Legnano story - note personali
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La Battaglia
 
 
 
 
 
Fa mestieri ridire l'origine della guerra fra i Milanesi e l'Imperatore Federico? Erano due forse opposte: vi erano da una parte i cittadini riunitisi nei Comuni, dall'altra l'Imperatore che pretendeva di avere ereditato il diritto dell'antico romano impero su tutto il mondo sconosciuto.
Per la nostra sventura i Comuni erano in guerra tra loro. Milano, potente per ricchezze e per esteso dominio, era in lotta con pavia, con Como, con Lodi; e due uomini di quest'ultima città' si recarono, nel 1153, alla dieta di Costanza, per domandare a Federico I, detto barbarossa, dal colore della barba, protezione contro Milano, Giova aggiungere che i cittadini lodigiani nulla sapevano di quanto i due avevano fatto: e che quando tornarono a casa, li cacciarono in bando.
Ma Federico, che aveva animo smanioso di avventure e si credeva destinato a riunire tutte quante le terre dell'orbe sotto il suo scettro, accolse volenteroso l'invito. Già' aveva egli imposto a tutti i suoi vassalli di mettere l'aquila nera - derivazione bastarda dell'aquila romana - negli stemmi: e non e' superfluo ricordare che l'aquila della casa di savoia, cantata da Carducci come l'uccello di Giove che scende dall'Alpi per comprendere sotto il volo dell'ampia ala tutta l'Italia, non e' altro che il segno del vassallaggio, perche' la casa di Savoia era vassalla dell'impero tedesco - emblema non di audacia e di gloria, ma di dipendenza.
Nacque un guerra di sterminio. Il Barbarossa, chiamato buono da Dante, e dalla nuova critica storica ( della quale in questo stesso numero si leggono gli scritti, perche' e' doveroso che tutte le idee abbiano i loro dotti rappresentanti )  giustificato coi costumi dei tempi - scese in Italia a seminar stragi e rovine. Assedio' una prima volta Milano nel 1158 e la costrinse ad arrendersi a patti onorevoli: ma poco dopo i Milanese scacciavano i messi imperiali al grido: Mora Mora.
Torno' Barbarossa a nuova guerra. Comincio' ad assediare Crema: e fece legare ignudi i prigionieri milanesi e cremaschi ad una torre di legno che empiuta di armati faceva avanzare verso le mura. I cittadini cremaschi erano cosi' posti nell'orrendo bivio o di uccidere i congiunti o di lasciar sorpassare le mura dai soldati nemici. Crediamo che Dante non abbia ricordato questa scena orrenda quando chiamava buono il Barbarossa, che aveva sorpassato ogni atrocita' dei costumi di guerra.
Le ire fraterne aumentarono l'esercito del sire tedesco: e finalmente al 4 marzo 1162, anche Milano, dopo aver eroicamente resistito, doveva cedere e i cittadini furono umiliati con un lungo supplizio e dispersi nei borghi vicini: la città' fu distrutta. Rimasero in piedi soltanto le chiese e le colonne di San Lorenzo, alle quali ultime oggi attenta l'ignoranza di nuovi barbari.
Federico trionfava. Egli datava i suoi diplomi dall'anno post destructionem Mediolani, perche' l'aver atterrati gli edifici di questa città', equivaleva per lui a stabilire un'epoca della storia mondiale.
Ma l'oppressione nella quale teneva i Comuni, a cominciar da quelli che erano stati i suoi aiutatori nella lotta, fece comprendere ai lombardi che egli era il nemico di tutti: e allora le stesse città' che avevano aiutato la distruzione di Milano, compresero il loro torto e si unirono per portare rimedio al male.
Fin dal 1164, i cittadini di verona, Vicenza, Padova e Treviso, si unirono in Lega (aiutati dalla repubblica di Venezia) per difendersi contro l'invadente imperatore: e l'unione fu detta Lega Veronese.
Tre anni dopo, e precisamente, dopo il Corio, al 7 aprile 1167 si trovarono nel monastero di pontida i rappresentanti dei dispersi Milanesi insieme a quelli di Cremona, di Bergamo, di Brescia, di mantova, di Ferrara e della marca Veronese. La' si proferi' il giuramento della concordia.
"Primo passo all'ammenda (scrisse Cesare Cantu') e' riconoscere il proprio fallo: secondo di ripararlo. E percio' le città' convennero di rifabbricare tutte assieme quel Milano che assieme avevano distrutto: appoggiata una mano alla spada, l'altra stesa ai fratelli, conobbero la potenza dell'unione".
Cosi' risorse Milano piu' bella e piu' forte. E volemmo riprodurre gli archi di porta Nuova, perche' furono allora costrutti dai collegati lombardi i quali vi portarono, a rigor di parola, ciascuno la propria pietra, cementando l'unione promessa a Pontida.
L'imperatore, tornato a Roma dove erasi recato per esigere il giuramento di fedelta' da quei cittadini, trovo' la Lombardia che aveva lasciata avvilita e schiava, divenuta forte, libera e rifiorente; e il 21 settembre 1167 tenne a Pavia una Dieta nella quale dichiaro' al bando dell'impero tutte le città' collegate, eccetto lodi e Cremona. E nel pronunciare la condanna della Lega, secondo il costume, gitto' in aria un suo guanto in segno di sfida.
E la sfida fu raccolta. mentre Federico scorazzava per le terre di Abbiategrasso, di Rosate, di magenta e di Corbetta, si radunarono in Milano i Lodigiani, i Bergamaschi, i Bresciani, i Parmigiani e i Cremonesi, e raccoltisi coi Milanese in esercito, corsero contro l'imperatore. Ma questi invece di accettare la sfida che aveva proclamato spavaldamente, fuggi' davanti ai nuovo soldati (Giovanni di Salisbury scrisse che barbarossa fu volto in fuga dagli alleati nel giorno di Sam martino, 11 novembre 1167.).
I Lombardi avrebbero potuto fiaccare tosto la superbia di Federico, se questi con un inganno non ne avesse delusa la vigilanza (L'asserisce Giovanni di Salisbury) e si soppiatto non si fosse recato nelle terre del marchese di Monferrato, suo alleato, cercando una via di tornare in germania. Tutti passi erano guardati dalla lega: e rimaneva libero solamente il passo della Savoia, che era in mano a Umberto III, allora conte di Savoia, e ben lontano dall'immaginarsi che i suoi discendenti sarebbero diventati re d'Italia. Questi aveva perduto parecchie castella e città' occupate dal barbarossa: ma il marchese di Monferrato, suo cognato, gli scrisse di lasciar passare liberamente l'imperatore che gli avrebbe restituito, non solo il tolto, ma dato ancor "monti di oro, e promessogli con onore e gloria la grazia sempiterna dell'impero "(" promittens ei (ad Umberto) non solum restitutionem ablatorum, sed montes aureos et cum honore et gloria imperii gratiam sempiternam"). Qualche tempo durarono le trattative: finalmente il Savoiardo acconsenti' al mercato, che , lasciando uscire il barbarossa d'Italia, prolungava la guerra.
Quando l'imperatore fu presso Susa, udi che gli alleati avevan posto l'assedio al castello di Biandrate: e, per vendicarsi, scelse, fra gli ostaggi che conduceva seco, il nobile bresciano Zilio da Prando, ed accusandolo di aver maneggiato la lega che ora li cacciava da questa terra non sua, lo fece appiccare ad un monte. Questa crudelta' ingiustificabile mosse a sdegno l'animo dei cittadini di Susa, i quali non si lasciarono corrompere dai monti d'oro che placarono Umberto (Qualcuno potra' osservare che il Guichenou chiamava Umberto alleato del papa: e altri diranno che cosi' dovea essere perche' fu dal papa beatificato. Ma il Muratori ha già' dimostrato che il Giuchenon abbia troppe favole inventate per la Casa di Savoia: sta difatti che Umberto era ligio al papa, tantoché' nella guerra perdette alcune castella: ma dopo l'offerta del monti d'oro passo' dalla parte del barbarossa per rifarsi di quello che aveva perduto. La beatitudine poi non prova in questo caso ne' l'amicizia dei lombardi, ne' la devozione al Papa. Osservo' il professor Balan che fu beatificato da Gregorio XVI° nel 1838, per istanza di re Carlo Alberto, in modo eccezionale, perche' non fu discussa la causa, cioè' la vita e i meriti per dichiararlo beato, ma esaminando solamente se il culto tributato ad Umberto esisteva da lungo tempo, e per questo motivo a norma di un decreto di urbano VIII°, fu ammesso nel novero dei beati..); e levatisi in armi, gli tolsero gli ostaggi che trascinava seco, forse per appiccarli al confine d'Italia. E, Pensando di liberare l'Italia dal suo piu' feroce nemico, quei cittadini tramarono di ucciderlo nel suo letto; ma, (come narrasi nella cronaca di Ottone a San Biagio) l'imperatore fu avvertito in tempo dall'albergatore; e lasciato in letto Artmanno da Sibeneich, suo famigliare, che molto lo somigliava, fuggi' travestito da servo: e con soli cinque dei suoi passo' le Alpi per strade dirupate, fingendo di andare innanzi a preparare l'alloggio al suo padrone, che era un gran signore di la' da venire. Correva il giorno 10 marzo 1168, quando il superbo imperatore, al cui cenno tremavano tante genti italiane, colui che i giuristi di Bologna, avevano chiamato "Signore del mondo," fuggiva vergognosamente d'Italia sotto servili spoglie.
In un lieto giorno di primavera di quello stesso anno 1168 si radunarono i delegati delle città' lombarde nella bella e feconda pianura difesa dalle acque dei fiumi Tanaro e Bormida: e, vicino a Bergoglio, la' dove il primo fiume riceve le acque del secondo, si misero a tracciare confini e a scavar fossati, inalberando la bandiera della lega sui segnati valli. Tali furono i principi gloriosi di quella fiorente città', che la Lega innalzava fra i possessi del marchese di Monferrato a Pavia, per impedire la congiunzione di questi due amici del barbarossa e tenerli a freno: volendosi che il nome significasse protesta contro l'impero e gratitudine verso il sostenitore  dei Comuni, fu dedicata al pontefice Alessandro III° e chiamata Alessandria.
Fu sul finire di settembre 1174 che Federico si affaccio' fremente alle Alpi, delle quali i soldati della lega custodivano i suoi passi. Aveva seco un formidabile esercito, con cui sperava di compiere le sue vendette: ma simigliante al leo rugens, delle sacre carte, si aggirava sitibonto intorno all'ovile senza potervi penetrare. Per mala ventura le porte d'Italia gli furono aperte da Umberto III°, che gli lascio' libero il passaggio della sua Savoia. Il Balbo, storico benevolo della casa Savoia, scrisse nel suo Sommario, queste parole, parlando di Federico: "Non gli era aperto se non il passo di Susa, per le terre dei conti di savoia, che troppo duole trovare qui". Per compenso di tale concessione il barbarossa,  appena valicato il Moncenisio, assali' Susa e vendico' l'onta della passata fuga coll'abbandonarla al saccheggio e alla brutalità' delle soldatesche che seco aveva condotto. I piu' notevoli capi di quell'esercito erano: Corrado fratello dell'imperatore, Ladislao re di Boemia, Ottone di Wittelspach, l'arcivescovo di Treviri, quello di Colonia e Umberto III° conte di Savoia, che aveva eccitato il barbarossa a distruggere la Lega Lombarda (La "Giornata di Legnano" narrazione storica di Carlo Mariani). Il Giulini, scrittore imparziale quant'altri mai, scrive che Umberto "si uni' con poderose forze all'esercito imperiale e con esso Federico si porto' ad Asti e si rese padrone di quella città'".
Quando Federico passo' i monti della Savoia facevan parte della lega: Asti, Alba, Acqui, Alessandria, Tortona, Bobbio, Vercelli, Novara, Milano, Lodi, pavia, Como, Bergamo, Brescia, Mantova, Cremona, Verona, Vicenza, Belluno, Feltre, Ceneda, Padova, Treviso, Venezia, Piacenza, Pontremoli, Parma, Reggio, Modena, Ferrara, Bologna, Imola, Faenza, San Casciano, Ravenna Rimini. Tutti i feudatari (tranne il ben inteso citato Umberto) avevano giurato la lega: fra questi notiamo: Obizzone e Maruello Malaspina, Ruffino da Trino, Guglielmo da Monferrato, Ottone da Biandrate, Ezzelino il Balbo, il conte di Camino, il conte di Bertinoro, Guglielmo di Marchesella e Obizzone d'Este. Dopo la caduta di Asti dalla Lega si separarono tosto Guglielmo di Monferrato, il conte di Biandrate e le città' di Alba, d'Acqui, di Pavia e di Como.
L'imperatore ando' quindi ad Alessandria, risoluto di radere al suolo la città', che sei anni innanzi i Lombardi avevano a propria difesa edificata ed a lui scorno dedicata: ma ne' con il lungo assedio, ne' con l'assalto a tradimento riusci' a vincerla.
Pareva imminente una decisiva battaglia fra il barbarossa e l'esercito della lega che stavano di fronte: quando ad un tratto si discorse di pace e si stabilisce una tregua.
Ma i patti che imponeva Federico erano indegni e furono respinti: e i Milanesi si prepararono all'ultimo certame (Il prof F. Bertolini nel 1875 pubblico' uno studio intitolato "Importanza storica della battaglia di Legnano", nell'intento di dissuadere gli italiani dal celebrare il VII centenario di quella gloriosa giornata.Imprese pertanto a dimostrare che in Montebello si stabili' un compromesso, al quale tenne dietro "un vero e definitivo trattato di pace" che la Lega viol' quella pace e merito "taccia di spergiura", che la battaglia di Legnano "non fu tanto gloriosa quanto si vuole" ed ebbe importanza solo perche' vi fu mischiato il papa e non porto' "alcun beneficio all'italiana liberta'".Contro questi sofismi di una fallace critica storica sorsero in folla i confutatori. "La giornata di Legnano del prof. Bartolini" segui' una splendida confutazione del prof. Cesare Vignati "L'importanza della battaglia di Legnano"; quindi il prof. Pietro Rotondi, i prof. Panzacchi e Cosci di Bologna, il prof. De Simoni di Genova e altri molti, i quali dimostrarono che "il compromesso di Montebello" come il Muratori, il Pertz ed altri già' dissero, era una domanda, petitio, o proposta di patti convenuti fra varie persone, laudam, per riuscire poi ad un trattato di pace.Questo laudam non era assoluto, ma condizionale dei sei arbitri, eletti dall'imperatore e dalla Lega per combinare un trattato di pace. Siccome implicava sotto frasi ingannatrici, la distruzione di Alessandria e l'esclusione del papa dalla pace, cosi' non venne accettata dal Milanesi, ne dai loro collegati. Quindi, non essendovi pace conclusa, non vi poteva essere spergiuro nel riprendere la guerra: e la Battaglia di Legnano fu di tale importanza che Federico venne costretto a domandare la pace, a rinnegare l'antipapa, a riconoscere il suo nemico papa Alessandro, a rispettare la città' di Alessandria sorta contro di lui, a cessare le dispotiche leggi di Roncaglia e a concedere il trattato di Costanza, dal quale derivano le liberta' interne e gli statuti dei nostri Comuni. Il prof. Bartolini scrisse contro la Lega Lombarda e contro Legnano con l'animo di un tedesco dei tempi di Barbarossa cui nuocesse la disfatta imperiale per opera delle forse nazionali italiane.
 
 
 
). Essi avevano tre forti compagnie militari, nelle quali sopratutto fidavano. La prima era composta da novecento guerrieri e chiamavasi della Morte, perché' quella che la componevano avevano giurato di voler morire, anziche' voltare le spalle al nemico. Di questi credesi capo il milanese Alberto da Giussano "per gagliardia sua reputato gigante". La seconda composta da trecento giovani che stavano a guardia del carroccio: la terza combatteva dai carri falcati, sui quali stavano dieci persone per ciascuno (Queste notizie sono date da Galvano Fiamma). Tutti i cittadini di Milano erano poi divisi in ischiere secondo le porte: e quelli di Porta Romana si raccoglievano sotto un vessillo rosso; quelli di Porta Ticinese, bianco; di Porta Comasina (ora Garibaldi) sotto un vessillo a scacchi bianchi e rossi; di porta Vercellina (oggi magenta) sotto un vessillo balzano rosso nella parte superiore e bianco nell'inferiore; quelli di Porta nuova sotto un vessillo, nel quale erano un leone ed uno scacco bianco e uno nero; quei di Porta Renza (ora Venezia) sotto il vessillo di cui era un leone tutto nero (Queste erano le insegne dei Milanesi alla Battaglia di Legnano secondo il Fiamma: piu' tardi alcune furono modificate: la Porta Ticinese mise uno scacco rosso in campo bianco e la Nuova si accontento' di uno scacco bianco e nero senza il leone.
).
Alla fine di maggio giunse notizia ai Milanesi che Federico, in grande segretezza, era andato incontro fino a Bellinzona ai Tedeschi che venivano in suo aiuto e li aveva guidati a Como. Le nuove truppe erano condotte dagli arcivescovi  Filippo di Colonia, Vieman di Magdeburgo, Arnoldo di Treviri, dai vescovi di Munster e di Worms, dal conte di Fiandra e da altri baroni di Germania. Con queste forze, accresciute dai suoi amici di Como, Federico voleva marciare su Milano, intendendosi con i pavesi che dovevano prendere alle spalle i collegati, se questi uscivano in campo aperto.
Il disegno nemico fu indovinato dal Milanesi, che con magnanimo ardire decisero di andar tosto contro l'imperatore e combatterlo prima che i Pavesi potessero sopraggiungere. Non erano ancora arrivate tutte le milizie che si aspettavano dalle città' della Lega: ma siccome ogni indugio poteva tornare fatale, cosi' trassero il Carroccio fuori dalle porte e si misero subitamente in cammino contro il nemico che si avvicinava a gran passi. Intorno al carroccio erano i trecento difensori: gli stavan davanti i novecento della Morte: poi venivano le carrette falcate e tutte le milizie delle sei porte, ciascuna con il proprio vessillo. Dei collegati vi erano 50 militi lodigiani, 200 di Vercelli e Novara, 200 di Piacenza, la cavalleria di Brescia, di Verona e delle città' della Marca Trevigiana, perche' i fanti di queste erano stati lasciati indietro a guardia delle città'
La mattina del benedetto giorno di sabato 29 maggio 1176 l'esercito nostro si trovava a quindici miglia circa da Milano, appoggiando coll'ala destra al borgo di Legnano, colla sinistra a Busto Arsizio, e tenendo il nerbo dell'esercito raggruppato intorno al carroccio, presso Borsano. Davanti ai militi s'estendeva la pianura che separa l'Olona dal Ticino.
Spostato in questo luogo l'esercito, i consoli spedirono settecento cavalieri ad esplorare dove si trovasse il nemico e al qual proposito accennasse. Erano questi cavalieri dilungati appena tre miglia, quando videro ad un tratto dinanzi a loro trecento tedeschi, e poco lontano l'esercito imperiale schierato in linea di battaglia. Gli esploratori non seppero trattenersi: abbassate le visiere e dato di sprone ai cavalli, si gettarono, con le lance in resta, sulla squadra nemica. Dopo breve, ma fiera mischia, fu vista balenare la schiera dei nostri: e allora Federico si mosse rapidamente con il grosso della cavalleria sovr'essi che, sopraffatti,  dovettero piegare e voltar le briglie verso il Carroccio, incalzati davvicino da tutto l'esercito tedesco.
L'urto dei tedeschi fu si' violento che furono scompigliate le ordinanze degli italiani: e l'ala sinistra composta da Bresciani e di Milanesi, non seppe sostenere l'assalto e cedette. I tedeschi trionfavano in ogni parte, e Federico baldanzoso sospingeva già' il cavallo contro il sacro Carroccio. Le sorti italiche segneran dunque una nuova ruina?... Mentre i tedeschi tripudianti si credevano vincitori,  e i trecento del Carroccio vacillavano, si rovescia sugli Alemanni come impetuoso turbine una bruna schiera preceduta da un gigante: sono i novecento soldati della Morte, con Alberto da Giussano, che accorrono a mantenere il fatto giuramento: morranno tutti se occorre, ma piu' non vedranno contaminata la patria (0 Vedi Alberto da Giussano del sac. prof. Vitaliano Rossi. In Giussano fu posta nel 1876 una lapide ricordante il valore del Capitano.
0). Il loro coraggio salva la liberta': i cavalieri di Alemagna sono sbaragliati, i dispersi Italiani  si radunano di nuovo sotto le bandiere dei Comuni: lo stendardo imperiale cade sull'alfiere che lo porta ed e' calpestato dai nostri: Federico stesso, che combatteva nelle prime file, e' travolto dai suoi, precipita da cavallo, cade a terra e scompare davanti alla furia dei cittadini guerrieri, che per otto miglia inseguono i nemici colle spade ne' fianchi. E intento sull'incolume Carroccio i sacerdoti intonano i lieti cantici di vittoria (1 Sincerita' di storico impone di tener conto dell'elemento religioso che opero' a Legnano, anzi del contegno dei preti di allora, scrive il Tosti: "la chiesa di Milano, in tutto questo conflitto delle repubbliche contro l'impero, si addimostro' veramente tali quali debbono essere i ministri del santuario, mentre il popolo fatica alla propria rigenerazione civile. Non si accosto' all'oppressore per mercanteggiare il tesoro della divina parola: non intimori' la plebe con importune paure; non la disciplino' alla infeconda pazienza del servaggio".1).
Molti tedeschi inseguiti fino al Ticino, chicchi di paura, si precipitarono nelle acque, che a centinaia li travolsero nel Po.
I collegati si impadronirono del vessillo di Federico, del suo scudo, della lancia e della croce che portava sul petto: e trovarono nel campo la cassa militare e ricchissime prede. Fra i prigionieri piu' illustri condussero a Milano il duca Bertoldo, un nipote dell'imperatrice e un fratello dell'arcivescovo di Colonia, Scrivendo ai Bolognesi subito dopo la battaglia, i Milanesi narrarono esser si' numerosi i nemici uccisi o patti prigioni, da non potersi contare.
Il Fiamma riferisce una poetica leggenda, che venne presto accolta dai cittadini, a' quali non pareva vero d'essersi liberati dall'imperatore. Secondo quel cronista il prete Leone narro' d'aver visto tre bianche colombe spiccare il volo dall'altare dei santi Sisinio, Martirio ed Alessandro, i cui corpi, dalla valle di Non presso Trento, erano stati portati dal San Simpliciano portati nella chiesa che fu a lui dedicata, e il 29 maggio ricorreva appunto la loro festa, e Berchet inneggiava alle
....tre nunzie de' santi.
Le colombe che uscir dall'altare:
Con che bello, che fausto aleggiare,
Del carroccio all'antenna salir!
 
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