Legnano story - note personali
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Biancheria e igiene
 
La guerra al bagno. La diffusione della biancheria era legata anche alle concezioni dell’igiene e del corpo che si erano imposte a partire dal Cinquecento. Sino ad allora aveva continuato ad esistere il vecchio sistema dei bagni di origine romana. Il bagno era associato sia alla pulizia sia al piacere. C’erano così stabilimenti frequentati insieme da uomini e donne «senza commettere nessun atto disonesto»24 e, sempre più spesso dal Trecento, bagni con una rigida distinzione tra il settore maschile e quello femminile, o che aprivano alcuni giorni alla settimana alle donne e altri giorni agli uomini. Accanto ad essi c’erano però bagni in cui gli avventori non trovavano solo vapore, acqua calda, tinozze e vasche, ma anche cibi, bevande, letti e fanciulle compiacenti. Pare anzi che questo secondo tipo di bagni nel corso del Medioevo avesse conosciuto un crescente successo.
 
Fin dalla peste del 1347-1351 si cominciò tuttavia a ritenere che i bagni pubblici fossero luoghi che potevano facilitare il contagio. Pertanto se ne scoraggiò la frequenza durante le epidemie. Ma pare che tale raccomandazione non fosse molto seguita. La stessa diffusione della sifilide, che dopo la scoperta dell’America contagiò un numero enorme di persone, inizialmente sembra avesse portato ad allontanare i malati dai bagni più che a chiudere gli stabilimenti. Nel Cinquecento tuttavia la volontà di lottare contro tali malattie e la paura del contagio misero sempre più sotto accusa i bagni, che nel corso del secolo divennero oggetto anche degli strali della sessuofobia controriformista e riformista. Tutto ciò diede a tali antichi stabilimenti il colpo di grazia. Nell’Europa occidentale in larga maggioranza essi vennero chiusi. L’acqua venne bandita25.
 
Fare il bagno è pericoloso, si comincia a pensare. A contatto con il vapore o con l’acqua, soprattutto nell’acqua calda, i pori si dilatano. E così diviene più facile la penetrazione nel corpo degli agenti patogeni e la fuoriuscita di umori, che provoca una pericolosa debilitazione. In tale contesto quasi solo le mani e la bocca continuano a venir lavate con acqua, spesso allungata con aceto, alcol o vino. Il bagno ormai è una pratica che si ritiene possa essere svolta soltanto come cura per alcune patologie, circondandola di mille precauzioni26. Sembra che Luigi XIV nel corso dei sessantaquattro anni che separano il 1647 dal 1711 abbia fatto il bagno solo una volta, e proprio a scopo terapeutico27. È a scopo in senso lato terapeutico, in effetti, che il bagno viene consigliato per i bambini appena nati. Ma poi per i bebè l’acqua viene bandita. Il loro corpo, almeno fino al Settecento, viene stretto in fasce cambiate al massimo due o tre volte al giorno. I medici consigliano di ungerle con olio di rosa o di mirtillo e di cospargere il bambino con polveri di vario genere (cenere di molluschi, cenere di piombo tritata finemente ecc.), olii o cera al fine di ostruire i pori della pelle: così, si pensa, il corpo sarà meno permeabile e dunque più resistente alle malattie28.
 
Si sviluppa allora una concezione «asciutta» dell’igiene e della pulizia destinata a perdurare almeno fino agli anni Sessanta del Settecento, quando l’élite illuminista inizia a venir presa dalla mania del bagno, e in particolare del bagno freddo, che dovrebbe tonificare e rinforzare il corpo (prima e più che pulire). Sarà in quel contesto che cominceranno a diffondersi stanze e vasche da bagno. La diffusione tuttavia sarà lenta: se verso il 1750 solo il 6% dei palazzi privati parigini è dotato di un bagno, in quelli costruiti tra il 1770 e il 1800 esso è più comune, ma pur sempre piuttosto raro: due terzi ancora ne sono sprovvisti29. Certo le vasche e tinozze sono più diffuse, ma difficoltà pratiche affiancano le concezioni tradizionali nel rendere la situazione vischiosa.
 
La biancheria che assorbe. La concezione tradizionale rimanda, ­infatti, ad una sorta di lavaggio a secco. La scomparsa del bagno nel Cinque-Seicento non implica infatti un venir meno della preoc­cupazione per la pulizia. Semmai anzi rispetto ai secoli precedenti tale preoccupazione si accresce. Solo che la pulizia non è più associata all’immersione del corpo nell’acqua e alle abluzioni, quanto piuttosto all’asciugatura del sudore, al frizionamento ­della pelle con panni puliti e profumati, alla sua aspersione con ciprie odorose.
 
La biancheria gioca su questo scenario un ruolo ­fondamentale. Si crede infatti che assorba il sudiciume e le impurità dell’epidermide. Per asportare dal corpo la sporcizia è bene allora cambiarsi spesso, si pensa. In tal modo si potrà evitare o quantomeno limitare il fatto che essa, degenerando, dia origine a pulci e pidocchi. È infatti radicata la credenza che i parassiti nascano dalla decomposizione delle secrezioni corporee, tanto che si ritiene di poterli ridurre anche modificando attraverso una corretta alimentazione la composizione delle traspirazioni30. Si può così sostenere che se le celle dei certosini non pullulano di cimici, mentre quelle dei loro servitori ne sono invase, è perché i primi sanno astenersi dalla carne31. Dai parassiti l’umanità nei secoli qui ­analizzati è però di fatto afflitta, come ricorda, tra mille altri, il caso dei bambini di Bristol che, verso la fine del Seicento, «si spidocchiavano come sciami di locuste in ogni angolo della strada»32. Ecco allora che tra i compiti della buona madre c’è comunque anche quello di spulciare e spidocchiare i suoi bambini33. In un’epoca in cui salassi e applicazioni di sanguisughe sono terapie assai diffuse non manca neppure, d’altronde, chi ritiene i parassiti utili alla salute34.
 
Ma torniamo alla funzione igienica attribuita alla biancheria. Quale ne fosse l’importanza emerge chiaramente dalle parole scritte nel 1626 da un autore, Savot, nel suo trattato sulla costruzione di castelli e palazzi a proposito dei bagni. «L’uso della biancheria [...] oggi ci permette di tenere pulito il nostro corpo più comodamente di quanto potessero fare gli antichi con i bagni», sostiene. Allora l’uso della biancheria era sconosciuto e per stare puliti bisognava lavarsi. Ma oggi, sentenzia, grazie ad essa dei bagni si può fare «più comodamente a meno»35. In un contesto in cui alla biancheria viene affidato il compito di tenere pulito il corpo essa non può che moltiplicarsi.
 
Ma quando nasce? Già nel mondo romano si parla di tunica interior (di tunica cioè da portare sotto altri abiti) ed è probabile che anche i Longobardi ne facessero uso36. È tuttavia soprattutto dal Duecento che si delinea chiaramente la diversificazione tra indumenti più fini che stanno a contatto con la pelle e indumenti più pesanti che li ricoprono37. Originariamente la biancheria è infatti nascosta sotto altri vestiti. Dal Quattro-Cinquecento inizia però a sbucare all’esterno: fa capolino intorno al collo e ai polsi grazie a strisce di stoffa dette in Italia lattughe; sbuffa dall’allacciatura alle spalle delle maniche (all’epoca spesso staccabili); biancheggia nei tagli praticati nelle vesti per lasciar intravedere gli strati sottostanti. Il suo candore diviene così un indicatore visibile della pulizia della persona che la indossa. Non a caso allora nel corso del XVI-XVII secolo colletti e polsini si arricchiscono a dismisura trasformandosi in una sorta di vetrina: vetrina di pulizia ma anche inevitabilmente di lusso e raffinatezza grazie a pizzi, trine e merletti. «Vogliono poi che si sappia che hanno la camiscia di lino finissimo», dice con arguzia la monaca forzata Arcangela Tarabotti di chi la lascia fuoriuscire38.
 
Una volta stabilito il nesso tra pulizia della persona e candore della biancheria che si vede all’esterno, diventa possibile giocare sulle apparenze. Colli e polsini si trasformano spesso in elementi staccabili. Li si può dunque lavare separatamente dalla biancheria che resta nascosta sotto gli abiti: dicono insomma ben poco, in realtà, della pulizia «interna» di chi li indossa39. Sebbene nella mente dei nostri antenati le concezioni igieniche sottostanti al­l’uso della biancheria siano strettamente collegate a preoccupazioni di tipo sanitario, la pulizia è d’altronde per molto tempo una questione soprattutto sociale, un fatto di buona educazione e di decenza40.
 
In questo senso essa è preclusa ai ceti inferiori. Nella misura in cui s’impone l’equazione tra pulizia e biancheria candida, essere puliti diviene un privilegio di chi può permettersi di avere un certo numero di pezzi di ricambio o, quantomeno, di lavare spesso il poco che ha. Ma si tratta di possibilità che non sono alla portata di tutti. Anzitutto acquistare la biancheria costa. In particolare quella più bianca, di lino, di ottima qualità, ha prezzi proibitivi. In Francia nel 1610 le camicie di Isabeau de Tournon valgono 8 franchi ciascuna. Un manovale, per guadagnare una cifra del genere, deve lavorare circa quindici giorni. Non può dunque che accontentarsi, se riesce a risparmiare un po’, di una camicia di canapa, spesso gialliccia: verso la metà del secolo costa circa 2 franchi, l’equivalente di tre o quattro giornate lavorative41. A giudicare dagli inventari post-mortem ancora all’inizio del Settecento anche in una città come Parigi non tutti però ne possiedono una42. Per molti, poi, assicurare un minimo di candore alla propria biancheria più o meno giallognola non è cosa semplice: lavarla la consuma e la rovina43. E chi infine ha una sola camicia quando fa freddo difficilmente può permettersi di farne senza mentre viene lavata e asciugata.
 
Fare il bucato. In una società in cui la pulizia consiste principalmente nel cambiarsi la biancheria, il bucato è in effetti un momen­to importante delle pratiche igieniche. Lavare i panni, come già si accennava, può essere un compito delle donne di casa o di lavandaie e lavandai specializzati (Tavv. 18-19). È in ogni caso un lavoro duro e faticoso, che richiede tempo ed energie. Spesso è svolto fuori casa, alle fontane o vicino ai corsi d’acqua. Le tecniche per lavare e smacchiare sono varie. Per quanto riguarda le macchie si cerca di asportarle con l’ammoniaca, con oli vari, con la crusca; per le macchie di inchiostro si usa il succo di limone, oppure l’allume o la pietra di Troyes. Le macchie sulle divise militari bianche più che tolte sono invece fatte sparire coprendole con la biacca (!)44.
 
E il bucato? come si lava? Il sapone sino alla fine del periodo qui studiato è un prodotto costoso: in Inghilterra si diffonde su larga scala solo nella seconda metà del Settecento. Al suo posto si usa ranno fatto con la cenere del camino (se si brucia della legna), oppure orina che, sviluppando ammoniaca, ha in effetti una certa capacità di sgrassare i tessuti, nonostante la repulsione che ciò oggi può suscitare. Ma si impiega addirittura letame disciolto nell’acqua o nell’orina (ovviamente dopo l’impiego viene tolto con un abbondante risciacquo).
 
Oltre a essere messo in ammollo in tali miscele il bucato viene spesso liberato dalla sporcizia strofinandolo e soprattutto battendolo. In Irlanda tuttavia le donne entrano a piedi nudi nelle tinozze e pestano i panni come se pigiassero l’uva in un tino. La frequenza del bucato è comunque sottoposta a molte variabili, dalla disponibilità di tempo a quella d’acqua o di indumenti di ricambio, come già si accennava45.
 
Cambiarsi le mutande, cambiarsi la camicia. «Ma poi chi abbastanza potrà esagerare gl’incomodi dell’immondezza, del puzzo, della sparutezza e squallore allorché sieno costretti i poverelli a portarsi i mesi e mesi le stesse mutande?», scrive nel 1777 un caritatevole sacerdote. Le mutande sporche sono a suo avviso fastidiose come il «più aspro cilizio di penitente»46. Il non potersi cambiare la biancheria appare ai suoi occhi uno dei tratti caratteristici della miseria. È un’ulteriore, tardiva conferma del carattere socialmente determinato della pulizia nelle società d’Età moderna: c’è chi può permettersi biancheria pulita e profumata, e chi è condannato al lerciume e al fetore.
 
Anche tra i ricchi, tuttavia, le mutande all’epoca non si cambiavano poi tanto spesso, diversamente dalla camicia: prima del matrimonio (1767) il barone di Schomberg cambia camicia e colletto ogni giorno, fazzoletto ogni due, le mutande ogni quattro settimane! (Una volta sposato le cambierà una volta alla settimana.) E nel comportarsi in tal modo non pare un eccentrico, visto che segue le indicazioni dei manuali di galateo47.
 
Ancora verso la fine del Settecento, d’altronde, molti le mutande proprio non le possiedono48. Ciononostante si tratta di un indu­mento antico, conosciuto, ad esempio, tanto dai Longobardi quanto dai Franchi49. In Italia la prima attestazione del termine, che rimanda proprio all’idea di qualcosa che va cambiato, si ha in un testamento del 1268, dove si trovano elencate «mutandas de ­lino»50.
 
La documentazione medievale indica le mutande come prerogativa prevalentemente maschile, forse perché esse in parte si confondono con le brache51. Almeno in Italia, tuttavia, dal Trecento se ne trovano anche da donna52. Dal Cinquecento il loro uso è stimolato dal diffondersi di mezzi per dare volume alle vesti che talvolta tengono scostata dalle gambe anche la sottana, cioè quella che noi oggi chiameremmo sottogonna53. In Francia le mutande femminili vengono introdotte, sembra, da Caterina de’ Medici, che le mette per poter cavalcare senza venir meno alle regole del decoro. Molti le approvano, perché proteggono le parti intime da sguardi indiscreti in caso di caduta ma anche «dai giovani dissoluti, che infilano le mani sotto le vesti delle donne». Altri invece le condannano perché le considerano un’usurpazione del­l’abbigliamento maschile e una trasgressione delle norme ecclesiastiche contro il travestimento con i panni dell’altro sesso54.
 
Complessivamente tra le donne stentano ad imporsi. Certo nel­l’inventario dei beni della ricca cortigiana veneziana Giulia Leoncini e di sua sorella Angelica, redatto nel 1569, sono presenti ben sedici paia di mutande di tela e un paio di lana. Ma le donne del popolo, nei secoli dell’Età moderna, raramente le usano: «mi alzò su i panni» (non: «mi tirò giù, mi strappò le mutande») dicono in genere le donne stuprate quando, nei processi per violenza sessua­le, parlano dell’uomo che ha abusato di loro. «L’ho vista, è rossa come una rosa, l’ha negra e bianca come la neve», urla, a detta di molti, tal Domenico Righi dei genitali di Laura Fabbri, la ragazzina verso cui prova una torbida passione non corrisposta. È la sera del 30 aprile 1630, e lui si è nascosto sotto la scala di legno della casa della fanciulla, nel comune appenninico di Villa d’Aiano, proprio per riuscire a vedere le «parti vergognose» di Laura sotto la gonna. Evidentemente sa che non sono protette da un paio di mutande. In un contesto diverso, il villaggio tedesco di Neckarhausen, nel 1769 Andreas Köpple va anche oltre: rientrando, ubriaco, trova seduta sulle scale, intenta a lavorare del lino, Barbara Häfner, che vive con il marito nella stessa casa dov’egli abita con sua moglie. Andreas le infila una mano sotto la gonna e un dito nella vagina. Dunque non ha le mutande neppure Barbara, che reagisce all’approccio brutale e violento urlando e gridando di lasciarla andare. A livelli sociali più alti la situazione sembre­rebbe differenziata: se da una ricerca su Spalato emerge che questo capo, nella seconda metà del XVIII secolo, è abbastanza diffuso nei guardaroba femminili dei ceti medi e alti della città, e se un’autrice può sostenere che, in Italia, dal secondo quarto del secolo le mutande fanno parte di quasi tutti i corredi, una vasta inda­gine sulla capitale francese mette in luce una situazione diversa55. All’inizio del Settecento a Parigi sono presenti negli ­inventari solo del 3,5% delle nobili, nell’1,6% di quelli delle domestiche e delle mogli e figlie di funzionari, in nessuno di quelli delle salariate. Solo artigiane e bottegaie ne hanno un po’ di più (12%). Di fatto sono considerate un indumento per cacciatrici, attrici e prostitu­te56. A fine secolo risultano più diffuse, ma ancora piuttosto rare (sono presenti nel 7,2% degli inventari di aristocratiche, nel 6,6% di quelli delle mogli e figlie di funzionari, nel 2,6% di quelli di domestiche, ma risultano assenti nel resto della popolazione)57.
 
Il capo principale di biancheria non sono allora le mutande ma, come già si sarà intuito, la camicia. Indumento antico, essa si diffonde nelle campagne italiane con una certa ampiezza solo nel Quattrocento, per quanto sia presente già nel Due-Trecento, e costituisca anzi talvolta l’unico capo di abbigliamento posseduto. Già nel Cinquecento, secondo Benedetto Varchi, i contadini toscani la cambiano una volta alla settimana, la domenica. Spesso però non è un indumento portato sotto altri: soprattutto in estate i contadini indossano solo cappello di paglia e camicia, rappresentata da un camicione senza colletto, con uno spacco dietro e due sui fianchi, lungo almeno fino a metà coscia58.
 
A quest’epoca nelle campagne francesi la camicia è ancora un capo molto raro59. Negli ambienti di corte è al contrario molto diffusa e pare che la si cambi quasi tutti i giorni60. In altri, invece, i ritmi sono molto più rilassati, ma si nota una tendenza all’accelerazione: nelle istituzioni educative a fine Cinquecento si raccomanda di cambiarla una volta al mese, un secolo più tardi in molti collegi si arriva a cambi bisettimanali61. In quest’ottica, non stupisce più di tanto che nei guardaroba dei domestici parigini, il cui stile di vita è influenzato da quello dei ceti presso cui lavorano, le camicie abbondino: tra il 1700 e il 1715, stando agli inventari, ne possiede almeno una l’88% delle serve, che spesso ne hanno a dozzine. I maschi ne hanno in media una decina a testa, ben 25 tra il 1775 e il 1790. Ma non tutti sono così ben forniti. Nella stessa Parigi, considerata la città europea in cui la biancheria è più abbondante, i guardaroba dei salariati sono meno provvisti, tanto che d’estate, la domenica, lungo la Senna, sono molti coloro che lavano la propria unica camicia. Alla fine del secolo dei Lumi lavare la camicia una volta ogni quindici giorni o una volta alla settimana sembra infatti un’abitudine anche tra chi ne possiede una sola, almeno nella bella stagione62.
 
Nelle campagne sarde, in segno di lutto non ci si cambia la camicia per un anno: ciò – nota un autore – testimonia che la camicia è conosciuta e che non cambiarla è un sacrificio63. Ma testimonia anche che portare lo stesso indumento per tutto l’anno è una pratica nonostante tutto accettabile, tanto da parte di chi ha perso un parente, quanto da parte di chi gli sta vicino e deve tollerarne gli odori. Nello stesso periodo in Inghilterra è addirittura usuale, all’inizio dell’inverno, spalmare i bambini di grasso e cucir loro addosso i vestiti, in modo che restino sempre ben coperti e non prendano freddo64.
 
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