in coincidenza con il definitivo assetto delle città-stato, il regime monarchico deve essere stato in parte modificato: il lucumone passò nelle mani del sacerdote il potere sacro e assunse con la forza (forse anche in contrasto con l’aristocrazia) il pieno potere politico. Sono note in questa fase numerose figure di re storicamente certi, come i Tarquini e Servio Tullio a Roma, Thefarie Velianas a Caere, Porsenna a Chiusi; costoro svolsero una politica personale molto ambiziosa e fortemente connotata in senso militare, alla stessa stregua dei tiranni greci.
 
 
Tra il VI e il V secolo a.C., come accadde nel mondo greco, in quello latino e in quello fenicio-cartaginese, gli ordinamenti delle città-stato etrusche subirono una crisi sfociata nella costituzione di nuove forme di governo di tipo repubblicano. Si sa che a Roma l’avvento della repubblica fu un’innovazione improvvisa (la cacciata di Tarquinio il Superbo nel 509 a.C.) ma per gli etruschi è più probabile che essa sia stata dovuta a una lenta evoluzione e al progressivo svuotamento dell’istituto monarchico, oppure alla reazione degli aristocratici che non accettavano l’imporsi di singole personalità. Al vertice dello stato repubblicano c’era una magistratura suprema (forse di tipo collegiale e con un presidente) a cui competeva il potere esecutivo e giudiziario. Essa era eletta probabilmente ogni anno tra i membri degli esponenti delle maggiori famiglie aristocratiche che gli autori latini chiamano ‘‘principi” e che nel loro insieme costituivano un’assemblea corrispondente al senato romano. I termini etruschi che indicano i magistrati sono numerosi e non del tutto chiari riguardo le funzioni cui si riferivano: lo zilach indicava forse l’equivalente del praetor latino, ma il titolo era spesso accompagnato da un attributo che ne indicava la particolare funzione; il purth o puthne si pensa equivalesse al pritano dei greci e viene collegato a una qualche attività di capo dello stato; il maru doveva invece svolgere funzioni civili e sacrali. Questa articolazione amministrativa, che facilitò il predominio dell’oligarchia aristocratica, oltre a impedire l’affermazione di potentati personali, arretrò le concessioni nei confronti degli strati sociali più bassi che inutilmente rivendicarono il riconoscimento di un movimento organizzato, come invece ottenne la plebe romana.
 
 
Le città-stato dell’Etruria erano sovrane e indipendenti, ma tutte insieme si riconoscevano in una superiore comunità etnico religiosa ed erano riunite in una istituzione di tipo confederale che comunemente chiamavano ‘‘lega”. Gli autori antichi parlano di una lega di dodici popoli corrispondenti alle più importanti città-stato dell’Etruria, e analoghe federazioni dovettero esistere anche nell’Etruria padana e campana. A capo della lega si trovava probabilmente lo Zilach Mecl Rasnal, ovvero il “pretore dei quindici popoli”, che continuò ad esistere anche quando Roma trasformò la confederazione in una semplice associazione religiosa. I rappresentanti delle città, costituita dal monarca, da un littore e da altri personaggi che davano vita a spettacoli, feste e giochi, si riunivano periodicamente nel santuario di Voltumna a Volsinii per discutere i problemi comuni, politici e militari, della nazione etrusca. Le consultazioni erano dirette da un ‘‘re” comune eletto tra i reggenti delle città. La lega fu sciolta dai romani nel 265 a.C. quando i centri confederati erano diventati quindici.
 
 
La religione etrusca parte dall’idea che la natura dipenda strettamente dalla divinità. Ogni fenomeno naturale non è altro che l’espressione della volontà divina, un segnale che essa invia all’uomo. E all’uomo, destinatario di quel segnale, spetta il compito di scoprirne il significato. Dice Senaca ‘‘Noi romani riteniamo che i fulmini scocchino quando c’è stato uno scontro di nuvole; gli etruschi credono invece che le nuvole si scontrino per far scoccare i fulmini. Dal momento che attribuiscono ogni cosa alla divinità, essi sono convinti che le cose avvengono perché debbono avere un significato”.
 
 
Gli autori latini erano concordi nel definire gli etruschi un popolo religiosissimo esperto nell’arte divinatoria. Ebbero infatti un’articolata letteratura religiosa, oggi purtroppo irrimediabilmente perduta. Esistevano una serie di rigide regole che determinavano il rapporto tra gli dèi e gli uomini (quella che costituiva la ‘‘disciplina etrusca”, ossia scienza etrusca), quindi sul rito e sull’interpretazione della volontà divina. Di queste norme possiamo farci solo un’idea attraverso alcuni passi di Cicerone, Plinio il Vecchio, Livio o Seneca (che si rifacevano a traduzioni che non ci sono pervenute) e tramite rarissimi documenti etruschi come la “mummia di Zagabria” o il  “fegato di Piacenza”. Sappiamo inoltre che quella etrusca fu una religione rivelata attraverso le profezie di esseri superiori come il fanciullo  Tagete e la ninfa Vegoe o Vegonia. Fra gli etruschi delle origini la divinità appare sempre in modo molto impreciso, sia nell’aspetto che nelle mansioni ed è ragionevole pensare che in principio vi fosse un’unica entità divina che si manifestava in molteplici modi, assumendo connotati diversi. Tra l’VIII e il VI secolo a.C. si assiste alla trasformazione della religione etrusca. Dalla Grecia vennero importate in Etruria nuove divinità; quelle indigene assunsero figura umana e col tempo ereditarono le caratteristiche e le mansioni degli dèi dell’Olimpo classico.
 
 
Le più antichità divinità degli etruschi rappresentavano le forze della natura, distruttrici e creatrici al tempo stesso: Tarkun⁄Tarconte era il dio della tempesta, distruttore ma anche dispensatore di benefica pioggia; Velka era il dio del fuoco e, insieme, della vegetazione. Sommo dio dell’Etruria – dice Varrone – era Velthune (in latino Vertumnus o Voltumna), il Multiforme, che rappresentava l’eterno mutare della stagioni ed era adorato nel santuario federale di Volsinii. All’antico pantheon appartenevano anche gli dèi Selvans (Silvano) e Ani (poi Giano) e la dea Northia, divinità probabilmente del fato. Dal VII secolo a.C. molte divinità di fondo originariamente etrusco vennero assimilate agli dèi olimpici: la divinità superiore Tinia (o Tin), rappresentata sempre col fulmine, fu l’equivalente di Zeus ossia Juppiter (Giove); lo stesso avvenne con Uni, compagna di Tinia, che divenne Hera, ossia la Iuno latina (Giunone). Turan, la dea dell’amore, fu assimilata ad Afrodite e quindi alla Venus (Venere) latina; Menerva ad Athena (Minerva); Maris ad Ares (Marte); Nethuns a Poseidon (Nettuno); Turms a Hermes (Mercurio). Ci furono anche dèi nuovi, importati direttamente dal mondo greco, che conservarono il loro nome appena etruschizzato: Artemis (ossia Diana) divenne Aritimi, Apollon (Apollo) fu chiamato Apulu, Heracles (Ercole) cambiò in Hercle. Controversa è l’origine etrusca delle ‘‘triadi” che conosciamo con certezza soltanto nel mondo romano: non è chiaro se la triade capitolina Giove-Giunone-Minerva corrisponda a Tinia-Uni-Menerva. Di sicura origine greca sono invece le coppie (‘‘diadi”), come quella degli dèi infernali Ade e Persefone (in etrusco Aita e Phersipnai).
 
 
 
Secondo gli etruschi gli dèi condizionavano il mondo e ogni azione umana: occorreva quindi ‘‘tradurre” la loro volontà andando in cerca dei segni attraverso i quali essa si manifestava. Perciò era necessario avere a disposizione un codice che interpretasse quei segni e un prontuario di norme precise e costanti che per ogni segno indicasse il conseguente comportamento atto a soddisfare (e quindi a seguire) la volontà degli dèi. Questo complesso di conoscenze fu chiamato dai romani ‘‘disciplina etrusca” i cui principi ispiratori erano fatti risalire dagli etruschi all’intervento rivelatore della stessa divinità. Essa si sarebbe servita di esseri mitici o semidei (come il fanciullo Tagete o la ninfa Vegoe) i quali avrebbero ‘‘dettato” le verità soprannaturali e insegnato agli uomini l’arte di avvicinarsi ad esse: in pratica la divinazione. Appositi collegi sacerdotali, che si tramandavano la professione di padre in figlio, erano preposti all’interpretazione dei segni della volontà divine: i fulguratores osservavano le traiettorie dei fulmini, gli àuguri interpretavano i voli degli uccelli, gli arùspici leggevano il fegato delle pecore e di altri animali sacrificati. Le dottrine divinatorie, e tutte le altre che formavano il corpus minuzioso e vastissimo dei riti etruschi, erano tramandati nei testi della cosiddetta ‘‘disciplina etrusca”: i Libri Haruspicini, svelati dal fanciullo Tagete, trattavano la consultazione delle viscere degli animali; i Libri Fulguratores, il cui contenuto era stato manifestato dalla ninfa Vegoe, riguardavano la scienza dei fulmini; i Libri Rituales, svelati anch’essi dalla ninfa Vegoe, trattavano della suddivisione della volta celeste, della gromatica (ripartizione dei campi), dei riti e delle modalità per la fondazione delle città e per la consacrazione dei santuari, e infine degli ordinamenti civili e militari. Esistevano poi i Libri Acherontici, svelati da Tagete, che esponevano le credenze nell’oltretomba e dettavano le norme per i riti di salvazione. Infine v’erano i Libri Fatales, nei quali si trattava dei dieci secoli di vita assegnati dal Fato alla nazione etrusca, e i Libri Ostentaria che trattavano dell’interpretazione dei prodigi e dei fenomeni naturali.
 
 
 
Usando come fonti Aulo Cecina, Nigidio Figulo e altri traduttori del I secolo a.C. che si occuparono della ‘‘disciplina etrusca” Cicerone (106-43 a.C.) scrive nel suo De divinatione (Sulla divinazione) a proposito delle profezie di Tagete:
 
‘‘Si racconta che Tagete sia spuntato improvvisamente dalla terra nel territorio di Tarquinia mentre si arava e si era fatto un solco molto profondo, e abbia parlato all’aratore. Si dice anche che Tagete, stando alle testimonianze dei libri sacri etruschi, avesse l’aspetto di bambino e la saggezza di un anziano. Alla sua vista il bifolco si stupì e mandò un grido di meraviglia, ci fu un accorrere di gente e in breve tempo si raccolsero colà tutti gli etruschi; allora Tagete parlò di parecchi argomenti alla gran folla in modo che le sue parole fossero recepite e messe per iscritto. Il suo discorso conteneva i precetti dell’aruspicina la quale, col passare del tempo si accrebbe di altre nozioni che comunque s’ispirarono agli stessi principi insegnati da Tagete”.
 
 
 
Alla ninfa Vegoe (Vecu, in etrusco) è attribuita una profezia che riguarda il rispetto della proprietà dei campi tramandata da un testo latino di autore ignoto.
 
‘‘Chi toccherà o smuoverà queste pietre (di confine) per aumentare i propri possessi e diminuire quelli degli altri, sarà punito dagli dèi per tale delitto. Se lo faranno gli schiavi, peggioreranno la loro condizione servile. Se poi il delitto sarà fatto con la complicità del padrone, entro breve tempo la sua casa sarà distrutta e la sua gente perirà. Gli esecutori materiali del delitto saranno colpiti da gravissime malattie e da ferite e rimarranno paralizzati nel corpo. Anche la terra sarà sconvolta da tempeste e da turbini e da distruzione. I frutti saranno colpiti e cadranno per la pioggia e la grandine, marciranno per il caldo eccessivo e cascheranno per malattia. Ci saranno anche discordie civili. Sappiate che queste disgrazie avverranno quando saranno commessi delitti come quelli detti ora.”
 
 
Il segno più importante, la ‘‘voce” più potente della divinità era il fulmine, che proveniva direttamente dal dio supremo Tinia; l’ars fulguratoria, cioè quella di trarre dalla sua osservazione tutte le informazioni possibili, era quindi al primo posto nella divinazione etrusca. Era regolata da una casistica alquanto complessa che teneva conto della parte del cielo in cui il fulmine appariva (la volta celeste era divisa in sedici parti, abitata ognuna da una divinità), della forma, del colore, degli effetti provocati e del giorno della caduta. Oltre all’osservazione dei fulmini (cheraunoscopia) c’era un’altra forma di divinazione molto generalizzata alla quale era possibile ricorrere ogni volta che fosse ritenuto utile o necessario senza dover attendere altre forme di prodigi dipendenti invece dal caso, come appunto il fulmine. Era l’epatoscopia, o lettura del fegato degli animali sacrificati, che i romani chiamavano haruspicina. Il fegato, la cui immagine si riteneva fosse proiettata la divisione della volta celeste, veniva strappato ancora palpitante dal corpo dell’animale (pecora, bue, cavallo) e se ne osservavano le regolarità e irregolarità a ognuna delle quali era attribuito un messaggio. Per questo venivano usati degli appositi modelli in bronzo o in terracotta sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle divinità. Fra i modelli giunti sino a noi il più celebre è il ‘‘Fegato di Piacenza”. Oltre al fegato gli arùspici leggevano anche altre viscere come il cuore, i polmoni, la milza.
 
 
 
È il modellino schematico in bronzo, di 12,4 per 6,6 centimetri, datato II-I secolo a.C., del fegato di una pecora, rinvenuto presso Piacenza nel 1877, ma di probabile origine cortonese. La superficie convessa è divisa da una linea in due sezioni dedicate al sole (usils) e probabilmente alla luna (tivs); la superficie concava è divisa complessivamente in quaranta caselle triangolari o rettangolari, ciascuna delle quali è dedicata a una (o a più di una) divinità. Le sedici caselle rettangolari disposte lungo l’orlo del modellino rappresentano le sedici regioni in cui è diviso il cielo secondo le credenze etrusche. Il manufatto aveva forse funzione didattica o, più probabilmente, serviva come guida per le osservazioni del fegato degli animali sacrificati.
 
 
Dopo che i sacerdoti avevano ottenuto attraverso la  divinazione la conoscenza del volere divino, si dava attuazione a tutto ciò che ne derivava dal punto di vista del comportamento, sulla base delle norme che facevano anch’esse parte della ‘‘disciplina etrusca” ed erano oggetto di trattazione nei Libri Rituales. Queste norme si traducevano (e si esaurivano) in una serie impressionante di pratiche, cerimonie e riti rigidamente codificati e ripetuti meccanicamente fino a diventare puro e semplice formalismo. Essi toccavano sia gli aspetti religiosi della vita degli etruschi sia quelli civili, secondo il principio che ‘‘ogni azione umana doveva essere compiuta in conformità della disciplina”. E per ogni rito, cerimonia di culto o servizio divino doveva essere stabilito con precisione il luogo, il tempo, il modo, lo scopo, la persona preposta e, naturalmente, la divinità che veniva chiamata in causa. Le funzioni sacre si svolgevano perciò in luoghi rigidamente circoscritti e consacrati (templi, santuari, altari) e il loro svolgimento era codificato fin nei minimi particolari tanto che, se veniva sbagliato od omesso anche un solo gesto, tutta l’azione doveva essere ripetuta da capo. Musica e danza vi trovavano ampio spazio. Oltre all’uso di sacrificare bovini, ovini e volatili, particolarmente diffuso era quello dei doni votivi che potevano andare dagli ex voto (statue e statuine di divinità e di offerenti), alle prede di guerra (armi, carri), agli stessi edifici sacri (dedicazione di un tempio o di un sacello).
 
 
Tra le pratiche di carattere religioso quelle destinate ai defunti avevano presso gli etruschi un carattere tutto particolare. Esse erano legate alla concezione (del resto diffusa in altre civiltà del Mediterraneo) che l’attività vitale del defunto, la sua ‘‘individualità” continuasse anche dopo la morte e che questa sopravvivenza avesse luogo nella tomba. Spettava però ai vivi, ai familiari e dei parenti, garantire la sopravvivenza dell’entità vitale del defunto al quale doveva essere data una tomba, cioè una nuova casa, e un corredo di abiti, oggetti d’uso personali, cibi, di cui si serviva simbolicamente o magicamente. Per la stessa ragione vitalità e forza venivano trasmesse al defunto con giochi e gare atletiche che si svolgevano in occasione dei funerali o delle ricorrenze anniversarie della morte. Quanto alle pratiche proprie dei funerali, la prassi non era dissimile da quella che avveniva altrove: esposizione del cadavere al compianto pubblico e alle lamentazioni di donne appositamente pagate (prefiche), corteo funebre e banchetto presso la tomba. Il culto della ‘‘sopravvivenza” nel sepolcro era ulteriormente sviluppato nel culto degli antenati e in particolar modo del capostipite, specie delle famiglie gentilizie. Tra il V e il IV secolo a.C., però, la fede della sopravvivenza del morto nella tomba cambiò sotto l’effetto delle suggestioni provenienti dalla civiltà greca. Ad essa si sostituì la concezione di un ‘‘mondo dei morti” (simile all’Averno o all’Ade) dove le ‘‘ombre” soggiornavano. Ai defunti vennero allora dedicati particolari riti di suffragio, stabiliti dai Libri Acherontici, e offerte alle divinità infere (in particolare il sangue di alcuni animali) che potevano consentire alle anime il conseguimento di uno speciale stato di beatitudine.
 
 
Fra i dettami della disciplina etrusca famoso in tutta l’antichità era quello della fondazione di città per il quale erano previste meticolosissime disposizioni. Gli aùguri cominciavano col delimitare una porzione di cielo consacrata proprio in funzione del rito (e definita con il termine significativo di templum) all’interno della quale trarre gli auspici dedotti dal volo degli uccelli che la attraversavano, dai fenomeni meteorologici che in quel perimetro potevano verificarsi, o da altre manifestazione considerate provenienti dalle divinità. Erano poi individuati il centro della città stessa e delle principali direttrici viarie scavando fosse in cui venivano deposte offerte e sovrapposti cippi che fungevano sia da punti di riferimento sia da luoghi sacrali. Veniva poi tracciato con un aratro dal vomere di bronzo un solco continuo che disegnava il perimetro delle mura, interrotto solo là dove si sarebbero aperte le porte delle città; il solco diventava subito linea inviolabile per tutti gli uomini e attraversarlo equivaleva ad attaccare la città. Lungo tutto il perimetro delle mura correva inoltre, tanto all’esterno quanto all’interno, un’ampia fascia di terreno (il pomerium) che non doveva essere né coltivata né edificata e che era dedicata alla divinità. Una solenne cerimonia di sacrificio inaugurava la città così prefigurata. La fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo così come ce l’hanno tramandata le leggende è un’applicazione puntuale del rito etrusco: i gemelli che osservano il volo degli uccelli per decidere chi dei due dovesse dare il nome alla città, il solco tracciato da Romolo, l’uccisione di Remo che, saltando all’interno del perimetro, profana i sacri confini e ‘‘invade” la nuova fondazione.
 
 
La prosperità dell’Etruria era assicurata da una salda e articolata struttura economica, in cui l’agricoltura, già di per sé florida, era integrata in modo decisivo dalle attività industriali - basate soprattutto sullo sfruttamento delle risorse minerarie - e da quelle commerciali che misero in contatto gli etruschi con larga parte del bacino del Mediterraneo.
 
 
L’agricoltura fu una delle principali risorse economiche dell’Etruria antica e gli autori latini (Livio, Ovidio, Columella ecc.) lodano spesso i miracolosi raccolti dei suoi fertili campi. I terreni progressivamente disboscati erano, in alcuni casi, bonificati attraverso complesse opere idrauliche che davano, secondo Varrone, una resa pari a quindici volte il seminato. Frumento, cereali (ceci), olio e vino furono prodotti in abbondanza tale da poter essere esportati in vari centri dell’Italia antica e talvolta, come per il vino, oltremare, in alcuni porti del Mediterraneo settentrionale. Per il III secolo a.C. si può avere una precisa idea delle risorse agricole di alcuni centri etruschi grazie all’elenco degli aiuti forniti a Scipione l’Africano per la sua spedizione contro Cartagine (205 a.C.). L’allevamento invece non fu per gli etruschi particolarmente importante come per altre civiltà del Mediterraneo, ma venne praticato per lo più a livello familiare, sfruttando i verdi pascoli del litorale e delle aree boschive. Oltre a bovini, asini e muli, indispensabili al lavoro dei campi e al trasporto dei carri, si allevavano ovini e suini. A questo proposito lo storico greco Polibio (I secolo a.C.) ricorda gigantesche forme di pecorino del peso di 1000 libbre (327 kg.) e una moltitudine di maiali trascinata da un porcaro sulle rive del Tirreno a suon di musica.
 
 
L’artigianato fiorì in Etruria quando, superata la fase dell’economia di famiglia e di villaggio, le città offrirono una differenziazione più specifica delle attività lavorative. Il primo posto in questo senso spettò alla ceramica che, grazie alle ‘‘novità” apprese dai coloni greci, iniziò una produzione industriale. Dai greci infatti, nella seconda metà dell’VIII secolo, gli etruschi appresero l’uso della ruota da vasaio (tornio), il modo di raffinare l’argilla e di rendere i vasi impermeabili, il gusto per le decorazioni dipinte; nel VII e VI secolo a.C., ceramisti greci immigrati aprirono le loro botteghe in varie città dell’Etruria. Dalle stesse botteghe dei ceramisti uscivano le terrecotte, prodotte in serie con l’impiego di stampi, destinate al rivestimento degli edifici o che costituivano le schiere delle statuette votive. Altra attività artigianale di primaria importanza fu la metallurgia e, in particolare, della lavorazione dei bronzi lavorati con varie tecniche. Connessa a questa attività era la lavorazione dei metalli preziosi che soddisfaceva le richieste dell’élite, specialmente dalla metà del VII agli inizi del V secolo a.C. Va tenuto inoltre conto dell’artigianato del legno e del cuoio, delle stoffe e delle fibre vegetali, del quale però quasi tutto è andato perduto.
 
 
Il commercio etrusco, soprattutto nel VII-VI secolo a.C., fu essenzialmente basato sull’importazione, come è chiaramente dimostrato dalla sproporzione tra i pochi oggetti etruschi rinvenuti in altri paesi rispetto all’enorme quantità di beni stranieri affluiti in Etruria. Gli etruschi esportavano principalmente metalli grezzi (rame, piombo e ferro) estratti in gran quantità dalle miniere dell’alto Lazio e dell’Isola d’Elba. Altri beni di esportazione furono il legname, il sale prodotto nei centri costieri del Tirreno, l’olio e soprattutto il vino. Una gran quantità di anfore vinarie è stata infatti recuperata in numerosi relitti di navi. Al commercio del vino era in parte legato anche quello del bucchero, piccoli recipienti di tipica fattura etrusca adoperati per attingere o bere, rinvenuti in tutto il bacino del Mediterraneo. Con la  battaglia di Cuma (474 a.C.) gli etruschi sconfitti dai siracusani persero definitivamente il controllo del Tirreno, ma alla crisi dei commerci marittimi corrispose un incremento dei traffici lungo le vie dell’interno, con il susseguente affermarsi di alcune città che, come Vulci, esportarono i loro prodotti verso la pianura padana, l’Europa centrale e gli altri centri dell’Etruria antica.
 
 
All’interno della civiltà etrusca l’attività militare aveva valore di distinzione sociale. Essa fu dapprima appannaggio degli aristocratici - i soli in grado di potersi permettere armi ed equipaggiamento - quindi dei ceti emergenti che, una volta progrediti sul piano economico, si mossero alla ricerca di una emancipazione sociale e politica. Durante il periodo ellenistico l’attività militare fu aperta anche agli strati più bassi.
 
 
L’attività militare nel periodo villanoviano era riservata agli individui di ceto sociale più elevato, i quali avevano una disponibilità di beni tale da consentire loro l’acquisto ed il mantenimento di armi (per l’offesa e la difesa personale), carri e di animali (cavalli) da impiegare per scopi bellici. Tra il VI e il V secolo a.C. vennero poi progressivamente ammessi nell’esercito mercenari di professione e uomini provenienti dalle classi meno agiate. La tattica militare consisteva per lo più nel combattimento corpo a corpo con armi adatte agli scontri ravvicinati. Allo scontro individuale si sostituì in età arcaica l’azione della fanteria pesante nella formazione serrata della falange oplitica e le manovre di guerra divennero via via più complesse e organizzate. La cavalleria e i carri, che esercitavano un’azione di disturbo sugli avversari rimasti isolati in battaglia, divennero, con il passare del tempo, sempre più importanti.
 
 
Le armi hanno conosciuto varie fasi all’interno della società etrusca, in stretta relazione con lo sviluppo tecnologico, ma anche politico e sociale.
 
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- Per il periodo villanoviano (IX-VIII secolo a.C.) sono documentati vari tipi di elmi. Quelli a calotta in semplice lamina bronzea decorata, a sbalzo con imbottitura interna e quelli crestati o con appendice superiore.
- In età orientalizzante alla semplice calotta si aggiunse una costolatura superiore e una tesa inferiore per meglio proteggere la testa dai fendenti portati dall’alto. Si diffuse inoltre l’elmo corinzio che tramite un’apertura a T lasciava scoperti solo gli occhi e la bocca.
- Dall’età arcaica (VI secolo a.C.) si ebbe in tutta l’Etruria l’elmo a calotta allungata e cimiero, talvolta con paraguancia mobili.
 
 
- In età villanoviana (IX-VIII secolo a.C.) gli scudi più diffusi erano tondi, in cuoio, rivestiti da una lamina in bronzo sbalzata. All’interno, oltre alla maniglia, una lunga cinghia ne consentiva il trasporto sulle spalle dopo il combattimento.
- In età arcaica la forma dello scudo circolare divenne convessa, e il suo diametro aumentò fino a circa 1 m, per consentire ai soldati posti in linea di ripararsi grazie alla protezione del compagno. Vi erano anche scudi ellittici o quadrati.
 
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- In età villanoviana la lunghezza delle lance era di circa 1,20 m. La punta in bronzo a forma di foglia era dotata di un innesto e di un foro per il fissaggio sull’asta lignea.
- Dal VII secolo a.C. la loro lunghezza aumentò a circa 2 m. Vi erano poi giavellotti più leggeri.
 
 
 
- In età villanoviana (IX-VIII secolo a.C.) venivano adoperate spade prive di guardiamano, con lame in bronzo o in ferro con nervature longitudinali che ne aumentavano la resistenza.
- Nel VII secolo a.C. le spade, per lo più in ferro, furono più resistenti, la lama da triangolare divenne rettilinea per facilitare i colpi di taglio; l’elsa era spesso riccamente decorata.
- Tra il VI e il V secolo a.C. è attestato l’uso della sciabola ricurva (la machaira). Lunga circa 90 cm, era più larga verso la punta in modo da conferire maggior peso al colpo sferrato dall’alto.
 
 
 
- Le corazze furono in origine di tela di lino con borchie quadrangolari o rotonde di metallo laminato. In età ellenistica si adottarono corazze di bronzo a più pezzi o ad un solo elemento riproducente a sbalzo la muscolatura del tronco virile.
 
 
- La loro comparsa intorno al VII secolo a.C. rispondeva all’esigenza di proteggere gli stinchi e i polpacci. In un secondo tempo si affermò anche l’uso dei cosciali formati da due valve in bronzo tenute serrate da cinghie.
 
 
 
In età villanoviana le difese dei villaggi, in aggiunta alla naturale conformazione delle alture prescelte per l’insediamento, erano sommarie: semplici palizzate, fossati e recinti di terra. Con la nascita della città comparvero le ampie cinte murarie curvilinee, realizzate dapprima in mattoni crudi, poi da un paramento in blocchi di pietra poligonale riempito all’interno da terra e scaglie. Queste cinte avevano talora delle porte ‘‘scee”, dotate alla destra di chi usciva di un prolungamento di muraglia che proteggeva, in caso di sortita, il fianco indifeso dei soldati; le porte potevano avere anche una passerella balaustrata in legno, forse coperta. Le strutture difensive vennero poi perfezionate con l’uso di torri con feritoie e di porte ad arco, come quella di Volterra o quella di Perugia dotata di sovrastruttura. Le mura cittadine circondavano un’area maggiore di quella effettivamente abitata, allo scopo di accogliere, in caso di pericolo, gli uomini e il bestiame del territorio. Norme religiose impedivano invece l’utilizzo del pomerium.
 
 
Le prime imbarcazioni etrusche, note sin dal IX secolo a.C., erano di piccola stazza, ma già dotate di chiglia arrotondata. Il dominio etrusco sui mari, giunse al suo massimo sviluppo tra il VII e il VI secolo a.C., ed è testimoniato, oltre che dalle vicende storiche e dai dati dell’archeologia, anche delle fonti letterarie più antiche: già nell’Inno omerico a Diòniso, si citano i pirati ‘‘tirreni” che rapirono il dio e che da lui furono trasformati in delfini. Le navi da guerra presentavano forma allungata con la chiglia carenata. La prua era dotata di un rostro che aveva il duplice scopo di mantenere stabile l’imbarcazione e di speronare le navi nemiche. Questa fu, secondo Plinio il Vecchio, un’invenzione tipicamente etrusca. Una stretta passerella longitudinale univa il ponte di prua a quello di poppa, dove il timoniere manovrava le due pagaie che servivano da timone. Oltre alla vela rettangolare issata ad un pennone pendente dall’albero centrale, la nave veniva mossa da due file di rematori disposti ai lati della passerella centrale. I due grandi mari italiani, il Tirreno e l’Adriatico, derivano il proprio nome dal popolo degli etruschi e da Adria (città portuale veneto-etrusca).
 
 
L’arte etrusca, salvo poche eccezioni, non ha finalità estetiche (l’arte per l’arte), ma nasce piuttosto dalle esigenze della vita quotidiana; essa ha quindi caratteristiche pratiche e utilitaristiche che ne fanno una produzione artigianale, anche se di notevole pregio. Tutte le manifestazioni artistiche degli etruschi sono strettamente legate alla struttura del loro mondo sociale e alla sfera del loro mondo religioso. Non a caso le testimonianze che sono giunte fino a noi provengono, quasi esclusivamente, dai santuari e dalle necropoli. Schemi, tipi, temi compositivi e canoni stilistici dell’arte etrusca hanno come modello prima quelli del mondo orientale (VIII-VII secolo a.C.) poi, più specificatamente, quelli del mondo greco nelle varie fasi della sua evoluzione stilistica (dall’arcaismo, al classicismo, all’ellenismo) che gli artisti etruschi a volte imitarono pedissequamente ma che più spesso rielaborarono per adattarli alle loro esigenze espressive. Dei greci essi trascurarono le forme di espressione artistica ‘‘monumentale” (come l’architettura o la statuaria) mentre ne privilegiarono altre come la coroplastica (l’arte della terracotta), la bronzistica e le cosiddette arti minori (ceramica, oreficeria, lavorazione dei metalli) nelle quali raggiunsero risultati di notevole perfezione tecnica e di elevato valore formale.
 
 
A parte le mura fortificate cittadine, elevate con tecniche diverse, e le porte che in esse si aprivano, l’architettura degli etruschi può essere ricondotta a un’unica tipologia di edifico che è quello della ‘‘casa”: le abitazioni domestiche (le case degli uomini), i templi (le case degli dèi), le tombe (le case dei morti). Ma non si deve dimenticare che la storia della ‘‘nazione” etrusca ha percorso sette secoli di storia, con tutti i mutamenti e le evoluzioni che un tempo tanto lungo impose.
 
 
Nell’età del Ferro le abitazioni erano costituite da grandi capanne a pianta circolare o ellittica, con strutture di pali in legno infissi direttamente nel terreno lungo il perimetro dell’edificio; questi sorreggevano una copertura in stoppie a doppio spiovente il cui trave centrale era sostenuto da un robusto montante posto al centro della capanna stessa. Le pareti erano di fango pressato con una struttura interna di canne intrecciate, mentre davanti all’unico ingresso stava una tettoia sorretta da due pali verticali che proteggeva un piccolo portico. All’interno c’era un unico ambiente che riceveva luce da due finestre ad abbaino aperte al culmine della copertura. L’esterno della costruzione era decorato dalla sagomatura a forma di testa di animale delle terminazioni dei travicelli sporgenti oltre il colmo del tetto e da ornamenti di bronzo appesi alla gronda che tintinnavano al vento. Successivamente, nella fase arcaica, le case assunsero la pianta rettangolare, spesso divisa in due o più ambienti, con pareti in muratura di mattoni crudi o in ‘‘pani” di fango seccati al sole, intonacate e innalzate su fondamenta di pietra. Il tetto mantenne la forma a doppio spiovente ma venne coperto con tegole in terracotta e decorato sul colmo da figure apotropaiche, di fiere fantastiche o di antenati divinizzati. La linea di gronda si coprì dal merletto delle antefisse (decorazione applicate alle tegole curve terminali di ogni filare) che dal semplice ‘‘diaframma” con una palmetta dipinta si mutarono presto in teste in rilievo, libere o circondate da un ‘‘nimbo” a conchiglia. La policromia di gialli, rossi neri, azzurri, verdi, dava a tutti gli edifici un aspetto sgargiante e festoso. Nel periodo ellenizzante apparve un tipo più complesso di abitazione, con ‘‘atrio tuscanico” (teorizzato anche da Vitruvio, il grande architetto di età augustea) attorno al quale si articolavano alcuni vani; si trattava di un ambiente assai semplice, con un tetto spiovente a quattro falde verso l’interno del cortiletto e sorretto da travi di legno incastrate nelle pareti senza appoggi a terra.
 
 
Le tombe sono una sorta di specchio dell’edilizia abitativa e i vasti complessi cimiteriali, con strade, marciapiedi, incroci, piazze e migliaia e migliaia di tombe, costituiscono delle vere e proprie città dei morti. Parallelamente alle abitazioni civili, le tombe conobbero una loro complessa articolazione e cronologia: così dalle semplici tombe villanoviane a pozzetto si passò presto a cassoni di lastre contenenti l’urna o l’orcio con corredo; contemporanee furono le tombe a fossa, dapprima semplici poi con rivestimenti interni o nicchie e vani laterali, nonché gli spazi lastricati e circoli di pietre per indicare l’area di rispetto. Da queste più primitive sepolture derivarono le tombe del tipo a tumulo e a camera sotterranea (alla quale si accedeva tramite un corridoio, dromos) destinate dapprima ai ceti gentilizi: lo spazio sepolcrale divenne più ampio sino a comprendere un gruppo di vani scavati nel tufo (secondo la consuetudine dell’Etruria meridionale) o costruiti con pietrame (secondo il costume delle zone settentrionali). Caratteristiche di questa fase sono le strutture (con copertura a falsa volta e a pseudocupola (cioè con filari di pietre progressivamente aggettanti) di influsso orientale. La somiglianza dell’interno delle tombe con quello delle abitazioni è evidente sia nella ripartizione dei vani e nei relativi accessi, sia nell’imitazione delle travature del tetto e dell’arredo. L’esterno era coperto da tumuli artificiali talvolta anche imponenti. I tipi costruttivi di tombe variarono localmente a seconda della geologia delle diverse parti dell’Etruria. Là dove il tufo formava un alto zoccolo con pareti scoscese le tombe erano interamente intagliate nella roccia viva per ricavarne veri e propri edifici a forma di dado decorati con modanature, false porte rastremate (cioè assottigliate verso l’alto) e addirittura interi porticati. Più tardi, le tombe rupestri riprodussero la facciata o buona parte della struttura di un tempio ellenizzante. Va inoltre ricordato che non mancano esempi di necropoli realizzate secondo una precisa pianificazione preordinata e con criteri  sostanzialmente urbanistici.
 
 
Il tempio è certamente uno dei monumenti più originali ed interessanti dell’architettura etrusca. Rispetto a quello greco, a cui è stato sempre attribuito primato quanto a bellezza ideale e armonia, il tempio etrusco presentava profonde differenze di forme, rapporti e spazi. Sua caratteristica peculiare e costante era quella di essere realizzato con strutture in legno, rivestite e colorate in vivacissime policromie, accostate ai mattoni e alle terrecotte decorative. Anche le proporzioni si discostavano da quelle greche: il tetto amplissimo e aggettante, sia sulla facciata e sul fronte posteriore, sia lungo i fianchi, schiacciavano l’edificio verso terra; le colonne del pronao, molto intervallate e disposte su più file, occupavano quasi la metà dell’alto podio in pietra, al quale si accedeva da una scalinata centrale. Si accentua così quella netta frontalità dell’edificio che era una delle grandi costanti dell’architettura etrusco-italica. La cella, che occupava la restante parte del podio, poteva essere divisa in tre vani oppure fiancheggiata su due lati da colonne. Il frontone lasciava solitamente vedere le strutture in legno del tetto e la testata della grande trave di colmo (columen). Anche l’orientamento dell’asse principale era diverso: est-ovest per il tempio greco, nord-sud per quello etrusco.
 
 
La scultura, come del resto tutta la produzione artistica degli etruschi, punta all’immediatezza e all’effetto, mentre è assente la ricerca formale e sono ignorati i canoni espressivi. Ne risulta una scultura meno raffinata di quella greca, ma più vivace, più spontanea, più popolare.
 
 
A muovere la scultura etrusca fu soprattutto la sfera del mondo sacrale e di quello funerario; mancò del tutto invece la produzione ‘‘profana”, come la cronaca o l’esaltazione di eventi storici (che tanto piacevano agli egizi e poi ai romani), le celebrazioni di benemerenze civiche o di doti atletiche (soggetti consueti dei greci), le scene di genere ecc. L’attenzione degli artisti si concentrò tutta nel soggetto (il defunto) e nel suo significato e vennero ignorati, perché non sentiti o non funzionali, i problemi estetici e quelli della finalità artistica. Gli scultori etruschi rimasero estranei al processo razionale attraverso il quale gli artisti greci, invece, arrivarono alla conquista della forma figurativa e alla teorizzazione dei canoni, un fatto dimostrato tra l’altro dallo scarso interesse per l’indagine anatomica e il nudo. La mancanza di vere e proprie concezioni di fondo impedirono in Etruria la nascita di una qualsiasi ‘‘scuola”. Si colgono tuttavia qua e là nella scultura etrusca le conquiste stilistiche conseguite dai greci: con una certa partecipazione nel periodo arcaico, male interpretate e banalizzate nel periodo classico, ridotte a esercitazioni di maniera nella fase ellenistica.
 
 
Più che scolpire, togliere, ‘‘tirar fuori”, gli artisti etruschi sembrano ‘‘modellare” come si fa con la creta, per cui, anche se nella loro produzione scultorea non sono assenti lavori in pietra, manca la vera e propria statuaria, la scultura per eccellenza. Fu ignorato il marmo – abbondante nei Monti Apuani ai margini dell’Etruria e rimasto inutilizzato fino all’età romana – mentre furono preferiti i tufi, le arenarie, gli alabastri: tutti materiali leggeri e modellabili, che nella resa consentivano effetti propri della lavorazione della creta. Questa mancanza di senso scultoreo, che impedì presso gli etruschi una vera e propria produzione di opere a tutto tondo, condizionò anche quella delle opere in rilievo che per concezione e per esecuzione sono più vicine alle caratteristiche proprie del disegno e della pittura che a quelle della scultura. In età arcaica il rilievo fu infatti concepito con un’esecuzione molto bassa e lineare ma molto descrittiva; in età ellenistica prevalsero le composizioni molto affollate e agitate che denunciano una derivazione da modelli pittorici del mondo greco. Gli effetti pittorici furono poi sempre completati e sottolineati dall’uso di dipingere interamente i rilievi con colori piuttosto vivaci.
 
 
Migliaia sono le statuette devozionali, raffiguranti fedeli e divinità, che si sono rinvenute nei depositi dei santuari e che assai raramente si elevano al di sopra di una produzione di serie; non possediamo invece più alcun esemplare delle statue di culto che gli scrittori romani ci assicurano numerose e tutte eseguite in terracotta. Alla plastica in terracotta è legato il nome di Vulca – l’unico artista etrusco ricordato nelle fonti – che, verso la fine del VI secolo a.C. raggiunse un prestigio così grande da essere chiamato a Roma da Tarquinio il Superbo per la decorazione fittile del tempio di Giove Capitolino. In Vulca si è voluto riconoscere l’anonimo ‘‘maestro dell’Apollo”, autore delle terrecotte acroteriali del tempio di Portonaccio, tra le quali è universalmente conosciuta quella detta Apollo di Veio, capolavoro non soltanto della scultura ma di tutta l’arte etrusca. Pur denunciando la sua derivazione da modelli greci, l’Apollo di Veio (conservato a Roma nel Museo di Villa Giulia) è un’opera originalissima che va oltre le morbidezze stilistiche della statuaria greca. Lo stile vigoroso, la figura incisiva ed elegante, una certa astrazione che si manifesta nel volto raffinato e ironico lo pongono al di fuori di ogni inquadramento schematico.
 
 
Proveniente dalla necropoli di Cerveteri, il sarcofago degli Sposi è scolpito a forma di lettino, sul quale una coppia di coniugi è raffigurata distesa, col busto semi eretto, in atto di partecipare ad un banchetto funebre.
Originariamente il sarcofago era rivestito da una vivace policromia, della quale restano oggi soltanto tenui tracce.
Con il braccio sinistro il marito cinge affettuosamente il collo della sposa, il cui sguardo è rivolto verso lo spettatore. I loro occhi hanno una forma allungata, lievemente rialzata ai lati, le labbra sono increspate in un lieve sorriso.
Ogni singolo dettaglio è modellato con un estremo realismo, dai particolari delle acconciature ai cuscini del letto. Qui posano i piedi, scalzi quelli maschili, calzati in affusolate scarpine quelli della compagna.
Le mani si armonizzano tra loro in un gioco di gesti avvolgenti, capaci di catturare lo sguardo dello spettatore, attratto dalla serenità di animo degli sposi.
Da questo sepolcro, destinato ad accogliere le ceneri dei due coniugi, traspaiono un senso di solennità e un’atmosfera di raffinata eleganza.
 
 
Gli etruschi ebbero nel mondo antico fama di bronzisti, non certo smentita dai numerosissimi ritrovamenti di bronzetti votivi dalla caratteristiche regionali piuttosto marcate (Fiesole, Volterra, Spina) che hanno la plasticità delle terrecotte perché modellati in creta e poi fusi nel bronzo attraverso il passaggio per la fase intermedia della cera. Fortunatamente ci sono giunti anche alcuni grandi bronzi come la Chimera di Arezzo, il cosiddetto Marte di Todi (proveniente da Tuder, che si trovava in territorio umbro, ma attribuibile a una bottega di Volsinii-Orvieto), il lampadario di Cortona, la stessa Lupa Capitolina (senza i gemelli). Sono tutte opere databili tra il V e il IV secolo a.C., il periodo in cui l’Etruria, rimasta estranea al processo creativo dell’arte classica greca, visse una crisi di profondo disorientamento artistico. Le novità stilistiche dei modelli greci furono accolte in queste opere in maniera superficiale o passiva e si giustapposero, senza amalgamarsi, all’istintiva fedeltà alle tradizioni del passato. Più tardi i grandi bronzi etruschi non furono diversi da quelli ellenistici che si limitarono a imitare senza nessun apporto originale, come nel caso del cosiddetto Arringatore (II-I secolo a.C.).
 
 
La statua di bronzo della chimera, scoperta nel XVI secolo, è una delle opere etrusche più belle e celebrate. La belva, con il corpo leonino, la testa di capra sul dorso e la coda di serpente, è rappresentata ferita dalla lotta contro l’eroe Bellerofonte, secondo l’antico mito. La chimera è in posizione di difesa, ma è pronta all’ultimo assalto con la testa sollevata fieramente verso l’alto, le fauci spalancate e la criniera irta. Sul corpo teso dell’animale affiorano sotto la pelle le costole e le vene turgide; la muscolatura è sapientemente modellata. Contrasta con la feroce aggressività del muso del leone il patetico abbandono della testa della capra, ormai reclinata e morente. La coda è un restauro errato: il serpente non mordeva il corno della capra ma si avventava minacciosamente contro l’avversario. La statua era un dono votivo come dimostra l’iscrizione dedicatoria incisa sulla zampa anteriore destra: tincsvil “al dio Tinia”. Quest’opera, di estrema raffinatezza, coniuga il realismo più aspro alla fantasia, in una ricerca di espressività tipica dell’arte etrusca.
 
 
La statua, detta l’”Arringatore”, è l’opera più importante della scultura etrusca di epoca tarda. Rappresenta, a grandezza naturale, un uomo maturo, vestito con la toga e con i calzari romani. L’uomo è ritratto nel momento in cui, apprestandosi a parlare in pubblico, alza la mano destra per chiedere il silenzio. Le pieghe della toga, sapientemente modellate in un moto ascensionale, indirizzano l’attenzione sul bel volto intenso. I corti capelli aderiscono alla testa, la fronte è solcata da rughe incavate, sottili incisioni segnano le estremità dei grandi occhi, in origine riempiti di pasta vitrea. Le labbra serrate donano al volto un’espressione sicura e decisa. Un’iscrizione etrusca incisa sul bordo della toga ci informa che il personaggio ritratto si chiamava Aule Meteli. Un etrusco dunque che veste alla maniera romana e si fa ritrarre in un atteggiamento tipicamente romano. Questa statua può essere considerata il simbolo della scomparsa della civiltà etrusca, inesorabilmente assorbita da quella romana.
 
 
Anche se non mancano indizi di una pittura destinata a decorare interni di edifici sacri e forse anche di abitazioni, la quasi totalità della pittura etrusca che conosciamo proviene dalle necropoli. Essa ha carattere essenzialmente funerario e più precisamente tombale sicché, come nel caso di ogni altra manifestazione del mondo figurativo etrusco, nemmeno per la pittura si può parlare di un’arte fine a se stessa.
 
 
Le più note tombe dipinte sono quelle della grande necropoli tarquinese di Monterozzi, ma altre sono state rinvenute a Chiusi, Veio, Cerveteri, Vulci, Orvieto. Le pitture tombali non sono semplici decorazioni destinate ad abbellire e a impreziosire l’ultima dimora del defunto, ma rispondono a un preciso significato o esigenza. Fin verso il V secolo a.C. le pitture degli ipogei sepolcrali avevano l’intento di ricreare l’ambiente in cui il defunto aveva vissuto, con rappresentazioni di momenti della vita reale nei suoi aspetti più significativi, più sereni e piacevoli e soprattutto più qualificanti. E poiché i committenti e i destinatari delle tombe appartenevano alla classe gentilizia, predominano nelle pitture scene di caccia, gare atletiche, giochi (tutte espressione di vitalità e di forza) e, soprattutto la rappresentazione del ‘‘simposio”, il banchetto, che evocava, e quindi fissava in perpetuo, il rango sociale del defunto. Infatti il simposio è sempre presente nel repertorio della pittura funeraria ed occupa nella maggior parte dei casi la parete più importante della tomba, che è quella di fondo. Gli stessi elementi secondari della tomba, che potrebbero sembrare semplicemente decorativi (fregi, cornici, zoccolature ecc.) intendono ‘‘ricostruire” l’ambiente domestico, e imitano elementi di tipo architettonico (travature, soffitti, fronti) per fare del sepolcro la ‘‘casa del morto”. Tra il V e il IV secolo a.C. si affievolì però la credenza nella sopravvivenza dell’entità vitale del morto nella tomba e si affermò quella della sua trasmigrazione in un ‘‘regno delle ombre”. Le pitture introdussero allora un elemento nuovo e originale, ossia la rappresentazione del destino dell’uomo al di là della sua esistenza terrena (al di là del ‘‘simposio”) con l’introduzione di elementi tenebrosi e fantastici (divinità infernali, demoni, eroi mitologici) che accompagnano i defunti, circondati da un alone nero, nel loro viaggio agli Inferi oppure al banchetto nell’Averno.
 
 
Nella piccola tomba di Tarquinia, formata da un’unica camera rettangolare, il fregio assume dimensioni monumentali e occupa quasi l’intera parete. Sul muro di fondo è rappresentata al centro la porta dell’Ade, decorata con borchie metalliche. Ai lati si dispongono simmetricamente due personaggi con una mano sollevata e l’altra posata sulla fronte nella tipica posizione del compianto funebre. Sulla parete contigua un uomo si volge verso la porta dell’Ade con le braccia alzate in segno di saluto. Ai suoi piedi un inserviente vestito di nero piange accoccolato per terra. Segue una figura con un bastone ricurvo in mano; è il giudice della gara che si svolge accanto: due atleti nudi si afferrano per i polsi nella presa iniziale della lotta. Tre lebèti, posti sul terreno sono il premio per il vincitore. L’autore degli affreschi dimostra notevoli capacità pittoriche nelle proporzioni grandiose dei suoi personaggi e nella luminosità diffusa che avvolge i corpi e i panneggi. Pur tuttavia l’uso di riempitivi, come la pianta fra le gambe di uno dei lottatori e l’adozione di artifici rappresentativi, come la doppia linea a indicare la muscolatura del braccio, denotano la convenzionalità di questa produzione artistica.
 
 
Le realizzazioni pittoriche sono legate a schemi che si generalizzano e a forme espressive che tendono a ripetersi nelle diverse tombe. Le raffigurazioni si dispongono in scene narrative continue che, con il loro accentuato orizzontalismo, tendono a dilatare gli spazi angusti delle camere sepolcrali. Nell’impianto compositivo prevale il gusto per le composizioni binarie in cui le figure simmetriche (per lo più figure umane) si oppongono l’una all’altra. L’ambientazione è solo allusiva e resa con pochi elementi rappresentativi, ma talvolta il pittore indugia su particolari descrittivi, anche di carattere naturalistico, resi con minuzia. Il rendimento delle immagini è basato sul disegno, completato dal colore anche sulla base di criteri convenzionali: durante il periodo arcaico le carni degli uomini sono rese col rosso bruno, con il bianco quelle delle donne; agli elementi di rappresentazione strutturale (mensole, travi, colonne, capitelli) viene dato il rosso scuro o il bruno. L’accoppiamento del disegno con il colore si realizza semplicemente con la coloritura uniforme delle superfici delimitate da una netta e pesante linea di contorno nera, più o meno continua, che disegna le figure. I colori sono piuttosto limitati nelle tonalità e nella gamma (all’inizio rosso, nero, bianco, poi anche giallo, verde e blu), ma in età ellenistica si stemperano nei toni delle mezze tinte diluite e sfumate fino a giungere al chiaroscuro e all’ombreggiatura.
 
 
Accanto a quella che viene chiamata ‘‘grande arte”, ossia l’architettura, la scultura e la pittura, le varie forme dell’artigianato artistico potrebbero essere definite ‘‘arti minori”, se non altro per le dimensioni. Ma è proprio tra di esse che è possibile trovare le manifestazioni più significative e originali di tutta l’arte etrusca.
 
 
Alla produzione delle terrecotte destinate ai rivestimenti, soprattutto degli edifici templari, va ricollegata quella della piccola plastica, sia in terracotta che in bronzo. Si tratta di una produzione che non va oltre il fine decorativo o devozionale, ma in essa appaiono più evidenti, rispetto alle opere maggiori, i caratteri di libertà e di vivacità propri dell’arte arcaica e che, specie nelle terrecotte, si mantennero vivi anche in epoche più tarde. I bronzi fusi, più raffinati e portati alla scrupolosità dei particolari, subirono invece maggiormente l’influenza greca classica e ellenistica. Oltre alle statuette, appartiene alla produzione in bronzo il vasto settore degli arredi (candelabri, tripodi, incensieri ecc.) per il quale erano famose nei secoli VI e V a.C. le botteghe di Vulci. Particolarmente importante fu anche la lavorazione del bronzo laminato, con figurazioni ottenute dapprima con la tecnica dello sbalzo (cioè con la martellata a freddo del metallo dal rovescio in modo da far risaltare il disegno in rilievo al diritto), e poi, sempre più spesso, con quella dell’incisione caratterizzata dalla pesante e larga linea di contorno che disegnava le figure. Quest’ultima tecnica venne impiegata specialmente per decorare la superficie di specchi, teche, cofanetti ecc. Non secondaria fu la produzione a intaglio degli avori e degli ossi, particolarmente fiorente e raffinata nel periodo orientalizzante e della quale i punici erano maestri.
 
 
La ceramica etrusca trovò il suo aspetto più originale e interessante nel bucchero che è considerato alla stregua di una ceramica ‘‘nazionale” dell’Etruria. Prodotto a partire dalla metà del VII secolo a.C., il bucchero imitava il vasellame metallico sia nelle forme e nelle decorazioni sia nel colore nero lucido delle superfici ottenuto attraverso uno speciale modo di cottura dei vasi. Famose erano le fabbriche di Cerveteri, Tarquinia e Vulci che producevano, nella fase più antica, il ‘‘bucchero sottile” in forme riprese dalla ceramica greca. Ma il bucchero assunse un certo margine di originalità a seconda delle tendenze locali o occasionali per prendere spesso forme anche bizzarre, elastiche o ridondanti. Ciò fu più evidente nei primi decenni del V secolo a.C., quando si arrivò alla produzione dei grandi vasi figurati e decorati a rilievo e dalle pareti assai spesse (‘‘bucchero pesante” di Chiusi). Quanto alle decorazioni, esse furono dapprima incise e graffite con semplici motivi ornamentali di tipo geometrico o in figura di animale, ma non mancano quelle applicate e quelle eseguite a stampo, fino ad arrivare alle scene figurate, a rilievo, degli esemplari più tardi. Completamente d’imitazione fu la ceramica dipinta, più o meno fedele a quella greca largamente diffusa in Etruria. Agli inizi dell’età ellenistica grande successo ebbero le singolari ceramiche di Volsinii, rivestite di vernice argentata.
 
 
All’oreficeria appartengono i prodotti forse più originali e riusciti dell’artigianato etrusco. Sia che si tratti di vasellame, di oggetti d’abbigliamento o di veri e propri gioielli, l’oreficeria etrusca, specialmente nel periodo che andò dal VII alla fine del VI secolo a.C. quando fiorirono le botteghe orafe di Vetulonia e di Vulci, ci dà la misura del gusto, della fantasia e delle capacità tecniche degli artigiani etruschi, oltre, naturalmente, della ricchezza e della prosperità economica dell’Etruria. Predomina il gusto orientale per l’ostentato splendore degli effetti e del sovraccarico; i motivi ornamentali sono quelli geometrici o tratti dalla stilizzazione di elementi antropomorfi, zoomorfi o fitomorfi (palmette, rosette ecc.) con l’impiego, ad altissimo livello, delle diverse tecniche di lavorazione che vanno dall’incisione allo sbalzo, dalla fusione alla filigrana, spesso combinate insieme. Dal Vicino Oriente venivano importati ‘‘gingilli” il pasta di vetro e in ceramica (gli athyrmata). Un ruolo particolare aveva la tecnica della granulazione, anch’essa di provenienza orientale, che consentiva raffinatissimi effetti decorativi. Anche nell’oreficeria gli etruschi tendevano quindi all’espressività.
 
 
L’Etruria meridionale e interna è caratterizzata da terreni vulcanici, con altipiani tufacei facili da difendere, su cui sorgevano grandi città cinte di mura come Veio, Cerveteri, Tarquinia o Orvieto. Nell’Etruria settentrionale le città, sempre fortificate, si distribuirono in modo più razionale, in genere su un agglomerato di collinette separate da depressioni, a controllare una via di comunicazione o di transumanza, il corso di un fiume, la conca di un lago, l’apertura di una valle che garantissero sia il rifornimento alimentare, sia l’esportazione delle eccedenze dei prodotti agricoli o artigianali. Le zone costiere erano invece tutte piuttosto malsane e insicure, fornite dei due soli porti naturali di Talamone e Populonia.
 
 
Il territorio meridionale dell’Etruria si estende in maniera abbastanza uniforme lungo il corso inferiore del Tevere, per una larghissima fascia fino all’altezza di Orvieto. È l’Alto Lazio, in cui si succedono paesaggi di basse colline tufacee che giungono a lambire il mare presso il massiccio dei Monti della Tolfa, dove il ‘‘paesaggio del tufo” cede a quello della Maremma. La zona vide fiorire tra il IX e l’VIII secolo a.C. importanti città come Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Tuscania, Volsinii e, nelle pianure variamente estese lungo la costa, Roselle, Talamone, Vetulonia e Populonia.
 
 
L’antica città di Veio (o Veii), sorgeva a soli 15 chilometri da Roma, su di un vasto promontorio tufaceo presso il corso del torrente Cremera. Nata probabilmente dalla fusione di più villaggi in epoca villanoviana (IX secolo. a.C.), Veio raggiunse il suo massimo splendore in età arcaica (VII secolo a.C.). Fu conquistata dai romani dopo un decennale assedio conclusosi nel 396 a.C.
Durante il periodo villanoviano Veio era, insieme a Tarquinia, il centro più importante dell’Etruria meridionale. Posta in posizione strategica sulla riva destra del Tevere controllava, specialmente dal VII secolo a.C. in poi, le rotte commerciali della bassa val Tiberina a cui giungevano i metalli del distretto minerario poco più settentrionale. In questo periodo la città occupava un’area quattro volte maggiore della Roma serviana. Difesa naturalmente, vi si accedeva soltanto da ovest dove l’altipiano tufaceo laziale si collegava al colle della città; questo passaggio fu poi forato con un lungo tunnel per farvi scorrere il torrente Cremera. Nel V-IV secolo a.C. le rupi naturali che circondavano l’altipiano furono sovrastate da mura possenti in pietra vulcanica. Oltre al complesso sacro presso il tempio del Portonaccio, tra le numerose tracce di insediamento risalenti al VI secolo sono tornate alle luce quelle dell’acropoli in località Piazza d’Armi dove le fonti letterarie collocano anche il tempio della dea protettrice della città, Giunone Regina. In più punti della città (Macchiagrande, Quarticcioli) sono state restituite parti di abitazioni che presentano una fondazione in blocchi di tufo squadrati e compressi a secco a formare gruppi di vani quadrati, talora con focolare. Mirabili le opere di ingegneria idraulica: tunnel, cunicoli e cisterne regolavano il flusso delle acque attorno alla collina dove sorgeva la città.
 
 
Il santuario di Portonaccio, che si trova fuori delle mura, fu probabilmente legato al culto delle acque sulfuree e ferruginose di cui era ricca la zona; il complesso comprendeva infatti anche una piscina e una serie di pozzi e pare fosse dedicato a Minerva Medica. All’interno dell’area sacra circondata da un muro sorgeva il tempio, costruito nel VI secolo a.C. secondo lo schema architettonico etrusco con tre celle ed ampio pronao a quattro colonne disposte su due file. Al tempio sono riferibili alcune statue di terracotta che dovevano originariamente sorgere sul culmine del tetto; per alcune di esse si è ipotizzato come autore Vulca, l’unico artista etrusco di cui si conosca il nome, chiamato anche a Roma dai Tarquini a decorare il tempio di Giove Capitolino. Nelle statue si riconoscono Apollo, Ercole con la cerva e Mercurio; sono inoltre presenti una figura femminile con un bambino in braccio (forse Latona con Apollo), una testa maschile e un torso maschile di color bruno-nero più ampie dimensioni (probabilmente Zeus). Del sacro edificio è oggi visibile solo parte del basamento in blocchi di tufo. Addossata al lato settentrionale del tempio c’è la grande piscina, della capienza di circa 180 metri cubi d’acqua, dove probabilmente si bagnavano i pellegrini. Era realizzata con blocchi di pietra e rivestita da uno strato di terra argillosa per impedire il deflusso.
 
 
La tomba Campana, scavata nella roccia e risalente alla fine del VII o al principio del VI secolo a.C., prende il nome dal marchese che la scoprì nel 1843 nella necropoli di Monte Michele. Un corridoio con due leoni di tufo (ora privi di testa) e con due camerette laterali immette in una prima camera con due banchine sui lati; una porta sulla parete di fondo dà accesso a una seconda cameretta interna. Su questa parete, tutt’intorno alla porte, vi era una decorazione a denti di lupo e, ai lati della porta, quattro panelli dipinti – due per lato – sormontati da tracce di fiori di loto. Il pannello superiore sinistro raffigura un cavallo con cavaliere ed un felino, quello inferiore tre quadrupedi di diverse proporzioni; il pannello inferiore destro riporta una sfinge, un felino rampante e un altro quadrupede. Il pannello superiore destro si distacca dagli altri per il suo valore narrativo: due uomini, di cui uno armato di bipenne, precedono a piedi un cavallo montato da un minuscolo cavaliere; sotto il cavallo un cane volge in alto il muso. Tutti gli animali sono dipinti in modo piuttosto irreale (manti gialli a punti rossi o rossi a punti gialli). Questa prima camera conteneva sul banco di destra un inumato con corazza ed elmo forato da un colpo di lancia; sul banco di sinistra un altro inumato, un calice a sostegni e grossi recipienti fittili. La camera più interna aveva dipinti sulla parete sei scudi su due file, che simulavano veri scudi in lamina di bronzo con decorazioni a sbalzo. Conteneva tre urnette cinerarie con coperchio a botte, una testina applicata a tutto tondo, un braciere a tre piedi in bronzo e delle ceramiche.
 
 
A poca distanza dalla costa, tra il lago di Bracciano e il mare, 45 chilometri a nord di Roma, sorgeva la potente città etrusca di Ceisra, chiamata Caere dai romani e Agylla dai greci. Il primo aggregato urbano risale all’epoca villanoviana (IX-VIII secolo. a.C.), mentre il periodo di maggiore splendore si colloca intorno al primo quarto del VII secolo. a.C. Nel 353 si scontrò con Roma e fu sconfitta, ma le fu concessa la cittadinanza.
 
L’antica Cerveteri si estendeva a poca distanza dal mare su un vasto altipiano tufaceo compreso tra la stretta valle del fosso del Manganello e quella del fosso della Mola; solo il versante nord-est non era ripido e per questo vi fu aperto un profondo fossato che consentiva una più facile difesa. Le mura furono probabilmente edificate in una fase avanzata ed è dubbio se cingessero tutto il centro o sole le zone dove l’altipiano non era sufficientemente ripido da costituire di per sé una difesa naturale. Della città etrusca è rimasto ben poco, anche se si conosce la presenza di un tempio di Era, di cui restano le terrecotte architettoniche e degli ex voto. All’esterno della città vi erano numerose necropoli (Sorbo, Monte Abatone, Banditaccia ecc.) talora realizzate con vie e piazze tracciate secondo un preciso programma urbanistico. Le tombe erano principalmente del tipo a camera, costruite o parzialmente scavate, coperte all’interno con la tecnica dell’aggetto e all’esterno dotate di tumulo contenuto da lastroni o da un alto tamburo. Nel V secolo. a.C. inizia il declino della sua potenza e alla metà del IV secolo. a.C. viene sottomessa da Roma. Ben poco rimane ormai dell’antica città etrusca, mentre meglio conservate sono le estese necropoli con vie e piazze tracciate secondo un preciso programma urbanistico.
 
 
La tomba Regolini-Galassi della necropoli di Sorbo deve il nome a coloro che la portarono alla luce nel 1836. Si tratta di un tumulo circondato da un alto tamburo il cui accesso dà in un corridoio o vestibolo per metà scavato nel tufo e per metà costruito con la tecnica dell’aggetto; ai due lati si aprono due piccole celle scavate quasi circolari. Un basso tramezzo divide il corridoio dalla camera interna che appare più stretta, anche se posta sullo stesso asse. Nel vestibolo fu trovato un guerriero inumato con un ricco corredo consistente in un letto di bronzo formato da una grata fissata su un telaio; un bruciaprofumi, anch’esso di bronzo, montato su quattro piccole ruote; scudi da parata in lamina di bronzo lavorata a sbalzo; vari calderoni; armi; ceramiche e buccheri, tra cui alcune statuette di donne piangenti. Nella cella, presso un inumato, furono rinvenuti moltissimi gioielli in oro, tra i quali una fibula di 30 centimetri con leoni e anatre, un pettorale ovale con figure reali e fantastiche, due bracciali a nastro in figura femminile, una collana di maglia con pendenti in ambra, anelli, catenelle ecc. Erano presenti in grande quantità anche oggetti d’argento e di bronzo; tra questi ultimi era un trono con poggiapiedi e calderoni con sbalzi. La celletta destra aveva un inumato, quella sinistra i resti di una biga di bronzo smontata.
 
 
La cosiddetta Tomba degli Scudi e delle Sedie, scavata interamente nel tufo, si trova nella necropoli della Banditaccia ed è datata alla metà del VI secolo a.C. Un corridoio, ai cui lati si aprono due vani con banchine, immette in un ampio vestibolo con tre retrostanti camere più piccole. Ai lati e sulla parete di fondo del vestibolo sono presenti letti intagliati nel tufo. Sulla parete di fondo, fra tre porte dagli stipiti a rilievo, stanno due troni con gli schienali semicircolari e poggiapiedi; su tutte le pareti appaiono scolpiti ampi scudi circolari che imitano quelli di bronzo da parata. Il vestibolo della tomba presenta una falsa travatura a rilievo nel soffitto e due finestrelle che si affacciano sulle cellette laterali. Tutto l’insieme ricalca, nella disposizione dei vani, la casa etrusca più comune nella zona.
 
 
Pyrgi (nei pressi dell’attuale castello di Santa Severa) fu, secondo le fonti antiche, la principale base navale di Caere, da cui distava circa 13 chilometri e alla quale era collegata da una grande strada. Il primo insediamento stabile del sito risale alla fine del VII secolo a.C., ma fu celebre dal V secolo per il suo santuario, uno dei più importanti del Mediterraneo. Dopo l’annessione del litorale ceretano a Roma vi fu fondata una colonia marittima intorno alla metà del III secolo. a.C. 
 
Legata alla politica di Caere, Pyrgi fiorì verso il 500 a.C. quando fu edificato, il tempio dedicato alla dea etrusca Uni, che i greci conoscevano come Leucotea o Ilizia e i fenici come Astarte. L’abitato etrusco, oggi in parte sommerso, si estendeva in origine su di un’area di circa 10 ettari e aveva strade che si incrociavano ad angolo retto e case costruite in mattoni crudi coperte da tegole. L’area sacra sorgeva ai margini dell’abitato, presso la strada principale. Era costituita da un tempio a una sola cella (il cosiddetto Tempio B), colonnato in stile greco e decorazione fittile, e da un tempio più grande (il Tempio A di Uni-Astarte). Questo tempio, databile al 470 a.C. è del tipo a tre celle con ampio pronao. Attualmente rimangono solo le fondazioni in tufo ma in origine l’alzato era decorato sia sulla fronte sia sul retro da lastre fittili con altorilievi policromi. Particolarmente ammirato sembra essere stato il pannello che decorava la testata della trave maestra del tetto, all’interno dello spazio frontale posteriore, che raffigurava la scena dei ‘‘Sette contro Tebe”. Il santuario di Pyrgi venne occupato e depredato nel 384 a.C. da Dionisio di Siracusa.
 
 
Nel 1964 furono rinvenute nell’area sacra di Pyrgi  tre lamine auree di forma rettangolare accuratamente piegate e riposte in un luogo sicuro. In origine erano probabilmente inchiodate agli stipiti o ai battenti del cosiddetto Tempio A. Due di esse recano un’iscrizione in etrusco (16 righe) e una in lingua fenicia (11 righe). Si tratta della dedica del tempio alla dea Uni (corrispondente all’Astarte fenicia) da parte del signore di Caere. Il momento storico è probabilmente quello dell’alleanza tra Caere e Cartagine dopo la battaglia di  Alalia. L’iscrizione sembra così traducibile:
‘‘Alla signora Uni questo è il luogo sacro che ha fatto e che ha dedicato Thefarie Velianas, re di Caere, nel mese di z-b-h sh-m-sh (nome di mese di cui non è possibile dare traduzione, così come dell’altro citato più avanti) del sacrificio del sole, come dono al tempio. E l’ho costruito perché Uni ha richiesto ciò a me, nell’anno terzo del mio regno, nel mese di k-r-r, nel giorno del seppellimento della divinità. E gli anni della statua della dea nel suo tempio (siano) tanti come queste stelle”.
 
 
L’insediamento etrusco Suana, l’odierna Sovana, sorgeva sulla riva sinistra del fiume Fiora nell’entroterra della bassa Maremma. Tra il VII e il VI secolo. a.C. la città doveva far parte del territorio di Vulci, ma sul finire del VI secolo. a.C. i suoi interessi probabilmente si spostarono verso l’area romana.
 
Sovana era situata su un altipiano tufaceo scosceso su tre versanti, mentre sul lato meno protetto possedeva fortificazioni costituite da mura di grossi blocchi di tufo. La città subì un periodo di abbandono tra il V e la prima metà del IV secolo a.C., poi ebbe una ripresa attestata dallo sviluppo delle necropoli rupestri che sorgono tutt’intorno alla città. Le tombe sono caratterizzate da un vestibolo ampio e aperto, sul fondo del quale una porta profilata da cornici conduce a una camera e a più ambienti dal soffitto a cassettoni. Alla prima metà del III secolo a.C. risalgono le tombe ‘‘a dado”, costituite da un edificio cubico intagliato nel bancone roccioso di tufo con porta architravata anteriore. Quando l’edificio è distaccato dalla collina per soli tre lati, la tomba è detta ‘‘a facciata”. In certi casi la porta è falsa e la vera camera funeraria è sottostante, accessibile da un lungo corridoio in discesa. Più tardi appaiono anche tomba a edicola frontonata sia con timpano vuoto sia con ricche decorazioni.
 
 
La Tomba Ildebranda, che deve il suo nome a Ildebrando di Sovana – pontefice col nome di Gregorio VII – che la tradizione riteneva qui sepolto, è databile intorno alla metà del II secolo. a.C. Scavata interamente nel tufo della collina a cui è addossata la tomba, visibile esternamente su tre lati, era simile a un tempio dal tetto piatto, con sei colonne sulla fronte e tre ai lati. Oggi parzialmente distrutta, doveva avere in origine una ricca decorazione plastica e una vivace policromia. La trabeazione aveva due fregi di diversa altezza decorati da figure di grifi e fogliame; le colonne scanalate erano sormontate da capitelli a volute decorati da figure maschili e femminili. Tutto il monumento era ricoperto di stucco bianco-giallastro su cui spiccavano con grande evidenza gli elementi colorati. Dietro il pronao vi era una falsa cella a pianta quadrata. La camera funeraria era sotterranea e vi si accedeva tramite un corridoio in discesa.
 
 
Sulla riva destra del torrente Fiora ormai quasi prossimo alla foce, Volci (ossia Vulci) fu una delle più grandi città dell’Etruria meridionale, che estendeva la sua influenza su un vasto territorio delimitato a sud dal fiume Arrone e a nord dai monti dell’Uccellina. Nel III secolo a.C. si oppose a Roma e, anche se sconfitta, mantenne un certo livello di autonomia.
 
Il periodo di maggiore potenza della città si colloca tra il VI e la prima metà del V secolo. a.C. ed è testimoniato dagli sterminati sepolcreti e dai ricchi corredi funerari. Ad un periodo di crisi economica e produttiva seguì nel IV secolo a.C. una brillante ripresa. La fondazione da parte dei Romani della colonia di Cosa (273 a.C.) e la successiva guerra annibalica furono la causa tra il III e il II secolo a.C. della progressiva decadenza della città. Vulci fu un importante centro per la lavorazione e la diffusione di oggetti in bronzo e vi furono inoltre scuole locali di ceramisti che imitavano vasi corinzi, ionici ed attici e producevano vasi etruschi a figure rosse. Pochi resti dell’abitato sono ancora visibili: tratti delle mura, tracce di due porte, qualche edificio di età romana. Dalla cosiddetta Tomba François provengono le celebri pitture del IV secolo a.C. con scene della conquista etrusca di Roma. Degno di nota è anche il grande tumulo funerario della Cuccumella, con ambienti e corridoi sotterranei molto complessi.
 
 
Tarquinia (Tarchuna, in latino Tarquinii), una delle maggiori città del mondo etrusco, sporge a circa 100 chilometri da Roma, sul litorale tirrenico. Di antichissime origini, la leggenda ne attribuiva la fondazione a Tarconte, fratello di quel Tirreno che avrebbe condotto in Italia gli etruschi dalla Lidia. Raggiunse il massimo sviluppo tra il VII e il VI secolo a.C.: fu allora infatti che un suo cittadino, Tarquinio Prisco, divenne il quinto re di Roma.
 
L’abitato antico era posto sul Colle della Civita, dove sono stati scoperti i resti delle mura e un grande tempio detto Ara della Regina. Tutto intorno si estendeva la vasta necropoli dei Monterozzi ove sono state individuate più di 150 tombe ipogee dipinte, del periodo compreso tra il VI e il II-I secolo a.C. Tra le più importanti e suggestive sono: la Tomba del Guerriero (metà del V secolo a.C.), decorazioni di cerimonie funebri; Tomba del Cacciatore (fine del VI-inizi del V secolo a.C.), scene di caccia; Tomba delle Leonesse (circa 530 a.C.), scene di danza, suonatori e figure di animali; Tomba del Giocolieri (fine del VI secolo a.C.), danze e giochi funebri, equilibristi, danzatori; Tomba dei Festoni (prima metà del III secolo a.C.), fregio con scudi e festoni, demoni, imitazione della travature del tetto; Tomba dei Leopardi (prima metà del V secolo a.C.), banchetto funebre, suonatori; Tomba Cardarelli (fine del VI secolo a.C.), suonatori, danzatori, atleti; Tomba degli Scudi (IV secolo a.C.) personaggi della famiglia Velcha, scudi; ecc. Nel IV secolo a.C. la città fu sottomessa da Roma, ma riuscì ancora a mantenere per qualche tempo una sua parziale autonomia.
 
 
L’Ara della Regina è il monumento più interessante e più studiato di Tarquinia. Fu rinvenuto a sud dell’abitato ed è databile circa alla seconda metà del IV secolo a.C. Non si conosce il nome della divinità a cui era dedicata, e gli scarsi resti non consentono di ricostruirne con certezza l’aspetto originario. L’ara si innalza su un basamento di grandi dimensioni (77,15x35,55 m) ed era articolata su due livelli: una prima terrazza, dove si svolgevano sacrifici e cerimonie, era situata davanti al tempio; la seconda terrazza, collegata alla prima tramite un piano inclinato e due scale laterali, sosteneva l’edificio templare. Il tempio (39,35x25,35 m) aveva una pianta con cella unica e un pronao con due colonne davanti alla cella stessa. Molte furono le terrecotte architettoniche rinvenute durante gli scavi, tra le quali il superbo gruppo dei cavalli alati, ad altorilievo, che ornava il frontone del tempio, uno dei capolavori della scultura etrusca. Davanti all’intero complesso sacro si apriva una piazza  con fontana circolare (I secolo a.C.).
 
 
Roselle o Rousellae, una delle città della Dodecapoli etrusca, sorgeva su due alture prospicienti la pianura grossetana, occupata anticamente dalla laguna navigabile del Prilio che si estendeva fino a Vetulonia. Era quindi posta a guardia della foce dell’Ombrone, uno dei pochi fiumi che consentissero l’accesso all’Etruria interna. Il periodo del suo massimo splendore si colloca tra il VI e il V secolo a.C., parallelamente al declino della vicina Vetulonia.
 
Roselle è posta su un colle che si separa al centro formando una sella. La sua posizione le consentiva l’accesso al mare grazie alla laguna del Prilio, mentre l’Ombrone rendeva possibili le comunicazioni con le città della Val d’Orcia (Chiusi) e quindi con l’Etruria interna. Di particolare interesse è la cinta muraria del VI secolo a.C. costruita con grossi massi di pietra locale e il cui perimetro è quasi completamente integro, talvolta conservato fino a 5 metri di altezza. Ha conosciuto due fasi principali: la prima, costituita da grandi blocchi in opera poligonale è databile alla metà del VI secolo a.C.; la seconda, consistente in un rifacimento a piccoli blocchi quasi parallelepipedi, risale al IV secolo a.C. In questa cinta si aprivano sette porte, sei delle quali erano costruite in modo che, entrando, gli attaccanti erano obbligati a scoprire ai difensori il lato non protetto dallo scudo; la settima porta, quella Nord, era del raro tipo a camera interna. Nell’area archeologica sorge un quartiere abitativo di età ellenistica, ma sono visibili anche resti di edifici in mattoni crudi del VI e VI secolo a.C. Dall’inizio del III secolo a.C. Roselle fu sottomessa a Roma e dall’89 a.C. fu municipio. In età augustea la colonia romana abbandonò la collina meridionale per occupare quella settentrionale e la valletta interna dove rimangono i resti dell’anfiteatro e dell’Augusteo, grande sala rettangolare absidata.
 
 
Dopo molte incertezze, l’area dell’etrusca Vetluna, ossia Vetulonia, venne identificata nel secolo scorso in località Poggio Colonna, presso Castiglio della Pescaia, nel Grossetano. Il primo insediamento risale all’epoca villanoviana (IX-VIII secolo a.C.), mentre il periodo di massimo sviluppo politico ed economico si colloca tra il VII e il principio del VI secolo. a.C. In seguito la città subì una rapida e totale decadenza.
 
Il benessere raggiunto da Vetulonia nel VII secolo a.C. è certamente legato allo sfruttamento dei giacimenti metalliferi (piombo, rame e argento) della non lontana Massa Marittima. Fiorente fu infatti la lavorazione del bronzo da parte di artigiani locali. Della città resta pochissimo; l’acropoli, inglobata nel castello medievale, aveva una propria cinta di mura databile al VI secolo a.C. L’estesa necropoli presenta tombe a incinerazione e a inumazione, riunite in ‘‘circoli continui”, veri e propri tumuli di 20-30 metri di diametro, in terra battuta, delimitati da lastre di pietra poste verticalmente. I corredi mostrano grande ricchezza. Compaiono anche sepolcri monumentali con dromos e camera sepolcrale coperta con finta volta a tholos e pilastro centrale. Tra i più rappresentativi, lungo la via dei Sepolcri, è il Tumulo della Pietrera (VII secolo a.C.) dove furono rinvenuti i primi esempi di statue etrusche in pietra lavorate a tutto tondo.
 
 
Strabone, storico e geografo greco vissuto tra il 63 a.C. e il 20 d.C. riferisce nella sua Geografia: ‘‘Populonia è situata su un alto promontorio che s’innalza bruscamente sul mare formando una penisola...Adesso, anche se la città è abbandonata, con l’eccezione dei templi e di poche case, la città portuale, che ha un piccolo porto con due moli, ai piedi della montagna, è più popolata. Secondo me questa è l’unica città dei Tirreni che sia situata sul mare stesso”.
 
L’importante centro di Populonia sorgeva su un’altura dominante la baia di Baratti, di fronte all’isola d’Elba. Fondata forse dai còrsi o forse dagli etruschi di Volterra, Populonia (Pupluna per gli etruschi) fiorì grazie all’industria siderurgica, basata sulle ricche miniere di ferro dell’isola d’Elba, ininterrotta fino in epoca imperiale. La più antica fase villanoviana è testimoniata dalle necropoli a incinerazione di San Cerbone e di Piano e Poggio delle Granate, presso il golfo di Baratti. A partire dalla fine del VII secolo a.C., insieme con l’introduzione del rito funerario dell’inumazione si realizzarono tombe a fossa che nel VI secolo a.C. si erano già trasformate in tomba a camera quadrata entro tumuli monumentali con tamburo. Durante il VI secolo a.C. nell’abitato vennero costruite le mura dell’acropoli e nelle necropoli si innalzarono tombe ‘‘a edicola”, una sorta di tempietto contenente una semplice camera sepolcrale. La floridezza della città nel V secolo è testimoniata dall’emissione di un’eccezionale serie di monete d’argento con figura di Gorgone. Nel periodo successivo fu realizzata una più ampia cerchia di mura, mentre gli scarti dell’attività siderurgica sommersero le necropoli più antiche e le aree cimiteriali si spostarono sulle pendici del colle. Non sappiamo in seguito a quali avvenimenti Populonia sia entrata nell’orbita romana, ma nel 205 a.C. approvvigionava di ferro la missione africana condotta da Scipione contro Cartagine.
 
 
I forni utilizzati per estrarre dai minerali il metallo parzialmente raffinato erano posti solitamente presso le miniere stesse o nelle loro vicinanze. Molti di essi avevano forma cilindrica o tronco-conica ed erano rivestiti all’interno con materiali refrattari. Da un’imboccatura posta sulla sommità veniva immesso il minerale grezzo, alternato a strati di carbone. Acceso il fuoco nella camera inferiore, il calore si propagava verso l’alto attraverso un piano orizzontale munito di una serie di fori. Il minerale fuso si raccoglieva quindi nella camera inferiore dove, praticando un’apertura ad altezza opportuna, veniva depurato dalle scorie di fusione. Per recuperare il prodotto divenuto solido era necessario smantellare il forno. Successivamente si sottoponeva il metallo ad ulteriori processi di raffinazione. Tra i forni meglio conservati quello del Poggio della Porcareccia e quelli di Val Fucinaia presso la miniera del Temperino.
 
 
Sull’alto colle di Talamonaccio, in posizione dominante il mare e le colline dell’interno, sorgeva l’antico centro etrusco di Tlamu, probabilmente dipendente da Vulci. Il suo porto ebbe una notevole importanza come scalo commerciale tra le città settentrionali e quelle meridionali dell’Etruria costiera.
 
Dell’abitato etrusco sull’altura di non sono rimaste tracce per quanto riguarda i secoli VII e VI a.C. mentre erano tornati alla luce molti resti di età ellenistica, tra cui un tempio, quando alla fine dell’Ottocento la collina fu sbancata per la costruzione di un fortilizio militare. Queste strutture non vennero rilevate e le fondazioni di vari edifici (compresa la cinta muraria formata da una doppia cortina di massi) venero smantellate. Solo nel 1962 scavi regolari hanno restituito testimonianze di varie epoche che hanno consentito di ricostruire la disposizione del tempio. Il centro era connesso con il porto sottostante che sfruttava il golfo naturale dove sorge l’odierna città di Talamone. Le necropoli relative all’abitato ellenistico, che sorgono nella piana di Camporegio, hanno restituito vari materiali bronzei, tra cui specchi con scene mitologiche e bruciaprofumi con figure plastiche. Nel III secolo, a seguito dell’espansione romana verso nord, Talamone entrò nell’orbita di Roma, ma decadde insieme a Vulci quando nel 273 a.C. fu fondata a soli 20 chilometri la colonia romana di Cosa.
 
 
Databile alla seconda metà del IV secolo a.C., il Tempio di Talamone si elevava su un basamento in blocchi di tufo alto circa 2 metri. Aveva probabilmente un’unica cella e due ali laterali. Il pronao, forse in origine a due sole colonne, era chiuso ai lati dai prolungamenti delle pareti esterne. Intorno al 150 a.C. subì una radicale trasformazione che interessò soprattutto il prospetto anteriore. L’architrave fu rivestito da lastre con palmette e spirali ‘‘a S” sormontate da baccellature; sugli angoli del tetto vennero posti degli acroteri in forma di cavallo marino, mentre il grande acroterio centrale era costituito da una palmetta traforata. Il frontone fu chiuso da un altorilievo in terracotta raffigurante i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, che si affrontano sotto le mura di Tebe in uno scontro mortale: al centro sta Edipo in ginocchio, sorretto da un aiutante, mentre la sua sposa e madre Giocasta si volge verso Eteocle morente; dall’altro lato Polinice è caduto esanime tra le braccia di un aiutante. Attorno a questa tragedia familiare si svolge la battaglia descritta nel mito dei ‘‘Sette a Tebe”. Per le sue dimensioni, questa movimentata composizione fu tagliata in più pezzi per permetterne la cottura. Il tempio fu distrutto da un incendio intorno al 100 a.C.
 
 
Orvieto occupa l’area dell’antico abitato etrusco di Velzena che i latini chiamarono Volsinii. La città è posto su un altopiano di tufo rosso alto 40 metri e dominante la media Val Tiberina nei pressi della confluenza tra Paglia e Tevere. L’antica navigabilità di questi due fiumi facilitò i contatti con l’area chiusina, falisca e vulcente.
 
Frequentato già in epoca villanoviana, raggiunse il suo massimo splendore tra il VI e il V secolo a.C. L’abitato, occupato oggi dalla città medioevale e moderna, ebbe vari edifici sacri tra cui il tempio detto del Belvedere, dedicato forse a Tinia (=Zeus, Giove). Era posto su di un podio modanato, in parete costruito e in parte ricavato nel masso e vi si accedeva con una gradinata; il pronao doveva avere due file di quattro colonne. L’edificio, in mattoni crudi intonacati e decorati con policromie, aveva la copertura di tegole molto inclinata e arricchita da numerose terrecotte decorative. Tra le necropoli rivestono un particolare interesse quella del Crocefisso del Tufo che presenta un impianto regolare di tipo urbano e quella della Cannicella, dove le sepolture si adattano, spesso sovrapponendosi, alla morfologia del terreno. Nel territorio circostante furono rinvenute alcune tombe dipinte e resti di importanti edifici sacri. Nel corso del III secolo a.C. Orvieto venne progressivamente abbandonata.
 
 
Individuata in parte fin dal 1830, la necropoli del Crocefisso del Tufo è concepita secondo un impianto di tipo urbano a scacchiera. I sepolcri sono infatti disposti in isolati di forma quadrata o rettangolare, delimitati da strade che si incrociano ad angolo retto. Le singole tombe a camera, tra loro uguali, sono costruite con blocchi di tufo squadrati messi in opera a secco. La facciata è decorata da frontoni architettonici e sull’architrave si legge spesso il nome del defunto. All’interno vi è la cella funeraria rettangolare, lunga circa tre metri, con banchine per la deposizione sulle pareti. La copertura è costituita da una falsa cupola; talvolta è presente un vestibolo. Al di sopra delle tombe, coperte da terreno livellato orizzontalmente, sono posti dei cippi funerari di forma sferica, a cipolla o cilindrica. I materiali provenienti dalle tombe (oggetti d’oro lavorati a filigrana e a sbalzo, ceramiche d’importazione attica e di produzione locale) testimoniano una discreta ricchezza.
 
 
L’Etruria interna corrisponde all’attuale Toscana e al territorio perugino dell’Umbria. Il paesaggio è in larga misura collinare, ma la natura geologica e la morfologia delle colline sono assai varie. I massicci montani determinano variazioni climatiche abbastanza notevoli e le comunicazioni si sviluppano quasi esclusivamente lungo le vallate fluviali interne. Terra della vite e dell’olivo che favorì nel VI secolo a.C. la potenza di città come Perugia, Arezzo, Cortona, Chiusi, Fiesole, Volterra.
 
 
La fondazione di Perugia è attribuita a Aules, mitico eroe etrusco, padre e fratello di Ocno che a sua volta fondò, secondo Virgilio, Mantova e Felsina. Il nome etrusco della città non è documentato, a differenza di quello latino: Augusta Perusia. Posta all’incrocio di importanti vie di comunicazione verso il Lazio, l’Etruria settentrionale e il versante adriatico, fu potente anche grazie alla sua posizione. Livio la ricorda come una delle città che costituirono la Dodecapoli.
 
I rilevamenti archeologici relativi al periodo anteriore alla fine del V secolo a.C. sono piuttosto scarsi. L’importanza di Perugia è invece documentata nel IV e III secolo a.C. dalle necropoli e dalla imponente cinta muraria. Quest’ultima, in blocchi regolari di travertino posti in opera a secco, era lunga circa tre chilometri e interrotta da cinque porte; due di esse, Porta Marzia e l’Arco Etrusco (o di Augusto), sormontato da un architrave con scudi rotondi, sono ancora ben conservate. Dell’assetto urbano della città etrusca rimangono solo resti di pavimentazione stradale e terrecotte architettoniche. Perugia fu infatti distrutta e incendiata da Ottaviano nel 42 a.C. e successivamente ricostruita ex novo dai romani. La documentazione più probante ci è offerta dalle necropoli sviluppatesi fuori dalla cinta muraria. Sono prevalentemente costituite da tombe a fossa e a camera con presenza sia del rito inumatorio che incineratorio. La necropoli più antica è quella del Palazzone; di poco più recenti quelle di Castel San Mariano e di San Valentino di Marsciano da cui i noti carri bronzei sbalzati. Di età ellenistica è il nucleo costituito da ben 38 tombe a camera esplorate dopo la scoperta dell’ipogeo dei Volumni al Palazzone riproducente lo schema dell’impianto di una casa.
 
 
La sua costruzione risale al II secolo a.C. e subì nel tempo vari rimaneggiamenti sino al 1500, quando Antonio da Sangallo ne inserì il prospetto superiore nella Rocca Paolina. Caratteristico è il falso loggiato, con quattro pilastrini scanalati coronati da capitelli ionici, chiuso sulla fronte da una bassa transenna dalla quale si affacciano tre figure maschili (Giove e i Dioscuri) e due protomi equine. Due grossi pilastri inquadravano l’arco e la sovrastante struttura.
 
 
L’ipogeo dei Volumni, a cinque chilometri da Perugia, fu rinvenuto casualmente nel 1840. È una tomba di famiglia interamente scavata nel tufo, databile tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. Vi si accede da una ripida scalinata di 29 gradini che conduce alla porta con architrave e stipi; su quello a destra, un’iscrizione ricorda come “Arunte Larte Volumnio di Arunia pose, dedicò per la salute gli annuali sacrifici”. Dalla porta si accede a un atrio rettangolare con copertura, alta quattro metri, a doppio spiovente in falsi travi e travicelli; nello spazio frontale sulla parete di fondo vi sono due teste applicate ai lati di un grande scudo con emblema di significato solare. Su ogni parete laterale, tra delle banchine, si aprono tre stanzette (cubicola) con altri piccoli ambienti secondari. Il largo portale sulla parete di fondo immette nel tablino, ai cui lati erano due serpenti fittili e sulla volta una Gorgone; qui sono disposte sei urne in travertino degli agiati componenti della famiglia dei Volumni. Quella del capostipite (Arnth Velimnes Aules), insigne magistrato perugino e fondatore del sepolcro, è un vero e proprio monumento sepolcrale: il defunto è rappresentato sdraiato su un triclinio, mentre due figure femminili di demoni alati sono poste a guardia di una porta (indicante forse l’ingresso dell’Ade) dipinta sulla cassa del monumento.
 
 
Situata all’incrocio di quattro vallate, la Val di Chiana, la Val Tiberina, il Casentino e la media valle dell’Arno, Arezzo, citata nelle fonti antiche col nome latino di Arretium, fu una delle più importanti città dell’Etruria settentrionale. Abitata già nel VI secolo a.C., ha avuto un’ininterrotta continuità di vita fino ai nostri giorni.
 
Si suppone che il luogo in cui sorge Arezzo fosse già abitato alla fine del VI secolo a.C. D’altronde esso si trovava sugli itinerari naturali battuti dal movimento di colonizzazione partito dal distretto di Chiusi e volto verso la pianura e padana. Ben poco resta oggi a testimoniare la città etrusca: qualche tratto della cinta muraria in pietra e mattoni, un gruppo di terrecotte architettoniche riferibili ad edifici templari del V secolo a.C. e frammenti di sculture di stile ellenistico probabilmente appartenenti al frontone di un tempio. I tratti della cinta muraria più antica, databile al V secolo a.C., sono costituiti da grandi blocchi di pietra che, insieme a quella più recente del IV-III secolo a.C. in mattoni, segue l’andamento della collina. La necropoli più antica, scavata nel XIX secolo, era ubicata in località di Poggio del Sole; essa comprende tombe a cassa e a fossa che vanno dalla seconda metà del VI al II secolo a.C. Sembra che Arezzo, oltre a essere un importante centro agricolo, sia stato uno dei principali centri industriali dell’Etruria per la lavorazione dei metalli; dalle sue officine uscivano elmi, scudi, armi da getto e strumenti da lavoro, ma anche bronzetti votivi (bovini, ovini, offerenti maschili e femminili, divinità) e statue. Di fattura aretina è la celebre Chimera in bronzo databile ai primi anni del IV secolo a.C.
 
 
La statua di bronzo della chimera, scoperta nel XVI secolo, è una delle opere etrusche più belle e celebrate. La belva, con il corpo leonino, la testa di capra sul dorso e la coda di serpente, è rappresentata ferita dalla lotta contro l’eroe Bellerofonte, secondo l’antico mito. La chimera è in posizione di difesa, ma è pronta all’ultimo assalto con la testa sollevata fieramente verso l’alto, le fauci spalancate e la criniera irta. Sul corpo teso dell’animale affiorano sotto la pelle le costole e le vene turgide; la muscolatura è sapientemente modellata. Contrasta con la feroce aggressività del muso del leone il patetico abbandono della testa della capra, ormai reclinata e morente. La coda è un restauro errato: il serpente non mordeva il corno della capra ma si avventava minacciosamente contro l’avversario. La statua era un dono votivo come dimostra l’iscrizione dedicatoria incisa sulla zampa anteriore destra: tincsvil “al dio Tinia”. Quest’opera, di estrema raffinatezza, coniuga il realismo più aspro alla fantasia, in una ricerca di espressività tipica dell’arte etrusca.
 
 
Le origini dell’etrusca Curtum, al di là del rapporto toponomastico con la greca Crotone, sono fatte risalire da Virgilio a Corythus, padre di Dardano l’edificatore di Troia. L’odierna città occupa lo stesso luogo dell’antica, una collina isolata che domina la Val di Chiana.
 
Dell’antica Curtum rimangono alcuni tratti della cinta muraria, probabilmente risalente all’età ellenistica, che aveva uno sviluppo perimetrale di oltre 2 chilometri; era realizzata in blocchi parallelepipedi rozzamente squadrati di arenaria calcarea, posti in opera a secco nel V secolo a.C. L’acropoli è stata identificata nell’area del Girifalco, alla sommità dell’altura lungo le cui pendici la città si estendeva per 40 ettari. Nelle necropoli poste ai piedi della collina (Camucia, Sodo) si conservano isolati sepolcri a tumulo chiamati in gergo popolare “meloni”. Si tratta di tombe gentilizie a più camere, con tamburo cilindrico, delle dimensioni anche di 60 metri di diametro. Nel 1726 a Cortona venne fondata l’Accademia Etrusca, il più importante centro di ricerche erudite settecentesche sull’Etruria antica. Nel museo dell’Accademia è conservato lo splendido candelabro bronzeo con ricchissima decorazione figurata che attesta una fiorente attività artistica locale nella lavorazione del bronzo attorno alla metà del V secolo a.C.
 
 
A differenza di molti altri centri etruschi, l’abitato di Marzabotto sorse su una piana priva di particolari difese naturali, nella media valle del fiume Reno, a circa 20 chilometri da Bologna. La zona si trovava lungo la via di collegamento che, attraversando l’Appennino, univa l’Etruria settentrionale alla Padania.
 
Nel corso del VI secolo a.C. si formò sulla spianata detta di Pian di Misano un nucleo organizzato (Marzabotto I) con capanne in materiale deperibile collocate senza ordine preciso nell’area sud orientale. L’abitato comprendeva anche una fonderia e una fornace per la produzione di ceramica. Tra il VI e il V secolo a.C., in seguito al movimento di colonizzazione verso nord intrapreso dalle città etrusche – in particolare da Chiusi – l’abitato di Marzabotto fu spostato nella zona nord occidentale del pianoro e organizzato secondo un piano urbanistico preventivo con impianto a scacchiera. L’acropoli si trovava nell’angolo nord-ovest del sito (Misanello) ed era occupata da diversi edifici sacri, da una vasca rituale e da un altare quadrato al cui centro si apriva un pozzo, profondo circa sei metri, indice forse del culto di divinità infere A questo complesso doveva essere connesso un deposito votivo rinvenuto più a valle nel terzo decennio del XIX secolo che rappresenta il più cospicuo nucleo di ex voto (bronzetti di offerenti e parti bronzee del corpo umano) dell’area padana. Le necropoli tornate alla luce a nord e ad est dell’abitato comprendevano tombe individuali sia a incinerazione che a inumazione; i sepolcri erano costituiti da cassoni di lastre, da pozzetti e da fosse. Nella parte iniziale del IV secolo a.C., contemporaneamente alla massima spinta da nord dei popoli celtici già presenti nell’area cisalpina, Marzabotto decadde finché la città venne abbandonata nella seconda metà del III secolo a.C.
 
 
La Marzabotto del VI secolo a.C. rappresenta un documento di eccezionale importanza per la storia dell’urbanistica antica. La città mostra un impianto ortogonale che risulta antecedente agli esempi greci e anche alla formulazione teorica che di essi fece Ippodamo di Mileto nel V secolo a.C. La rete stradale ha larghe vie lastricate che si incrociano ad angolo retto (un cardo di 15 metri di larghezza tagliato da tre decumani), con marciapiedi e canali per la raccolta delle acque piovane. Le abitazioni, in genere ad un solo piano, sono riunite in isolati regolari e presentano suddivisioni interne di tipo diverso. Molte hanno una sola fronte sulla strada ed un cortile interno (atrio) attorno al quale sono disposti vari ambienti. Dalle fondazioni di ciottoli si elevava un alzato di legno e mattoni crudi con elementi in travertino e colonne lignee rivestite di stucco; le coperture fatte con embrici, coppi e talora lucernari recava anche anfisse.
 
 
Chiusi, il cui nome moderno deriva dal latino Clusium, è l’etrusca Clevsin, Sorge su un’altura del sistema collinare che domina la valle del fiume Chiana, allora affluente del Tevere, nella posizione più adatta a controllare le importanti vie di comunicazione dell’interno. Fu potente e famosa lucumonia dell’Etruria settentrionale: un suo re, Porsenna, assalì e probabilmente conquistò Roma nel 509 a.C.
 
L’ininterrotta vita della città di Chiusi sino all’età moderna ha cancellato quasi ogni traccia dell’abitato etrusco che fiorì, tra la fine del VI e il V secolo a.C., in coincidenza con la decadenza delle metropoli costiere. Molte sono invece le necropoli rinvenute sul territorio circostante, che testimoniano l’esistenza di piccoli centri abitati (Chianciano, Cetona, Sarteano, Montepulciano ecc.) gravitanti attorno alla metropoli. Grazie ai vasti territori coltivati a grano che la circondavano, Chiusi godette di grande prosperità e pertanto affiancò all’attività primaria della produzione agricola, quelle artigianali che furono molte e varie. L’aristocrazia locale, raffinata ed aperta ai nuovi messaggi culturali, richiamò a Chiusi, già alla fine del VI secolo a.C., maestranze artistiche (scultori vulcenzi e pittori tarquinesi) e materiali di lusso, a volte eccezionali, come il famoso ‘‘vaso François” proveniente da una tomba ipogea di Dolciano. Caratteristici sono gli ossuari antropomorfi o canopi e i vasi in bucchero con decorazione impressa o a rilievo. Nel III secolo a.C. Chiusi passò sotto il controllo di Roma e nell’82 a.C. Silla vi fondò una colonia per i propri veterani.
 
 
I canopi erano contenitori di forma ovale, di bucchero o di bronzo, nei quali venivano deposte le ceneri del defunto. La loro apparizione risale al VII secolo a.C. e il loro nome deriva da quello dei vasi funerari egizi. Il coperchio aveva aspetto antropomorfo, inizialmente limitato ad alcuni tratti anatomici del volto, riprodotti sommariamente; in un secondo tempo si ebbero raffigurazioni sempre più dettagliate, talvolta con l’aggiunta delle braccia applicate sul corpo del vaso o, come nei canopi femminili, di orecchini ad anello di bronzo o d’oro e, a volte, con la rappresentazione plastica dei seni. Dai canopi di Chiusi derivano le statue in pietra, raffiguranti il defunto, con vano interno per la deposizione delle ceneri.
 
 
La città di Volterra, Velathri in epoca etrusca e Volatarrae quando divenne municipio romano, è situata su un colle di 550 metri da cui domina le valli dell’Era, del Cecina e dell’Elsa, alla confluenza di importanti vie di comunicazione verso il Tirreno e verso la pianura dell’Arno. L’attuale struttura medievale copre solo parzialmente il vastissimo sviluppo urbano raggiunto nell’antichità, quando la cinta muraria etrusca aveva il perimetro di oltre sette chilometri.
 
I primi insediamenti risalgono all’età villanoviana (IX-VIII secolo a.C.) e sono testimoniati da tombe a pozzetto che custodivano in un vaso le ceneri del defunto. Fino al VI secolo a.C. l’entità dell’abitato volterrano fu abbastanza modesto, con una prima cinta muraria di 1270 metri attorno all’acropoli; nel corso della prima metà del V secolo l’area abitativa era di circa 10 ettari, racchiusa in una seconda cerchia di mura lunga circa due chilometri. Questo sviluppo è collegato allo sfruttamento delle risorse minerarie (rame presente sul territorio in vene superficiali) che si aggiunse alla diffusa attività agricola. Nel corso del IV secolo la floridezza e la dimensione di Volterra aumentarono, come dimostra la costruzione di una nuova grandiosa cinta muraria di cui si conservano ancora due grandi accessi: Porta Diana e  Porta all’Arco. Fiorente fu l’artigianato: caratteristiche le stele scolpite arcaiche, i vasi dipinti, le urne cinerarie in alabastro con altorilievi. Le necropoli cittadine di Portone, Badia, Ulimeto, Poggio alle Croci testimoniano un forte incremento della popolazione. Le testimonianza romana più cospicua della città (il teatro di Vallebuona) risale ai primi anni del I secolo d.C.
 
 
La cinta muraria volterrana (la terza dalla fondazione della città) fu costruita nel corso del IV secolo a.C. in blocchi squadrati di pietra locale. Il suo perimetro di 7300 chilometri racchiudeva un’area di 116 ettari, spazio ben più ampio di quello occupato dal successivo abitato medioevale e moderno. Qui, oltre all’abitato in espansione verso le aree già occupate dalle antiche necropoli trovavano rifugio, in caso d’invasione, agli abitanti dei piccoli insediamenti sparsi nel territorio circostante. Si conservano ancora i due grandi accessi di Porta Diana e di Porta all’Arco: prima allacciava il cardo massimo alla via verso la Val d’Elsa e quindi la valle dell’Arno; la seconda, da cui usciva il cardo massimo, si apriva sul versante sud in direzione del mare.
 
 
Sul versante meridionale della cinta muraria del IV secolo a.C. fu aperto originariamente un passaggio con infissi lignei, sostituito nella metà del III secolo a.C. da una porta ad arco. Sulle due fronti della porta si aprono grandi archi di oltre 4 metri, impostati su fianchi formati da blocchi di tufo accuratamente squadrati e connessi a secco; tra essi corre una galleria interna coperta da una volta a botte. Sul fornice esterno sono inserite tre teste in pietra scura, che il tempo ha reso illeggibili ma che forse devono essere identificate con Giove e i Dioscuri.
 
 
Fiesole o Faesulae - al plurale perché si riferiva a numerosi piccoli insediamenti etruschi della zona -  sorge su una collina che reca in vetta due alture con una spianata in sella, e domina la piana di Firenze presso il guado sull’Arno. Qui giungevano i percorsi che partivano da Volterra e da Chiusi e che poi procedevano verso l’Appennino e la Padania.
 
La frequentazione del sito fiesolano è attestata nella tarda età del Rame, ma la prima occupazione del territorio, sull’attuale colle occidentale di San Francesco, risale all’età del Bronzo medio. Il centro urbano vero e proprio nacque nella fase terminale del VII secolo a.C. quando il primo nucleo stanziato sulla collina si estese lungo il versante orientale dell’altura e nella spianata sottostante; tra il IV e III secolo a.C. esso raggiunse anche tutta l’attuale collina orientale di Sant’Apollinare. La rocca era racchiusa in una prima cerchia muraria in blocchi parallelepipedi squadrati, fronteggiata più in basso, sul versante est del colle, da un secondo tratto di mura quasi rettilineo che divideva l’acropoli dalla piana dove sorgeva l’abitato. Esso si accrebbe grazie all’importanza del luogo sulla rotta commerciale da sud e nord e vide la nascita di importanti botteghe ceramiche e di ‘‘pietre fiesolane” (statuette, elementi decorativi, pannelli in bassorilievo, tutti in pietra serena). Attorno alla fine del IV secolo a.C. la città si dotò di un tempio ellenistico situato sul fianco est della collina di San Francesco. Sorgeva su un vasto podio con gradinate di accesso ed aveva sia fondamenta che alzato in pietrame. Al centro della fronte si alzavano due colonne inquadrate dal prolungamento dei muri laterali dell’edificio e recava due vani minori posti ai lati della cella centrale; l’interno era tutto intonacato di rosso. Dagli ex voto ritrovati si suppone che il tempio fosse dedicato a Minerva Medica. Distrutto da un incendio e rimesso in funzione in maniera sommaria, l’edificio venne poi interamente interrato agli inizi del I secolo a.C. e sostituito da un soprastante tempio romano. La necropoli arcaica non è mai stata individuata.
 
 
 
 
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