Così maturò la scelta partigiana di Bollini
Una pagina di storia nei ricordi di Zeffiro La testimonianza del novantenne che conobbe il giovane “ribelle per amore”, ucciso dai fascisti nel 1945 a Traffiume di Cannobio. La famiglia, la fabbrica, la figura di riferimento di don Carlo Riva, coadiutore a San Domenico. E una domenica mattina, all’uscita dalla messa, accadde che… effiro Zanchi ha compiuto 90 anni a dicembre scorso.
Tecnico per tanti anni alla “Franco Tosi”, vi entra attraverso i corsi professionali; terzogenito e primo maschio di nove figli, tutti nati a Legnano. Ma la famiglia proviene da Nembro, paesino vicino a Bergamo, dove conserva ancora qualche lontano cugino. Insistendo un po’, racconta a Polis Legnano qualche episodio del periodo della guerra, nonché la sua esperienza di appoggio ai partigiani. E poi parla della sua conoscenza di Giuseppe Bollini, legnanese, partigiano trucidato dai fascisti a 23 anni, all’inizio del 1945 (di recente il concittadino Giorgio Vecchio, storico dell’Università di Parma, ha dato alle stampe il libro Vita e morte di un partigiano cristiano. Giuseppe Bollini e i giovani dell’Azione cattolica nella Resistenza, editrice In Dialogo).
Non mancano nelle parole di Zeffiro taluni episodi salienti di quel difficile periodo.
Ricorda come si è avvicinato all’esperienza partigiana?
«Furono due le persone che mi permisero di entrare in contatto con i partigiani: una mia zia paterna e don Carlo Riva, coadiutore all’oratorio di San Domenico; a casa della prima passavo spesso all’uscita del lavoro, dove conobbi proprio Giuseppe Bollini, di un paio d’anni maggiore di me. In maniera molto discreta – tanto che solo dopo molti anni, ripensandoci, mi sono reso conto del suo ruolo di collegamento e di trasmissione di informazioni – la zia ci avvisava dei luoghi o delle occasioni nella quali vi sarebbero state incursioni fasciste e come evitare di trovarcisi. Si creavano inoltre occasioni nelle quali, sempre a casa sua, ci si incontrava con altri antifascisti, discutendo e scambiando opinioni».
E don Carlo?
«Partecipavo, insieme ad altri adulti – io ero il più giovane – ad alcuni incontri di formazione politica presso la parrocchia; lo scopo era formarci perché potessimo essere pronti, una volta conclusa la guerra, a entrare a far parte degli organismi di governo della città. Relatore di questi incontri era Aldo Colombo, che divenne
in seguito il primo presidente delle Acli di Legnano. Fu poi don Carlo a inviarmi, insieme a un altro adulto del gruppo, a ritirare le armi che erano nascoste in una ditta di Legnano, il cui proprietario era uno dei principali capi della resistenza legnanese.
Ricordo quell’episodio con molta commozione, sia per la fiducia accordatami sia per il timore e la paura di vedere tutte quelle armi con le quali, ovviamente, non avevo alcuna dimestichezza».
Quali altri contatti aveva con i partigiani?
«All’interno della Franco Tosi si organizzavano viaggi verso l’Ossola per portare indumenti e cibo a chi vi si era rifugiato. Partecipai più volte a questi viaggi; a casa riferivo che avrei avuto impegni di lavoro e dovevo recarmi fuori città con il mio capoufficio. A fornirci il materiale erano persone di Legnano, mentre i mezzi di trasporto, camioncini e macchine, venivano da alcuni imprenditori».
In famiglia dunque non sapevano del suo impegno?
«In famiglia lavoravamo solo io e mia sorella, e, con il papà invalido, costituivamo il sostegno per tutti i nostri fratelli. Non potevo dunque permettermi di porli in condizioni di rischio. Poiché io disertavo i corsi settimanali premilitari, venne convocata mia madre dal responsabile del personale della Tosi per eventuali gravi sanzioni nei miei riguardi.
Mi salvò la moglie di un gerarca fascista, in amicizia con mia madre, avvisandola del pericolo che avrei potuto correre».
Cosa poteva indurre un ragazzo giovane come lei a contrastare la prepotenza di tedeschi e fascisti?
«L’arroganza e la violenza non potevano essere accettate. Ricordo in proposito un episodio, che secondo me fu determinante per Giuseppe Bollini e la sua entrata nelle brigate partigiane. La domenica, all’uscita dalla messa di San Magno, accadde diverse volte che i fascisti sequestrassero alcune persone, perlopiù note per il loro antifascismo, per portarle dentro Palazzo Malinverni e sottoporle a pestaggi e olio di ricino.
Giuseppe assistette a uno di questi episodi e ne fu profondamente colpito; ne parlammo proprio a casa della zia e lui mi riferì di non poter accettare queste cose. Poche settimane dopo, anche per sfuggire all’arruolamento, partiva per la Valgrande.
E sarebbe diventato un martire della libertà».
ANNA PAVAN