FENICI
Gli abitanti della Fenicia, furono detti dai greci Phôinikes, denominazione connessa al vocabolo phôinix (‘‘rosso porpora”), dalla colorazione dei tessuti che era tipica dell’industria fenicia. L’area geografica in cui si svolse la loro storia in Oriente è la fascia costiera siro-palestinese, estesa poco più di 200 km e larga dai 20 ai 50, ma da essa i fenici lanciarono le loro flotte mercantili su tutte le rotte del Mediterraneo, fondando colonie in Africa, Spagna, Sicilia e Sardegna, assolvendo un’importante funzione di tramite tra Oriente ed Occidente e diffondendo la loro rivoluzionaria scoperta, la scrittura alfabetica.
Le genti semitiche che abitavano la Fenicia non si costituirono mai in stato unitario e le singole città fenicie (Arado, Biblo, Berito, Sidone, Tiro ecc.) ebbero ciascuna un’esistenza politica autonoma. D’altra parte, poste, come tutta la regione siro-palestinese, nel punto di incontro e di scontro fra i grandi imperi sorti in Egitto, in Mesopotamia e in Anatolia, queste città riuscirono di rado a godere di una piena indipendenza. Per tutta la prima fase della loro storia esse gravitarono nell’orbita dell’Egitto poi, dall’VIII secolo furono sottoposte successivamente allo sfruttamento degli assiri, dei babilonesi, dei persiani. Mantennero però sempre il prestigio marittimo e commerciale che si protrasse fino in età romana.
Dal punto di vista razziale i fenici erano un ramo del popolo cananeo, che occupava buona parte della Palestina prima che fosse conquistata dagli ebrei.
Giunsero nel loro territorio prima del 2500 a.C., provenienti da una regione situata più a sud, probabilmente all’estremità del Mar Rosso. Ogni insediamento fenicio si sviluppò ben presto fino a diventare una città governata dal proprio re e indipendente dalle sue vicine; per i primi mille e più anni della loro storia queste città furono però strettamente legate all’Egitto, specialmente Biblo, che tra il III e il II millennio a.C. fu la città fenicia più importante. Aperta invece anche ad altri influssi (hurriti, ittiti, egei) fu, un po’ più a nord del limite geografico della Fenicia, la città di Ugarit, fiorente per i traffici soprattutto tra il 1500 e il 1200 a.C. L’influenza egizia rimase prevalente sulla Fenicia anche durante le contese sull’area siro-palestinese per il primato tra gli opposti imperi (Egitto e mitanni, mitanni e ittiti, ittiti ed Egitto) finché intorno al 1200 a.C. le incursioni devastatrici dei ‘‘popoli del mare” determinarono una svolta nella storia del paese. Essi, anche se verranno infine sconfitti dall’Egitto, ne abbatterono per sempre il dominio sui vari stati della Palestina e della Siria meridionale, consentendo per qualche secolo alle città della Fenicia di liberarsi dal giogo di una potenza imperiale e di sviluppare in piena autonomia i propri traffici.
Intorno al 1200 a.C. cominciò nel bacino orientale del Mediterraneo un periodo di disordini e violenze durante il quale vennero quasi spazzate via tutte le civiltà dell’età del bronzo allora esistenti. La frattura, che aprì una nuova era, quella del ferro, fu dovuta a una migrazione di popoli che i documenti egiziani chiamano genericamente ‘‘popoli del mare”. Si trattava di una confederazione di oscure tribù, con nomi che indicano origini mediterranee: shardana (sardi), shakalasha (sicani-siculi), lukki (lici), danuna (danai), tusha (tirreni, etruschi) ecc.; probabilmente li guidavano gli akhaluasha (achei).
Alcuni giunsero sulla costa del levante dal mare, mentre altri arrivarono dalla terraferma; un gruppo identificato con sicurezza, i palesti (filistei o palestinesi) dopo varie peregrinazioni si stabilì nel retroterra delle città-stato fenicie. Nei primi anni del XII secolo a.C. i ‘‘popoli del mare” compirono rovinose scorrerie in Siria e Palestina, spingendosi addirittura, dopo essersi alleati con i libi, in Egitto. Ramsete III (1194-1163 a.C.) riuscì a respingerli, ma un gran numero di centri di civiltà venne ugualmente distrutto. In Fenicia caddero Ugarit e Arado, Berido scomparve e Biblo cessò di essere la città più potente.
Nella prima fase della civiltà propriamente fenicia (1200-1000 a.C.) le fonti testimoniano una sorta di predominio esercitato da Sidone sulle altre città della costa, tanto che spesso i fenici sono indicati globalmente come sidonii; ma dopo il 1000 a.C. le stesse fonti (Libri dei Re e Libro di Ezechiele nell’Antico Testamento) danno la preminenza a Tiro, che ebbe intensi rapporti di cooperazione con lo stato d’Israele.
In cambio di frumento, olio, vino e altri prodotti agricoli necessari alla sopravvivenza della città marinara, il re di Tiro Hiram (ca. 969-936 a.C.) inviava ogni anno a Salomone oro, argento, legno di cedro e di pino, operai e maestranze per la costruzione del Tempio di Gerusalemme. Insieme i due sovrani costruirono una flotta che da Elat, sulla costa del Mar Rosso, si spinse fino a Ofir (forse l’Arabia meridionale o la Somalia), riportando tra l’altro oro, essenze e legno prezioso. Inoltre la notizia secondo cui Hiram avrebbe domato una rivolta a Kition dimostra che Tiro aveva già messo piede sull’isola di Cipro. Dall’epoca di Hiram al VII secolo a.C. Tiro esercitò probabilmente qualche forma di controllo su quasi tutte le città della Fenicia; da Tiro, secondo quanto raccontano Giustino e Plinio, sarebbero salpati i coloni fenici diretti a occidente.
I passi riportati dai Libri dei Re (redatti probabilmente intorno al 600 a.C., ma sulla base di annali e altri documenti contemporanei ai fatti) illustrano i rapporti intercorsi tra Salomone e Hiram, re di Tiro.
“…Hiram, re di Tiro, inviò i suoi servi presso Salomone, perché aveva udito dire che questi era stato unto re al posto di suo padre e Hiram era sempre stato amico di David. Allora Salomone inviò a dire a Hiram: "Tu sai bene che mio padre David non ha potuto edificare un tempio al nome di Jahewed suo dio a causa della guerra che i nemici gli mossero da ogni parte, finché Jahweh non li ebbe posati sotto le piante dei suoi piedi. Ora Jahweh mio dio mi ha concesso quiete, né v’è avversario o pericolo di male. Ho perciò l’intenzione di costruire un tempio al nome del mio dio. (...) Pertanto ordina che mi si taglino cedri del Libano. I miei servi saranno con i tuoi e io pagherò i tuoi quanto tu desideri secondo quello che stabilirai” (...) Così Hiram fornì a Salomone tanto legno di cedro e di cipresso quanto ne volle. A sua volta Salomone consegnò a Hiram 20 mila kor di grano (1 kor corrisponde a 150 litri) per il mantenimento della sua casa, e 20 mila bat (1 bat corrisponde a 15 litri) di olio vergine.”
E ancora: “…Il re Salomone costruì pure una flotta a Eziongeber, presso Elat, sulla spiaggia del Mare dei Giunchi (i.e. il Mar Rosso), nella regione di Edom. Hiram mandò sulle navi i suoi servi, che erano marinai esperti di mare, assieme ai servi di Salomone. Essi andarono a Ofir dove presero oro per 420 talenti e lo portarono al re Salomone.”
Le città fenicie d’Oriente erano organizzate, dal punto di vista istituzionale, in altrettante monarchie in cui la trasmissione del potere avveniva, di norma, per via dinastica. Fece eccezione – ma solo per un breve periodo del VI secolo a.C.– Tiro, che ebbe un regime repubblicano con a capo magistrati elettivi denominati ‘‘sufeti”. La parola sufet corrisponde esattamente all’ebraico shophet, tradotto genericamente con il termine ‘‘giudice”, ma sia per i fenici che per gli ebrei il termine indicava una persona più importante di un giudice, essendo in realtà sinonimo di ‘‘capo” o ‘‘guida”. Ogni città fenicia ebbe quindi il suo re fino all’età ellenistica, ma le prerogative del sovrano sono poco chiare. I re fenici, al contrario dei faraoni egiziani, non hanno lasciato epigrafi storiche o commemorative e le notizie che li riguardano – a parte qualche trattato di cooperazione riferito da fonti della controparte – si riferiscono ad attività religiose. Molti re hanno voluto ricordare ai posteri di aver eretto santuari agli dèi e se ne definiscono sacerdoti e sudditi, monarchi quindi per grazia di dio, o re-sacerdoti. In effetti, a causa dei condizionamenti imposti dalle potenze estere di volta in volta dominanti, i sovrani fenici non ebbero una reale autonomia decisionale in campo politico, mentre proprio nella funzione sacerdotale e sacrale risiedeva la loro autorità in ambito cittadino. Nell’effettivo esercizio del potere, il re era affiancato da una serie di funzionari e di organismi rappresentativi che limitavano la sua azione politica e amministrativa. Quanto alle assemblee rappresentative, alcune fonti (come l’Antico Testamento) fanno riferimento a un "consiglio degli anziani”, cioè a una sorta di senato, ma è più probabile si trattasse di assemblee cittadine dotate di potere deliberante: lo storico greco Arriano (ca. 95-ca.175 d.C.) riferisce che quando Alessandro Magno stava per prendere possesso di Tiro, gli furono inviati ambasciatori “da parte della comunità”.
Nelle poche iscrizioni che ci sono pervenute i re fenici ripetevano le solite formule nelle quali si dichiaravano vicari terreni degli dèi. Si legge in alcune di esse trovate nel villaggio di Jabeil, sotto il quale giaceva sepolta l’antica Biblo:
“Questo è il tempio edificato da Jehimilk, re di Biblo: che Baal Shamem e Baalat e l’intero concilio delle sacre divinità di Biblo possano allungare i suoi giorni”.
Oppure:
“Le mura di questo tempio sono state fatte erigere per Baallat, sua sovrana, da Shipitbbaal re di Biblo, figlio di Abibbaal re di Biblo, figlio di Jehimilk re di Biblo”.
Un linguaggio dai ‘‘toni faraonici”, come minacciosamente faraonica è la ‘‘maledizione” incisa sul sarcofago del XIII secolo a.C. portato alla luce nel 1922 sempre a Jabeil dall’archeologo Pierre Montet. In una camera tombale venuta accidentalmente alla luce in seguito allo smottamento del terreno dopo una nottata di pioggia egli trovò, tra l’altro, vasi d’ossidiana, sandali e recipienti d’argento, un pettorale d’oro e alcuni sarcofagi di calcare. Uno di essi presentava sulle quattro facce rilievi di figure in marcia o sedute, con fasce ornamentali in fiori di loto e, nei quattro angoli inferiori, teste di leone aggettanti. Poi il sarcofago si mise a parlare. Sul bordo, ripulito dai detriti apparve una iscrizione monolineare in alfabeto fenicio che diceva:
"Questa bara è stata fatta da Ithobaal, figlio di Ahiram, sire di Biblo, come dimora eterna per il padre suo. Qualora qualche sovrano o governatore o condottiero attacchi Biblo e profani questa bara, s’infranga il suo scettro, venga rovesciato il suo trono, se ne voli via da Biblo la pace. Per quanto riguarda la bara, possano i viandanti meditarne le iscrizioni".
Se numerose sono le notizie riguardanti le armate dei grandi imperi del Vicino Oriente, quelle sull’ordinamento degli eserciti delle città fenicie della costa siro-palestinese sono molto poche, pervenute soprattutto dagli annali dei re assiri in cui si parla dell’esistenza di contingenti di fanteria e di carri falcati, muniti di lame. I reperti archeologici e le antiche raffigurazioni suggeriscono la presenza di soldati armati di lance, pugnali, asce e mazze, ma poco equipaggiati di armi difensive (corazze, elmi, scudi); invece è documentata la presenza di corpi di arcieri. Data la mancanza di vasti entroterra nei quali reclutare soldati è probabile che le città-stato siano ricorse, in caso di necessità, a truppe mercenarie provenienti in buona parte dalla regione anatolica. Per quanto riguarda l’ordinamento degli eserciti le fonti storiche sono pressoché mute, anche riguardo alle forze armate delle città fenicie dell’Occidente mediterraneo prima dell’avvento di Cartagine. Ciò è comprensibile perché l’esiguo numero iniziale dei coloni fenici non permetteva lo sviluppo di attività politiche e commerciali basate su attività militari. I primi dati archeologici che forniscono notizie di qualche consistenza sulle popolazioni fenicie in armi provengono dalla Sardegna degli ultimi anni del VII e del VI secolo a.C. Si tratta di sepolture arcaiche contenenti, oltre ai corredi fittili, anche numerose armi offensive in ferro adatte a fanti armati alla leggera: talloni di lancia e punte a foglia, corti pugnali con lama a lingua di bue, sottili puntali da lancio con anima di bronzo. Per quanto riguarda il periodo dei grandi scontri bellici per il dominio del Mediterraneo tra Cartagine e le città greche e, in un momento successivo, le guerre contro Roma, le notizie sono molto più abbondanti e particolareggiate.
‘‘Le terre d’Occidente hanno le più belle e ricche miniere d’argento ... Gli indigeni ne ignorano l’uso. Ma i fenici, che sono esperti nel commercio, compravano questo argento con qualche piccolo cambio di altre mercanzie. Di conseguenza, portando l’argento in Grecia, in Asia e presso tutti gli altri popoli, i fenici ottenevano grandi guadagni. Così, esercitando tale commercio per molto tempo, si arricchirono e fondarono numerose colonie”.
Il reperimento dei metalli preziosi (non solo l’argento ma anche il rame, lo stagno, l’oro) è dunque, per Diodoro Siculo (ca. 80-ca.20 a.C.), la ragione del commercio fenicio, premessa a sua volta dell’espansione e della colonizzazione. Essa non va intesa come un fenomeno progressivo nello spazio, ma come una rete di punti d’appoggio verso le destinazioni più lontane: le scoperte più recenti dimostrano infatti l’antichità e spesso la priorità degli insediamenti iberici, rispetto a quelli relativamente più facili della Sicilia, della Sardegna e dell’Africa. Ciò suggerisce un fenomeno di ‘‘precolonizzazione”, cioè di frequentazione dei mari senza intento di conquista, a fini puramente commerciali, e rappresentò nella storia un fatto assolutamente nuovo. La colonizzazione fenicia vera e propria può essere fissata all’VIII secolo e precedette, sembra, di qualche decennio quella greca. Colonie fenicie sorsero nel Mediterraneo orientale a Cipro, centro dell’estrazione del rame, ma il campo d’azione preferito delle città-stato fu il Mediterraneo centrale e occidentale. Insediamenti sorsero lungo tutta la costa africana tra la Tunisia e il Marocco, a Malta, nella Sicilia occidentale, in Sardegna, in Spagna. Varcate le Colonne d’Ercole, i fenici fondarono Gades (Cadice) nella regione ispanica di Tartesso e si avventurarono nell’Atlantico, a sud lungo le coste dell’Africa, a nord fino alla Britannia, da dove si importava lo stagno.
Si dibatte ancora quando i fenici si volsero alla conquista commerciale del Mediterraneo. Su questo punto si sono affrontate due scuole di esperti. La prima e più antica, basandosi sulle fonti classiche, esalta i mercanti del Libano come i primi colonizzatori del mondo mediterraneo, approdati a remotissime rive allo scorcio del XII secolo a.C. La colonizzazione fenicia avrebbe preceduto nettamente, dunque, quella greca attestata solo nell’VIII secolo a.C. La seconda scuola, prevalente all’inizio del Novecento, respinge le notizie di fonte classica e, puntando sulla testimonianza archeologica che non presenta reperti anteriori all’VIII secolo, fa risalire a questo periodo l’espansione fenicia; essa risulterebbe così parallela a quella greca. Nell’ultimo ventennio è stata rivalutata, sia pur parzialmente, la cronologia alta ma in relazione a un fenomeno da tempo in corso, ossia a una fase di ‘‘precolonizzazione”. Che l’archeologia mostri una consistente presenza fenicia nel Mediterraneo occidentale durante l’VIII secolo a.C. è un fatto indubbio; bronzetti di tipo fenicio, o meglio siro-palestinese, risalenti XIV-XIII secolo rinvenuti in area siciliana, sarda e iberica, che sembravano ‘‘ingombrare il campo”, indicano una frequentazione delle rotte e scambi commerciali avvenuti in periodo precoloniale.
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Alla fine del XIII secolo a.C. si era affermata in Mesopotamia una nuova grande potenza, l’impero assiro. Esso non poteva non aspirare a uno sbocco nel Mediterraneo, e la pressione assira cominciò a esercitarsi sulla Fenicia fin dal IX secolo a.C. A una a una le città-stato fenicie furono costrette a pagare il tributo ai re assiri che soffocavano spietatamente ogni tentativo di ribellione. Benché fosse il più crudele e distruttore fra tutti gli antichi imperi d’Oriente, l’impero assiro accrebbe l’importanza delle città fenicie. In questo periodo si aprì infatti il circuito della navigazione mediterranea, un’impresa di tale impegno e portata che non sarebbe stata giustificabile, né sarebbe stata possibile, senza la copertura di una grande potenza come l’Assiria che garantiva lo smercio di tutte le risorse acquisite: Tiro fu, insomma, lo strumento assiro del commercio a lunga distanza. La caduta dell’impero assiro a opera dei medi (612 a.C.) portò in Palestina e in Fenicia i babilonesi di Nabucodonosor (605-562 a.C). Gerusalemme fu distrutta nel 587 e la sua popolazione fu deportata a Babilonia; Tiro, prima di sottomettersi fu sottoposta a 13 anni di assedio (586-573 a.C.). Ma le tempeste passavano e il succedersi dei domini stranieri (ai babilonesi seguirono alla fine del VI secolo i persiani di Ciro I il Grande) non pregiudicò gravemente, nel complesso, la prosperità delle città fenicie e le attività delle loro flotte. I grandi imperi non potevano fare a meno né in guerra né per scopi commerciali di quelli che erano ormai considerati i più esperti marinai del mondo. In Occidente poi, anche quando la madrepatria cadde in mano allo straniero, le colonie rimasero libere e continuarono a essere centri d’irradiazione della civiltà fenicia e la successione di Tiro sarà ripresa da Cartagine.
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Tiro si ribellò poco prima del 700 e subì cinque anni di assedio assiro. Ottenne condizioni favorevoli dopo la fuga del re che aveva guidato la rivolta e fu definita in questa circostanza dal profeta Isaia (Isaia 23,8) ‘‘città regale, i cui mercanti erano principi, i cui negozianti erano nobili della terra”. La rivolta di Sidone ebbe invece una soluzione drammatica come riferisce questa testimonianza inequivocabile tratta dagli annali del re assiro Assarhaddon (681-668 a.C.), sotto l’anno 677 a.C.
“Abdimilkutte, re di Sidone, senza rispettare la mia qualità di signore, senza ascoltare i miei ordini, scosse il giogo del dio Assur, confidando nel mare tempestoso. Quanto a Sidone, la sua città fortezza, che sta in mezzo al mare, la livellai come se una tempesta l’avesse travolta, le sue mura e fondamenta disfeci e le gettai nel mare, distruggendo completamente il sito. Per ordine di Assur, mio signore, io presi il re Abdimilkutte, che fuggiva in mare davanti al mio attacco, come un pesce nel mare, e gli mozzai il capo. Portai via come bottino: la moglie, i figli, il personale del palazzo, oro, argento, pietre preziose, abiti variopinti, stoffe, zanne d’elefante, avorio, ebano, legno di bosso, ogni oggetto prezioso che c’era nel palazzo. Io portai in Assiria i suoi sudditi, e bestiame grosso e minuto e asini in gran quantità”.
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Per la natura stessa della loro terra i fenici erano destinati al mare. Gli alti monti a ridosso della costa lasciavano, infatti, poca terra pianeggiante e coltivabile, mentre le loro pendici erano allora ammantate dai famosi alberi di cedro (i cedri del Libano) che fornivano un ottimo legname per le costruzioni di navi. La costa inoltre era ricca di golfi e insenature e di numerosi porti naturali. Da essi i fenici si avventurarono per le libere vie del mare, dapprima in concorrenza con i cretesi, poi come signori incontrastati del Mediterraneo, del commercio e della pirateria.
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L’abilità marinara dei fenici era nota presso i popoli contemporanei. La padronanza dei mezzi di navigazione e la profonda conoscenza dei mari, degli elementi atmosferici, delle costellazioni permisero loro di dominare i traffici del Mediterraneo suscitando insieme ammirazione e invidia. Per questo ebbero fama di crudeli pirati o di abili commercianti, di astuti e truffaldini mercanti o di intrepidi navigatori. Lo stesso Omero, nell’Odissea, non fu tenero con loro: in veste di mercanti rapivano i bambini per venderli come schiavi e, se agivano onestamente con uno straniero, la cosa era ritenuta ‘‘degna di rilievo”. Una pessima reputazione, quindi, quella che i fenici avevano presso i greci che assunsero nei loro riguardi un atteggiamento ostile, specie nel periodo di concorrenza per la colonizzazione in Occidente, che si data a partire dall’VIII secolo a.C.: occorre però dire che non abbiamo notizie di ostilità aperta fino al VI secolo. I fenici erano indubbiamente responsabili di tutte le colpe di cui venivano accusati, né c’è da presumere che a quel tempo i mercanti greci fossero più rispettabili. L’aristocratico uditorio dei poemi omerici si identificava però con gli eroi greci, per i quali era onorevole arricchirsi con scorrerie piratesche, ma non mediante il commercio: una delle massime umiliazioni per un greco era essere preso per un mercante.
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I fenici sono nominati abbastanza spesso (e sono sempre giudicati negativamente) nell’Odissea, poema che si svolge in gran parte nei mari occidentali alla Grecia, che questi abili navigatori percorrevano abitualmente.
È notte. In una misera capanna dell’isola di Itaca due uomini stanno seduti a raccontarsi le vicende della loro vita: uno è Odisseo, l’altro il porcaro Eumeo. Odisseo, che non vuole ancora svelarsi, inventa una storia triste, ma realistica: dopo aver combattuto a Troia nelle truppe cretesi era stato spinto dal fato nella terra d’Egitto dove aveva vissuto tranquillamente sette anni. Ma...
"Ma quando l’ottavo anno arrivò compiendo il suo giro,
capitò un uomo fenicio, esperto d’inganni,
un ladrone che molti mali aveva fatto tra gli uomini.
Costui mi portò via, raggirandomi con le sue astuzie,
fintanto che arrivammo in Fenicia, dov’erano le sue case e i suoi beni.
Là con lui stetti un anno completo.
Ma quando i mesi e i giorni passarono
e compiendosi un anno le stagioni tornarono,
per la Libia mi fece imbarcare su nave marina,
tessendo inganni, che il carico portassi con lui;
ma per vendermi là, far guadagno infinito.
Lo seguii sulla nave, benché capissi, per forza.
Per fortuna il disegno del subdolo fenicio fallì e il ‘‘narratore” riuscì a scamparla grazie a una tempesta che distrusse la nave e dalla quale egli solo si salvò".
Odissea, XIV, 285-300.
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Si ritiene che le correnti del Mar Mediterraneo non abbiano subito mutamenti di rilievo negli ultimi tremila anni, né che, in duemila anni, il regime dei venti sia cambiato. A seconda dei mesi e delle stagioni ai naviganti fenici che da Tiro volevano raggiungere Gades (o viceversa) si presentavano due alternative, la più semplice delle quali era costituita dalla via meridionale (Egitto - Libia - Africa nord-occidentale). Su questo percorso era possibile la navigazione di cabotaggio, più largamente diffusa, che si svolgeva prevalentemente a vista e nelle ore diurne, con punti di appoggio scaglionati a una distanza di 20-30 miglia nautiche, la stessa che poteva essere percorsa in una giornata. La navigazione di cabotaggio era sostituita con quella di lungo corso sulla rotta settentrionale (Cipro - Anatolia - Egeo - Malta - Sicilia - Sardegna - Baleari) che richiedeva alle navi di procedere anche di notte, orientandosi con la costellazione dell’Orsa Minore (la Stella Polare, detta nell’antichità Stella Fenicia). Spesso, a causa dei venti, alcuni tratti dell’una venivano deviati sull’altra rotta, più frequentemente in prossimità della Sicilia, Sardegna e Baleari dove Mozia, Tharros e Ibiza erano comunque scali obbligatori, necessari per l’approvvigionamento delle derrate alimentari e per le eventuali riparazioni della nave. Il passaggio della Stretto di Gibilterra, in entrambi i sensi, era il più problematico di tutta la navigazione e non di rado si preferiva trasportare le merci via terra attraverso la strada che univa Malaga a Gades. La navigazione commerciale aveva luogo quasi esclusivamente tra i mesi di marzo e ottobre e veniva aperta con particolari cerimonie propiziatorie.
Per svolgere le loro attività commerciali, i fenici utilizzavano navi appositamente attrezzate, che sfruttavano tutti gli accorgimenti più avanzati messi a disposizione dalla cantieristica dell’epoca. Le imbarcazioni per il trasporto locale erano di modeste dimensioni, dalle estremità ricurve, con la prua a forma di testa di cavallo e con una sola fila di rematori; i greci le chiamavano hippos (in greco, ‘‘cavallo”) ed erano impiegate solo per il cabotaggio. Per il commercio sulle lunghe distanze si usavano le grandi navi da trasporto, chiamate gauloi dagli antichi cronisti per la rotondità del loro scafo, che assicuravano un’ampia capacità di carico (tra le 100 e le 500 tonnellate). Le gauloi erano lunghe dai 20 ai 30 metri, larghe dai 6 ai 7 e con un pescaggio di circa 1 metro e mezzo. La poppa era tondeggiante e terminava con una voluta a coda di pesce, così come la prua, anch’essa curvilinea che terminava con un fregio zoomorfo (la testa di cavallo). Sullo scafo, a prua, erano dipinti due grandi occhi che dovevano proteggere la nave dagli influssi malefici e che vigilavano sulla rotta. La propulsione di queste navi era garantita dalla presenza dell’albero maestro che sosteneva una vela rettangolare quasi sempre colorata, fissata con un pennone orientato secondo la direzione del vento. La forma e la posizione della vela consentivano alla nave di procedere unicamente con venti provenienti dal quadrante di poppa, e la direzione era data dal timone, un remo con pale asimmetriche molto ampie, che era fissato sul lato sinistro della nave in prossimità della poppa. Sul ponte dalla nave, sempre verso la parte poppiera, sorgeva il castello che offriva riparo a un equipaggio che raramente superava i venti uomini.
Le navi che componevano la flotta da guerra dei fenici (e poi di Cartagine) erano più sottili del naviglio commerciale: la loro lunghezza era sette volte la loro larghezza; ciò consentiva di ospitare un equipaggio più numeroso per disporre ai banchi il maggior numero possibile di rematori. La poppa era analoga a quella delle navi commerciali, ma la prua era armata di un rostro di bronzo, variamente sagomato, posto all’altezza della linea di galleggiamento e micidiale quando colpiva nei fianchi, sfondandola, una nave nemica. Ai lati della prua erano disposte figure rappresentanti occhi apotropaici sormontati da due fori attraverso i quali passavano i canapi per le ancore. Il ponte aveva due strutture di legno: quella di prua, il castello, ospitava gli arcieri e le catapulte; quella di poppa, il cassero, fungeva da riparo per l’equipaggio. Il governo della nave era assicurato da due timoni posti sui fianchi poppieri. La propulsione della nave da guerra era piuttosto complessa, poiché in battaglia erano necessarie evoluzioni e improvvisi cambi di rotta per colpire con il rostro ed evitare quello degli avversari. Pertanto sul ponte si drizzavano due alberi: uno stava al centro e recava la vela maestra, l’altro era a prua e inalberava una piccola vela che consentiva di governare la nave anche con venti trasversali. Durante gli scontri diretti le navi venivano disalberate e la loro propulsione avveniva soltanto a forza di remi. La nave da guerra subì modificazioni maggiori rispetto alla nave commerciale. La più antica fu la pentacontere, così chiamata perché aveva cinquanta uomini ai remi (venticinque per ogni lato); era lunga circa 25 metri e larga meno di 4. Tra il VII e il IV secolo a.C. la regina del Mediterraneo fu la trireme.
La rete commerciale dominata dai fenici del Libano, che erano sempre in cerca di metalli pregiati e di nuovi e più remunerativi mercati, avrebbe potuto dirsi veramente completa se fosse riuscita a creare un collegamento navale anche tra il bacino del Mediterraneo e il Mar Rosso. Ma i due bacini erano separati dalla striscia di terra tra la penisola del Sinai e la valle inferiore del Nilo, oggi tagliata dal canale di Suez, e la politica ebrea antifenicia non consentiva all’epoca (VII secolo a.C.) ingerenze in quel punto chiave. Nel 609 a.C. il faraone Neco o Nikau II, che era riuscito momentaneamente a porre sotto la sovranità egizia le città-stato della Fenicia, incaricò i naviganti fenici che si recavano a Gades di far ritorno navigando al largo delle Colonne d’Ercole e di rientrare in Egitto navigando il Mar Meridionale e risalendo il Mar Rosso. I fenici accettarono la proposta ma la portarono a termine in direzione opposta. Partendo dal Mar Rosso circumnavigarono il continente africano da oriente a occidente e rientrarono in Egitto dal Delta dopo un viaggio di circa tre anni. L’impresa è narrata da Erodoto (ca. 485-ca.425 a.C.) che però mette in dubbio proprio la prova più evidente dell’avvenuto viaggio: i marinai riferirono di aver navigato avendo il sole alla loro destra. Nessun abitante dell’area mediterranea avrebbe mai potuto immaginare che l’astro del giorno, sempre a sud dello zenit (cioè a sinistra) nell’emisfero settentrionale, in quello meridionale passasse il polo celeste solo a settentrione, quindi a destra. Ciò significa che i fenici hanno compiuto ben prima di Vasco da Gama (1497) un’impresa destinata a impressionare ancora nel Quattrocento il mondo civile: la circumnavigazione dell’Africa.
“Che la Libia (l’Africa) sia tutta circondata dal mare, eccetto dove confina con l’Asia, è evidente da quando ne fornì la dimostrazione il re d’Egitto Neco. Egli, dopo che ebbe rinunciato a far scavare il canale tra il Nilo e il Golfo Arabico, fece partire una flottiglia di fenici, con l’ordine di tornare nel Mare Settentrionale (Mediterraneo) e in Egitto passando per le colonne d’Ercole. Dunque i fenici, partiti dal Mare Eritreo (Mar Rosso), navigarono attraverso il Mare Australe (Oceano Indiano): quando veniva l’autunno, sbarcavano e seminavano la terra nel punto della costa in cui erano giunti, e rimanevano fermi lì fino alla mietitura; dopo aver mietuto il grano, riprendevano il mare. Passarono così due anni e nel terzo, superate le Colonne d’Ercole, arrivarono in Egitto. Essi raccontarono un particolare per me incredibile, ma cui forse altri presterà fede: che, nel compiere la circumnavigazione della Libia, abbiano avuto il sole sulla loro destra”.
Dei fenici che, nel loro girovagare in mari sconosciuti, avrebbero deviato a ovest per giungere fino in America si parla con una certa ricorrente assiduità. Il professor Cyrus H. Gordon della Brandeis-University di Boston ha enunciato la teoria che i melungeons (una tribù indiana di pelle chiara del Tennessee orientale) discenderebbero dai fenici, come del resto affermano gli stessi indiani. E che dire della presunta iscrizione fenicia rinvenuta nei pressi di João Pessoa, nel Brasile settentrionale presso la costa atlantica, e resa nota nel 1874? Allora fu tacciata di falso, ma nel 1968 il professor Gordon, semitista autorevole, ne riaffermò vigorosamente l’autenticità in base a vocaboli e strutture sintattiche scoperte dopo il 1874. L’iscrizione recita:
“Noi siamo figli di Canaan, provenienti da Sidone, la città del re. Il commercio ci ha gettati su questa costa lontana, un paese di montagne. Abbiamo sacrificato un giovane agli dèi altissimi e alle altissime dee nell’anno diciannovesimo di Hiram, il nostro re potente. Ci siamo imbarcati nel Mar Rosso e abbiamo viaggiato con dieci navi. Fummo in mare insieme, per due anni, intorno al paese di Cam (l’Africa); ma fummo separati dalla tempesta. Così siamo giunti qui, dodici uomini e tre donne, su questa costa...Possano gli dèi altissimi favorirci”.
I dispersi dell’impresa di circumnavigazione dell’Africa, dunque, che avrebbero traversato l’Atlantico senza viveri e senza acqua, per lasciare un solo, fondamentale documento della loro presenza: 3500 chilometri per dire ‘‘Siamo qui”. In via teorica, incontrando correnti favorevoli, l’arrivo di un’imbarcazione fenicia sulle coste del Brasile settentrionale non è esclusa dai geografi. Del resto traversate lunghe e pericolose, su barche tradizionali, sono state tentate dai moderni per dimostrare la possibilità che le culture dell’antichità comunicassero tra loro attraverso gli oceani, lungo le direttrici dei venti e delle correnti prevalenti: l’antropologo norvegese Thor Heyerdahl nel 1947, con una zattera di balza battezzata Kon-Tiki, attraversò in 101 giorni di navigazione l’oceano Pacifico dalla costa peruviana alle isole Marchesi per dimostrare la possibilità che il popolamento della Polinesia fosse avvenuto dal Sudamerica e non dall’Asia come si è sempre ritenuto. Con lo stesso spirito, Heyerdahl attraversò, nel 1969 e poi nel 1970, l’Atlantico, dal Marocco alle Barbados, con imbarcazioni di papiro (Ra I e Ra II) costruite con la tecnica degli antichi egizi. Nel 1979 sul suo Tigris, un’imbarcazione di giunco replica fedele di una nave sumerica del IV millennio a.C., navigò nell’oceano Indiano, dallo Shatt-al-Arab all’Indo e dall’Indo al Corno d'Africa, seguendo le rotte che potevano aver collegato le antiche civiltà dei grandi fiumi. E allora, perché non i fenici in America?
Le prime attività commerciali delle città fenicie si svolsero prevalentemente nel bacino orientale del Mediterraneo e interessarono necessariamente regioni circonvicine quali l’Egitto, Israele, la costa meridionale dell’Anatolia e Cipro, per lo scambio di prodotti e di manufatti e per la necessaria ricerca di materie prime da rielaborare. Poi, verso la fine del I millennio l’attenzione dei fenici si volse all’occidente mediterraneo, dove essi funsero da collettore stabile di materie prime da inviare verso il mercato orientale.
Le prime notizie relative ai commerci fenici risalgono alla metà del III millennio a.C. quando il faraone Snefru fece annotare su una lastra di basalto nero (trovata in Egitto e ora custodita a Palermo), di aver fatto venire da Biblo ‘‘quaranta carichi di nave di legno di cedro”. Che il legno di cedro costituisse una ricchezza per i fenici risulta anche da fonti bibliche; tale materiale rimase a lungo il maggiore prodotto di esportazione. Ma i fenici scoprirono presto che beni di massa come il legname rendevano quando erano trasportati da Biblo, Sidone o Tiro fino al Nilo o alla vicina Israele, mentre invece non rendevano quando erano trasportati a distanze maggiori e in paesi lontani. Già commerciarli fino a Cipro non costituiva un affare. Meglio allora sostituire gli odorosi tronchi con prodotti di alto valore, ma poco ingombranti, il cui trasporto fosse remunerativo anche se in piccole quantità. Dai materiali oggetti di commercio o di importazione si deducono agevolmente gli orizzonti dell’Oriente mediterraneo entro i quali operavano in questo periodo le città della Fenicia e sui quali ci informa il profeta Ezechiele. A partire dagli ultimi due secoli del II millennio, i commerci fenici si svolsero però principalmente nel bacino del Mediterraneo occidentale e interessarono quasi esclusivamente l’approvvigionamento dei metalli. Lavorati dagli artigiani delle città-stato che ne facevano oggetti di rara bellezza o rivenduti allo stato grezzo ad acquirenti disposti a pagarli a caro prezzo, essi rappresentavano una cospicua fonte di guadagno. La penisola iberica era sicuramente la regione più ricca di questa materia prima e, come riferisce Diodoro Siculo, ad essa i fenici si volsero tra il 1100 e l’800 a.C., prima da soli poi in concorrenza con i greci. Gades (Cadice) ebbe importante funzione strategica perché consentiva ai fenici il controllo dello Stretto di Gibilterra e l’accesso commerciale al regno di Tartesso.
Gli egizi chiamavano il Libano ‘‘altopiano dei cedri” e fin dal Regno Antico inviarono spedizioni nelle sue enormi foreste per procurarsi legname con cui fabbricare sia alberi per le loro navi sia le grandi travi dei tetti degli edifici più imponenti. Lo stesso fecero gli ebrei quando Salomone edificò il Tempio di Gerusalemme. Il cedro, o, più esattamente, la particolare specie della famiglia delle pinacee presente unicamente in alcune zone costiere del Mediterraneo (Cedrus Libani), è un albero imponente. In terreno libero il fusto può raggiungere i quaranta metri di altezza e i quattro di larghezza; i rami tendono ad attorcersi, anche se verso l’esterno formano un tetto a pagoda, spesso quasi uniforme. Nei giorni più caldi la pianta emana un profumo fresco e asprigno, la seconda qualità che rendeva prezioso l’albero agli egiziani. Essi ricavavano dal suo legno non solo materiali da costruzione, ma anche uno speciale olio balsamico color giallo scuro; con esso imbevevano le bende nelle quali avvolgevano i cadaveri dei re destinati alla mummificazione. La pianta del Libano divenne quindi sacra. Lo stato libanese ne ha fatto il suo emblema.
Questa relazione composta dal profeta Ezechiele (VI secolo a.C.) potrebbe passare, se si prescinde dallo stile innico, per un pezzo di economia nello stile di un giornale moderno:
“Tutte le navi e i loro marinai erano presso di te (la Fenicia in generale) per scambiare la tua merce... Javal, Tubal e Meshec (gli stati greci di Anatolia) commerciavano con te, scambiavano le tue merci con schiavi e oggetti di bronzo. Quelli della casa di Togarma (Armenia), in cambio delle tue merci, ti inviavano cavalli da tiro, cavalli da corsa e muli. Pure gli abitanti di Deden (Arabia) trafficavano con te; numerose isole (forse dell’Oceano Indiano) ti erano sottomesse e ti portavano, come tributo, corni d’avorio ed ebano. Edom (in Siria) commerciava con te, grazie alla ricchezza dei tuoi prodotti; ti dava carbonchio, ricami, bisso, coralli, rubini, in cambio delle tue merci. Giuda e Israele, anch’essi commerciavano con te; come cambio di merce ti davano grano, profumi, miele, olio e balsamo. Damasco era tua cliente e ti forniva vino e lana... I mercanti di Sheba e Raama (Yemen) ti facevano pervenire aromi di prima qualità, pietre preziose e oro; Haram, Canne, Eden (Mesopotamia), di Assur (Iraq) e Chilmad (Persia) trafficavano con te stoffe preziose, tappeti tessuti a vari colori, funi ritorte e robuste. Le tue navi navigavano per il tuo commercio e tu diventasti ricca e gloriosa nel cuore dei mari”.
I greci parlavano di Tartesso con accenti mitici e la dicevano governata da monarchi semidivini, come Gerione, il mostro dalle tre teste a cui Ercole rubò i buoi dopo aver posto all’altezza di Gibilterra i confini del mondo. La localizzazione molto discussa di questo regno quasi certamente deve essere individuata in quella regione dell’Andalusia occidentale compresa tra Huelva e il basso corso del Guadalquivir. Huelva era una delle più produttive zone minerarie di tutto il Mediterraneo (dove i greci - non a caso - collocavano il giardino delle mele d’oro delle Esperidi) e il Guadalquivir costituiva la via di penetrazione verso la zona mineraria interna della Sierra Morena. Le ricchezze favolose di Tartesso attrassero anche i greci (focesi) che cercarono di competere con i fenici nell’avventura occidentale, ma i loro furono contatti abbastanza sporadici che non affiancarono, né tanto meno soppiantarono, la colonizzazione fenicia. Grazie a questi contatti la cultura tartessica toccò il suo apice nel VII-VI secolo a.C., ma si esaurì nel V secolo a.C. quando il mondo fenicio di tradizione orientale entrò in crisi.
Un aspetto interessante sul modo in cui i fenici svolgevano i loro commerci e che contraddice il drastico giudizio negativo di Omero su di loro ci viene dallo storico greco Erodoto.
“Quando i fenici raggiungevano terre nuove in cui fare commercio tra i popoli che le abitavano, scaricavano le loro mercanzie e, dopo averle disposte in ordine lungo la spiaggia, risalivano sulla nave da dove alzavano una fumata. Allora gli indigeni vedendo il fumo andavano al mare e in sostituzione delle mercanzie deponevano oro, ritirandosi poi lontano dalle merci. I fenici sbarcavano e osservavano: se l’oro sembrava loro degno delle mercanzie, lo raccoglievano e si allontanavano, se invece non sembrava degno, risalivano sulla nave e restavano in attesa. E gli indigeni tornavano a farsi avanti deponendo altro oro finché i mercanti rimanevano soddisfatti. E non si facevano torto a vicenda, perché né i fenici toccavano l’oro prima che gli indigeni l’avessero reso uguale al valore delle merci, né questi toccavano le merci prima che i fenici avessero accettato l’oro”.
L’attività industriale dei fenici era costituita soprattutto dall’abilità di rielaborare le materie prime raccolte nei mercati oltremarini, pertanto la ricerca di tali materiali era necessaria per alimentare le botteghe della madrepatria. Si ricordano a questo proposito in particolare la lavorazione dell’avorio con cui si ottenevano pissidi, amuleti e, soprattutto, intarsi di particolare pregio artistico da inserire in suppellettili lignee come seggi, letti o stipi molto richiesti presso le corti del Vicino Oriente. Lucroso era anche l’intaglio delle pietre preziose o dure, quali il lapislazzuli e la corniola, dalle quali si ricavavano pendenti o sigilli. Un peso importante nell’economia fenicia aveva anche la gioielleria che giunse a tecniche molto raffinate, come la laminazione dell’oro, che permetteva la copertura di metalli più vili, la granulazione dell’oro, ottenuta tramite la fusione di microgocce in polvere di carbone vegetale inserite nella fusione del metallo, e la lavorazione a sbalzo delle coppe in lamina d’argento o di bronzo, ottenuta mediante la martellatura in stampini di legno o di cuoio. Per quanto riguarda i metalli non pregiati, con il rame e il prezioso stagno si ottenevano articoli di bronzo (spilloni, vasi, coppe e oggetti spesso molto complessi, assemblati da più parti lavorate separatamente); in ferro venivano realizzati soprattutto armi e utensili necessari alla vita quotidiana (cesoie, teste di aratro, coltelli ecc.). Le industrie portanti dell’economia fenicia furono però quella della porpora e quella del vetro. La porpora, che consentiva la tintura indelebile, perciò particolarmente pregiata, delle stoffe di lino o di lana prodotte localmente o importate dall’Egitto, connotò addirittura con il suo colore (phôinix) il nome stesso dei fenici; il vetro, del quale è attribuibile ai fenici non tanto la paternità quanto la diffusione, fu ampiamente oggetto di commercio in tutto il mondo antico.
Il materiale base per la fabbricazione della porpora i fenici lo avevano ampiamente disponibile nei bassi fondali rivieraschi del Mediterraneo. Il colorante si trovava nella ghiandola di una piccola conchiglia marina (Murex brandaris e Murex trunculus della famiglia Purpuride) presente in quasi tutti i mari caldi. Il murice veniva pescato tra l’inizio dell’autunno e la fine dell’inverno e tenuto in apposite vasche fin quando era ‘‘maturo” per produrre la tintura. A quel punto veniva ucciso e gli si toglieva la ghiandola, da cui si estraeva un liquido biancastro. Questo liquido, con l’aggiunta di aceto o di urina (sostanza acida), era lasciato al sole finché il suo colore, da giallo, diventava rosso porpora. La tintura veniva fatta concentrare mediante bollitura e, più o meno diluita produceva gradazioni di colore che variavano dal rosso-cupo al violaceo. Per produrre pochi grammi di porpora dovevano morire oltre diecimila murici, quindi l’industria della porpora non poteva essere diretta a un consumo di massa, ma solo per pochi ricchi. I panni rossi di Tiro e Sidone rimasero sempre un articolo di lusso insuperabile e in epoca più tarda furono riservati solo a imperatori, re e senatori. Il loro prezzo era molto alto, di solito si scambiava con una quantità di argento avente lo stesso peso dell’articolo venduto.
Accanto ai boschi di cedro - che però non ricrescevano con la stessa velocità con cui venivano tagliati - in Fenicia non c’era altro che sabbia e mare. Il mare era la prima enorme ricchezza dei fenici, ma anche dalla sabbia essi seppero trarre profitto. La sabbia della costa libanese contiene notevoli quantità di quarzo, acido silicico puro in forma cristallina, che costituisce la parte più importante del vetro. I fenici mescolavano la sabbia di quarzo con il sodio (che ricavavano dalle ceneri delle alghe), e vi aggiungevano alcali calcarei; scaldavano il tutto alla temperatura di ottocento gradi e ottenevano la pasta di vetro, un prodotto viscoso e di rapido indurimento che si lasciava formare in perline, in bottigliette (sopra un nucleo d’argilla) o anche in recipienti elegantemente modellati. I fenici avevano appreso questo processo di fabbricazione dagli egizi, che lo attuavano dal IV millennio a.C., e lo sfruttarono a fini industriali supportati dalla loro formidabile rete commerciale. Il vetro dei fenici era migliore di quello egiziano perché dopo una serie di lunghi tentativi essi riuscirono migliorarlo in maniera inaspettata: a Tiro, ma soprattutto a Sidone, sorsero officine dai cui forni uscì il primo vetro trasparente della storia che, probabilmente, i fenici riuscirono anche a soffiare.
La religione fenicia, della quale peraltro abbiamo una scarsissima documentazione, non costituì un complesso unitario; a causa del frazionamento politico del territorio ogni città provvide in modo autonomo al culto, adorando le proprie divinità. Al di là delle differenze è possibile tuttavia ritrovare elementi comuni. È ampiamente attestata una triade divina comune composta da un dio protettore della città, da una dea della terra feconda, e da un giovane dio che con la sua morte e con la sua successiva rinascita sancisce il ciclo annuale della vegetazione. Quindi, benché i fenici dipendessero quasi completamente dal mare, la loro era una religione legata alla terra: questo perché il culto e le pratiche religiose sono molto più antiche della navigazione e del commercio.
Come in gran parte delle religioni delle civiltà storiche del Mediterraneo antico, anche in quella fenicia il complesso delle credenze e dei riti costituisce un complesso sistema politeistico caratterizzato dalla venerazione di molti esseri sovrumani che rappresentano, nel loro insieme, la totalità dei bisogni e degli interessi dell’uomo e della società. Il termine generico che designa la divinità è el (femminile elat), ma El è anche il nome proprio di un dio, l’essere supremo e padre degli dèi, garante di tutte le istituzioni politiche e sociali. Quello dei nomi personali divini utilizzati come epiteti o nomi comuni è un aspetto caratteristico della religione fenicia che si verifica specialmente nel caso di Baal; lo troviamo dovunque col significato di ‘‘signore” o ‘‘padrone” applicato a varie divinità maschili (Baal Hammon), ma è anche il nome personale di un dio e poi, accompagnato da una serie di specificazioni, e attributi, indica divinità autonome e distinte personalità sovrane (Baal del Libano; Baal Shamem, ‘‘signore del cielo” (designato a Biblo anche col nome egizio di Seth); Baal Addir, ‘‘signore potente”; Baal Malage, ‘‘signore dell’abbondanza” ecc.). Talvolta hanno la preminenza alcune divinità femminili: Astarte, Baalat, Tanit connesse sempre alla fecondità, alla prosperità, all’amore e alla guerra. La loro morfologia e i loro tratti distintivi non sono tuttavia sempre definiti e l’una si confonde spesso con l’altra, inoltre col nome di Baalat, sono indicate le varie ‘‘signore” dei pantheon cittadini (Baalat di Biblo o Afrodite). Accanto alle divinità connesse con particolari luoghi o elementi dell’universo troviamo poi esseri divini legati alle varie attività umane e ai pericoli che le minacciano: Reshef che con la sua collera provoca le malattie; Chusor, il dio fabbro e artigiano; Horon, dio benefico invocato contro il veleno dei serpenti. A Tiro, dal X secolo, fu adorato anche Melqart il cui nome significa ‘‘Re della città”, modello ideale del sovrano fenicio, presto identificato con l’Eracle greco; a Sidone prevalse Eshmun, dio guaritore identificato con Asclepio.
Astarte o Asthera era una divinità molto antica, identificabile con la dea-madre diffusa e adorata da tutte le popolazioni del Medio Oriente nel III-II millennio a.C. In Fenicia il suo culto risulta attestato soprattutto a Sidone e a Biblo, dove sono state rinvenute numerose iscrizioni con dediche in cui re e regine si dichiaravano suoi sacerdoti. Nel I millennio a.C. il culto di Astarte si diffuse ben oltre i confini della Fenicia raggiungendo tutte le terre del Mediterraneo in cui i fenici fecero scalo. E soprattutto il culto si affermò a Cipro dove Astarte regnò nella colonia di Kition che, nel IX secolo a.C., le dedicò un grande tempio in cui veniva praticata la prostituzione sacra (sia maschile che femminile), un elemento non secondario che contribuì alla fama di santuari a lei dedicati a Pafo, Erice, Pyrgi e Sicca Veneria (l’odierna Kef in Tunisia). La prostituzione sacra, esercitata sistematicamente dalle schiave del tempio, distinguibili per l’acconciatura dei capelli e per l’emblema che portavano in fronte, portava grande ricchezza ai santuari. Nel mondo greco Astarte era identificata con Afrodite.
Della mitologia fenicia sappiamo poco perché i miti non venivano trasmessi oralmente come nella tradizione classica, ma scritti e raccolti dai teologi e utilizzati nel culto e nelle cerimonie ufficiali. Ciò che è giunto a noi proviene dalla Storia fenicia di Filone di Biblo (I-II secolo d.C.) che l’autore asserisce di aver tradotto in greco da un originale redatto dal leggendario sacerdote Sanhuniathon (Sancuniatone) di Berito, vissuto ai tempi della guerra di Troia. Nella tradizione fenicia l’universo avrebbe avuto origine da un grande uovo cosmico uscito dal caos primordiale e apertosi in due per realizzare la separazione di cielo e terra. Poi nacquero gli dèi, ai quali seguirono i fondatori della civiltà umana: Usoos, l’inventore dell’abbigliamento (con pelli di animale) che per primo osò avventurarsi sul mare; Aion scopritore del nutrimento degli alberi, mentre Agreo e Halieo inventarono la caccia e la pesca. Poi venne Chusor, il fabbro esperto in arti magiche e in seguito nacquero gli inventori dell’arte edilizia, quindi quelli che insegnarono l’organizzazione del villaggio, l’agricoltura e l’allevamento, la scrittura e la navigazione. Nella genealogia degli dèi, secondo Filone, al vertice stanno Elium, ‘‘l’eccelso” e la Baalat di Berito; da loro discende Urano che genera El (cioè Crono), Baitylos, Dagon (Grano) Astarte e molti altri figli. Il contrasto nato tra loro diede origine alla guerra per la sovranità del mondo da cui uscì vincitore El. Tra gli dèi che gli erano stati fedeli e che lo avevano aiutato, El spartì la sovranità sulle città fenicie.
Nel mondo punico le cariche sacerdotali più alte erano appannaggio del sovrano e dell’aristocrazia oligarchica che officiava le cerimonie liturgiche in occasione di feste o in momenti particolari della vita sociale, politica o militare della città. Gli uffici di culto regolari e quotidiani erano invece affidati ad un apposito personale strutturato gerarchicamente e articolato in vari livelli di ministero. Due cariche erano particolarmente importanti: quella del ‘‘sacrificatore” e quella, meno chiara, del ‘‘risuscitatore della divinità” che appare in numerose iscrizioni e che probabilmente si collega alle feste in cui alcuni dèi (come Baal-Adon e Melqart) muoiono e risuscitano ogni anno per celebrare il rito delle stagioni. Più esauriente la documentazione sul sistema sacrificale. Possediamo alcuni tariffari, affissi all’entrata dei templi, che ci informano sulle vittime, sulla tipologia dei sacrifici e sulla tassa da pagare. Le vittime erano buoi, vitelli, arieti, agnelli, volatili da cortile, che potevano essere sacrificate in vari modi; al clero andava una certa somma di denaro e una parte della carne della vittima.
Molti considerano rito caratteristico della religione fenicia e punica il sacrificio umano, più in particolare il sacrificio sul rogo di fanciulli detto molk (possesso). Ricordata sia dalla Bibbia che dagli autori classici, le notizie su questa pratica furono ritenute attendibili quando le ricerche archeologiche individuarono, in alcune colonie fenicie del Mediterraneo centro-occidentale (ma non in Fenicia), delle aree sacre, poste nei ‘‘luoghi alti”, con urne contenenti resti incinerati di bambini. Oggi una riconsiderazione globale della questione esclude che i fenici praticassero sacrifici umani se non in contesti eccezionali, in cui la gravità della situazione richiedeva interventi religiosi di maggiore incisività, come del resto succedeva in tutto il mondo antico. Il tofet (termine ebraico che designa il recinto sacro) non era altro che un santuario dal carattere pubblico e comunitario con funzione di necropoli infantile, destinata ad accogliere i resti di bambini precocemente defunti, e che per questo venivano ‘‘offerti” alle divinità per assicurare ai sopravvissuti la loro benevola protezione.
Il contributo più originale ed essenziale dei fenici alla nostra civiltà è la scrittura alfabetica. La miglior prova della vitalità del sistema di scrittura da loro messo a punto è costituita dalla sua diffusione nello spazio e nel tempo. Da esso - direttamente o indirettamente, e con varie modifiche - derivano la scrittura ebraica, l’indiana, l’araba, la greca e la latina. Praticamente tutto il mondo, a eccezione delle civiltà dell’Estremo Oriente, ‘‘scrive fenicio”.
Solo nelle città-stato fenice, comunità di uomini ricchi di iniziativa e di senso pratico, aperti alle novità e non soggetti alle tradizioni immobili e paralizzanti del tempio e del palazzo come erano quelle mesopotamiche e soprattutto egizie, poteva svilupparsi quello che è il contributo originale ed essenziale dei fenici alla civiltà mondiale: la scrittura alfabetica. Ai macchinosi sistemi di scrittura ideati dagli egizi e dai sumeri e rimasti in uso senza apprezzabili variazioni per tutto il III e II millennio a.C., i fenici sostituirono - o inventandolo essi stessi o perfezionando un’invenzione sorta altrove nell’area siro-palestinese - l’alfabeto che noi adoperiamo ancora oggi. Il sistema di scrittura fenicio, le cui testimonianze più antiche risalgono al 1200-1100 a.C., rappresentò, per l’idea che lo ispirava, qualcosa di assolutamente nuovo. Non occorsero più centinaia di segni complicati (i geroglifici, i caratteri cuneiformi), ma la parola umana fu analizzata e scomposta nei suoi elementi essenziali, i suoni (o fonemi), a ognuno dei quali corrispose un segno. Nell’alfabeto fenicio sono però rappresentate solo le consonanti, mentre le vocali furono introdotte dai greci. Così i segni, le ‘‘lettere”, diventarono da molte centinaia una ventina e poterono servire a fissare per iscritto qualsiasi lingua. Con l’invenzione dell’alfabeto si realizzò un progresso immenso nella storia della civiltà; i sistemi degli egizi e dei babilonesi richiedevano uno studio approfondito, e lo scriba era un professionista non meno specializzato di un medico o di un architetto. Con l’alfabeto leggere e scrivere divennero alla portata di una massa di persone infinitamente più vasta e la cultura fu sottratta al monopolio di una ristretta classe di sacerdoti e di scribi. E non importa se la ragione di questa ‘‘semplificazione” del sistema di scrittura sia stata dettata da ragioni commerciali, un metodo semplice e veloce per registrare merci e transazioni: l’apparizione delle prime forme di scrittura nella Mesopotamia del IV millennio a.C. era avvenuta con la stessa funzione.
Cartagine fu l’unico fortunato tentativo di colonizzazione stabile compiuto nel Mediterraneo orientale da una popolazione originaria del Vicino Oriente prima della conquista araba dell’Africa settentrionale avvenuta più di mille anni più tardi, durante il secolo di Maometto.
Quando la madrepatria cadde in mano allo straniero, Cartagine rimase libera e continuò a essere un centro d’irradiazione della civiltà fenicia.
Il nome fenicio di Cartagine (Qart Hadasht) significa ‘‘città nuova”, in contrapposizione alla vecchia città fenicia di Utica che la Storia Naturale di Plinio il Vecchio fa risalire al 1101 a.C. Secondo la tradizione, la colonia di Qart Hadasht venne fondata sulla costa tunisina dai fenici di Tiro nell’814 a.C., trentotto anni prima che i greci iniziassero a computare gli anni in base alle celebrazioni di Olimpia che si svolsero per la prima volta nel 776.
La costa dell’Africa settentrionale era desolata e poco ospitale: dune, scogliere a picco, scarsità di porti sicuri e ancoraggi che non offrivano alcun riparo dai venti del nord. Altrettanto privo d’attrattive appariva l’entroterra, difficile da penetrare perché percorso, per lunghi tratti, da catene montagnose in direzione parallela alla costa. Erano poi presenti su tutta la zona bestie feroci come leoni, elefanti, pantere, iene, orsi. Le regioni coltivabili erano poche e poco estese, abitate da popolazioni indigene fra le più arretrate quanto a progresso materiale tra tutte quelle delle coste del Mediterraneo occidentale. Alcune conducevano vita sedentaria, specie in Tunisia, ma la maggioranza era costituita da pastori seminomadi, riuniti in piccoli clan o tribù. Più tardi alcune di queste tribù si unirono formando stati relativamente grandi, ma ancora racchiusi in zone geografiche ben delimitate. Quando i fenici cominciarono a scegliere luoghi dove fondare colonie che avrebbero dovuto servire da basi mercantili o da posti di rifornimento di acqua e di viveri per le loro navi, essi cercarono anzitutto località facilmente accessibili dal mare, ma non da un’entratura potenzialmente ostile, o isole al largo della costa, o penisole fortificabili e con baie sabbiose dove si potessero tirare in secco le navi.
La zona di Cartagine rispondeva alle esigenze con cui i fenici sceglievano i luoghi dove fondare colonie, e in più consentiva l’espansione nei fertili territori circostanti. A nord-est dell’odierna Tunisi, aggetta in mare, per 16 chilometri, una penisola a punta di freccia. Nella sua estremità orientale si levano sulla spiaggia alcune piatte alture che non superano i 60 metri, costeggiate da lagune contigue, una delle quali collegata al mare. Su una di queste alture, distante meno di un miglio dal mare, sorse la prima cittadella di Cartagine, Byrsa, facilmente difendibile. La costa attorno era esposta ai venti del nord e dell’est, con l’unica eccezione della piccola baia di el-Kram, volta a sud e protetta a est da un breve promontorio. Si trattava di un autentico ‘‘paesaggio fenicio”: spiaggia piatta, insenature protette, uno stretto collegamento con la terraferma facilmente sbarrabile, e, alle spalle, un vasto e fertile entroterra. Qui gettarono le ancore i primi fenici e sbarcarono i primi coloni; nell’immediato retroterra fu costruito il porto artificiale e, a meno di cento metri verso ovest sorse il recinto sacro, il tofet detto anche ‘‘Santuario di Tanit”, consacrato proprio dai primi coloni.
Le leggende fiorite intorno alla nascita di Cartagine sono narrate dalle fonti classiche in cui i dati reali provenienti dalla tradizione fenicia si mescolano a motivi greci acquisiti successivamente. La più popolare fa risalire tutto ad una contesa dinastica avvenuta a Tiro. "Durante il suo settimo regno, re Pigmalione (820-270 a.C.) volle impadronirsi del cospicuo patrimonio di suo zio Acherbas, che era anche sposo della principessa Elissa, la sorella di Pigmalione, nonché sacerdote del dio Melqart. Il fatto di sangue provocò la fuga da Tiro di Elissa e di un gruppo di cittadini ostili a Pigmalione. Gli esuli lasciarono la Fenicia per raggiungere la vicina Cipro, dove il gran sacerdote della dea Astarte si unì a loro, a condizione che in una nuova fondazione l’ufficio di sacerdote della dea si trasmettesse ereditariamente in seno ai membri della sua famiglia. Per assicurare la continuità della colonia furono aggregate al gruppo ottanta vergini che erano state destinate alla prostituzione sacra. Partiti verso Occidente, Elissa e il suo seguito approdarono sulla costa africana dove stabilirono buoni rapporti con la popolazione locale. Ai fenici fu concesso di comprare un terreno, vasto quanto poteva esserlo una zona coperta da una pelle di bue. Elissa allora fece tagliare la pelle in strisce sottilissime, che circondarono tutta la collina, chiamata per questo Byrsa (in greco ‘‘pelle di bue”). Acquistata con tale inganno l’area del primo insediamento, Elissa attivò i commerci con le popolazioni vicine che invitarono i nuovi arrivati a fondare una città. Ma il capo indigeno Iarba pretese, sotto la minacce delle armi, di avere in sposa Elissa che preferì uccidersi gettandosi nel fuoco piuttosto che tradire la memoria di Acherbas." Questa leggenda fu ripresa anche da Virgilio nell’Eneide.
Ecco come Virgilio racconta nell’Eneide la fondazione di Cartagine ad opera di Didone (Elissa). È da notare che Virgilio, probabilmente sulle tracce di un autore più antico, Nevio, ambientò il suo racconto parecchi secoli prima della fondazione effettiva di Cartagine, allo scopo di poterlo inserire nella saga di Enea, fuggiasco da Troia e in procinto di fondare Roma. In tal modo avvicinò in maniera drammatica i fondatori delle due città che si sarebbero poi contese il dominio del Mediterraneo.
"Punico regno vedi, popolo tiro, ma africana è la terra.
Didone regge il comando, partita da Tiro
per fuggire al fratello. Lunga storia d’offese,
lungo intrico, ma seguirò a sommi capi.
Le fu sposo Sicheo, fra i fenici il più ricco di campi,
dalla misera amato con grandissimo amore;
ché a lui vergine il padre l’affidò, gliela univa
in prime nozze. Aveva il regno di Tiro il fratello
Pigmalione, assassino feroce su quanti mai furono.
E folle odio nacque tra quelli. Egli col ferro,
empio, davanti agli altari, cieco per brama d’oro,
uccide indifeso Sicheo, a tradimento, senza aver cuore
per l’innamorata sorella. E a lungo celò il delitto, la misera
amante illuse con molte finzioni, con vana speranza, crudele.
Ma ecco a lei venne, nel sogno, dell’insepolto marito
il fantasma, pallida terribilmente levando la faccia,
e mostrò l’are atroci, mostrò il petto trafitto,
tutta la tenebrosa colpa della casa scoprì.
Poi d’affrettare la fuga le ispira, di uscir dalla patria,
e, aiuto alla via, le schiude, sepolti nel suolo,
tesori antichi, quantità ignota d’oro e d’argento.
Così, sconvolta, Didone cercava fuga e compagni.
E s’adunarono quelli che avevano odio crudele
contro il tiranno o tristo terrore: navi per caso già pronte
s’appropriano, carican l’oro, si portano i beni
di Pigmalione avaro pel mare: guida è una donna.
Giunsero ai luoghi dove tu grande ora vedi
le mura e la rocca della Città Nuova sorgere,
e contrattarono il suolo - dal fatto il nome Birsa -
quanto potesse cingere una pelle di toro."
Virgilio, Eneide, I, 335-370
Distrutta nel 146 a.C., fatta ricostruire da Giulio Cesare nel 46 a.C. come colonia di cittadini romani, dall’inizio dell’età imperiale romana Cartagine venne abbandonata a se stessa, avviata verso un lento e inesorabile degrado. Il porto si interrò e il saccheggio dei marmi e dei graniti continuò fino al medioevo; con essi furono costruiti, fra l’altro, anche il duomo di Pisa e quello di Genova. Oggi, grazie alle fonti storiche e alle moderne ricerche archeologiche, siamo in grado di ricostruire vari elementi dell’impianto urbanistico e della vita della Cartagine fenicia.
Il cuore dello sviluppo della nuova colonia fu il porto, situato dove si trovano ora le due lagune a nord della baia di el-Kram, meno di un miglio sotto la collina di St. Louis (Byrsa). Si trattava di due bacini scavati nella roccia (cothon), uno quasi rettangolare e uno posteriore circolare. Un canale artificiale lungo una trentina di metri e largo 22, sbarrabile in caso di necessità per mezzo di una catena di ferro, li collegava entrambi al mare. La parte esterna dell’installazione, cioè il porto rettangolare, doveva servire da fonda per le navi mercantili, quella interna, il porto circolare, per le navi da guerra. A guardare i resti dei due bacini si resta stupiti della loro esigua dimensione: il porto mercantile misura all’incirca 50x150 metri, il diametro del porto militare non supera i 100. Viene da chiedersi come una potenza militare del calibro di Cartagine riuscisse a ospitarvi l’intera flotta. Ma si sa che i fenici facevano entrare in porto solo le navi da caricare e scaricare: le altre restavano fuori, nelle basse acque costiere, dove gettavano l’ancora o venivano tirate in secco a riva; c’era poi un altro molo che si protendeva molto in avanti nella baia di el-Kram. Inoltre in inverno la navigazione cessava quasi totalmente. Il porto militare comunque, malgrado la sua piccolezza, era in grado di ospitare 200 navi.
Così lo storico greco Appiano (II secolo) descrive Cartagine e i suoi porti:
‘‘Cartagine sorgeva nel grande golfo d’Africa ed era circondata dal mare in modo da assumere la forma di una penisola, congiunta alla terraferma da un istmo largo 25 stadi (circa 4600 metri). Era dotata di due porti in collegamento tra loro; il primo era il porto mercantile, l’altro, il porto interno, era riservato alle navi da guerra, e in mezzo ad esso era posta un’isola circondata - come il porto - da potenti banchine. L’isola, sulla quale sorgeva il palazzo dell’ammiraglio, si trovava di fronte all’entrata del porto, in modo che da Cartagine si potesse vedere tutto ciò che avveniva a grande distanza, mentre dal mare non si poteva percepire nulla di quanto accadeva dentro i suoi due porti sicuri".
Cartagine era difesa da mura robustissime che resistettero a tutti gli attacchi, fino all’ultimo assedio romano. La loro lunghezza complessiva era di ventidue o ventitré miglia romane (34-35 chilometri), la maggior parte delle quali lungo la costa e quindi facilmente difendibili. Il tratto più importante era quello che sbarrava l’istmo che collegava la città alla terraferma, situato circa tre miglia a est del porto e della zona più densamente abitata. In questo tratto, l’unico di cui abbiamo una certa conoscenza, le mura erano alte più di dodici metri con torri di sessanta metri, a quattro piani, che sorgevano a intervalli regolari. All’interno delle mura vi erano stalle disposte su due piani: quelle inferiori potevano contenere trecento elefanti; quelle superiori quattromila cavalli che salivano e scendevano per mezzo di rampe. Vi erano inoltre magazzini e caserme per ventimila fanti e quattromila cavalieri. Un altro muro correva tutto intorno alla collina di Byrsa (St. Louis) che costituiva quindi la cittadella interna. Questa cinta aveva una circonferenza di due miglia e comprendeva anche la zona portuale e le abitazioni della città vecchia.
L’aspetto della città vecchia non doveva differire molto da quello odierno di molte città del Mediterraneo orientale poco modificate dalla civiltà moderna. Le vie erano strette e tortuose e in alcuni casi le case, simili alle insulae romane, avevano fino a sei piani (Cartagine è stata definita la Manhattan fenicia). Altri edifici minori presentavano tetti a balcone o coperture a volta. L’esterno di queste grandi costruzioni era semplicemente imbiancato a calce, senza alcuna apertura tranne una porta sulla strada; finestre e balconi si aprivano su un cortile interno. La muratura era costituita da grandi pietre squadrate di provenienza locale e di qualità scadente, ma nella maggior parte dei casi le pietre venivano usate solo per le fondamenta, mentre il resto della casa era di mattoni crudi. Per i pavimenti si usava una malta rosa con frammenti di marmo mescolati, e le pareti venivano stuccate. Non mancano esempi di decorazioni, come modanature in pietra o in stucco, capitelli e cornicioni. Degne di nota le soluzioni adottate per il sistema idrico, sia per l’alimentazione (cisterne), sia per lo scarico (doccioni, canaletti, pozzi neri ecc.).
Era il ‘‘luogo santo” di Cartagine, il santuario ‘‘non costruito” dedicato al culto di Tanit. Si trov ava nell’area di Salammbô, a poche decine di metri a occidente del cothon, e vi sono state trovate migliaia di urne contenenti ossa carbonizzate di bambini e stele di varia forma, recanti per lo più iscrizioni, destinate a indicare il luogo della deposizione. Fu utilizzato dagli inizi della storia di Cartagine fino alla sua distruzione. La fase più antica è rappresentata da una piccola cappella: un vano quadrato di circa un metro di lato, con l’altare ricavato nella roccia. La cappella era preceduta da un cortile al quale si accedeva attraverso una sorta di labirinto ottenuto con tre muri curvi concentrici. L’elevato deposito di urne e di stele deposte in uno spazio non troppo ampio causò un eccessivo accumulo di materiali che indusse i cartaginesi a spianare periodicamente l’area. Il tofet era aperto a tutti senza discriminazioni: ai poveri e ai ricchi, alle donne e agli uomini; perfino gli schiavi potevano offrire sacrifici e lasciare offerte votive. Esso fu scoperto nel 1921 da un operaio che dissotterrò, per puro caso, la famosa stele detta del ‘‘sacerdote col bambino”.
Le necropoli di Cartagine cominciarono a venire alla luce nel 1878. Da allora migliaia di tombe sono state aperte e studiate a fondo, ma non è stato possibile arrivare a un conteggio esatto sia per gli scavi clandestini destinati a restare sconosciuti, sia per la mancanza di pubblicazioni che ha cancellato il ricordo di siti una volta noti. Le tombe sono per lo più a pozzo e a dromos; quelle a pozzo sono talvolta molto profonde e accessibili mediante ‘‘gradini” intagliati sui lati lunghi che si fronteggiano come nel caso della tomba n. 55 a Borj Jedid (31,86 m). In certi casi, come nella necropoli detta di Santa Monica, le celle sono sovrapposte come negli edifici a molti piani e si aprono sul pozzo di discesa. Nella necropoli di Rabs sono stati scoperti sarcofagi di marmo, dal peso di parecchie tonnellate, in celle funerarie a molti metri di profondità.
Il tempio più bello e più ricco che sorgesse a Cartagine all’epoca della distruzione era quello di Eshmun (identificato con il dio greco Asclepio) che si trovava sulla collina di Byrsa; vi si accedeva per mezzo di una scalinata monumentale di sessanta gradini. Gli autori antichi parlano di altri templi consacrati a Giunone (identificabile senza dubbio in Tanit o in Astarte) e ad Apollo; in quest’ultimo, secondo Appiano, c’era una cappella tappezzata di foglie d’oro che i soldati romani di Scipione strapparono dai muri servendosi delle spade. Le iscrizioni puniche parlano di templi dedicati al culto di divinità quali Astarte, Tanit del Libano o Tanit della Grotta, Sid, Baal ma, a parte alcune cappelle identificate, purtroppo sul posto non ne rimane traccia.
Cartagine fu, insieme a Roma, uno dei pochi stati che i greci non consideravano ‘‘barbari” perché possedeva un’eccellente costituzione, lodata dagli stessi scrittori romani - e fra essi Cicerone Il governo oligarchico cartaginese ebbe cura di trattare le masse popolari con generosità assegnando loro una parte dei redditi provenienti dallo sfruttamento dei territori conquistati.
Questa precauzione contribuì non poco a evitare che nessuno, se non dopo la crisi economica che seguì la guerra di Annibale, parlasse di riforma.
Per quanto riguarda le forze militari, la popolazione di Cartagine era troppo scarsa per costituire un esercito ‘‘nazionale”, per cui i cartaginesi arruolarono mercenari tratti dalle comunità libiche, sarde e iberiche: evitarono così di distogliere i cittadini dalle attività commerciali da cui proveniva la ricchezza che consentiva, appunto, di finanziare le truppe.
Nel settore economico la principale attività dei cartaginesi riguardava l’approvvigionamento dei metalli.
Cartagine sfruttava inoltre in modo capillare le risorse agricole dei territori conquistati.
L’artigianato era fiorente e la produzione delle stoffe colorate raggiungeva quasi un livello ‘‘industriale”.
Le città-stato della Fenicia ebbero un loro re fino all’età ellenistica; non sappiamo invece se a Cartagine esistesse mai una monarchia, nemmeno nei primissimi tempi e nonostante le leggende della fondazione. Di sicuro sappiamo che il titolo del magistrato supremo della città era quello di sufeta, ‘‘capo” o ‘‘guida”, un termine (sufet) che i greci traducevano con ‘‘re”. Quando Cartagine era ancora soggetta a Tiro, il re della madrepatria aveva probabilmente nella città punica un suo rappresentante (viceré o governatore) per il quale il titolo di sufeta sarebbe stato perfettamente appropriato; quando poi la città si rese autonoma quel titolo venne attribuito al capo della colonia, benché questi venisse scelto dagli stessi coloni. Nel III secolo, all’apogeo della potenza cartaginese, i sufeti erano probabilmente due e rimanevano in carica per un solo anno: ciò rendeva l’istituzione simile al consolato romano. Secondo Aristotele nella scelta dei sufeti si teneva conto sia della ricchezza che del lignaggio, ma questi magistrati venivano eletti da un’assemblea plenaria di cittadini e forse, alla fine del mandato, era consentita la rielezione. Non ci sono noti i particolari dei poteri dei sufeti, ma sappiamo con certezza che, al contrario dei consoli romani, essi non avevano potere militare. Il loro compito era piuttosto quello di convocare e di presiedere il senato e l’assemblea popolare e di amministrare la giustizia; a loro erano sottoposti un tesoriere di stato e una serie di funzionari addetti al disbrigo di questioni pratiche (manutenzione dei porti, dei mercati ecc.).
A Cartagine la carica di generale, che conferiva il supremo potere militare, aveva carattere straordinario e la separazione di principio tra questa e i più alti uffici civili era un fatto unico nelle civiltà antiche, così come l’esenzione dei cartaginesi dal servizio militare. Ciò era dovuto al fatto che la vita di Cartagine era basata sul pacifico esercizio del commercio e che, non avendo la città nemici temibili in Africa, le guerre si svolgevano sul suolo straniero e potevano essere considerate come crisi da risolvere mediante incarichi temporanei. Chiunque poteva essere nominato generale anche se questa carica, come quella dei sufeti, era condizionata dalla ricchezza e dal lignaggio. L’incarico non aveva limiti di tempo e in parecchie famiglie, come quella dei Magonidi e dei Barcidi, si creò una tradizione militare. La posizione quasi extracostituzionale dei generali può spiegare in parte il severo trattamento usato ai condottieri sconfitti, considerati alla stregua di impiegati negligenti; ma allo stesso tempo essi erano temuti come potenziali eversori dello stato perché stavano a capo di eserciti mercenari. Ciò implicava una forma di controllo molto stretta sulla libertà d’azione dei generali che ‘‘camminavano” sempre, per così dire, ‘‘sul filo del rasoio”: un generale mediocre poteva essere ignorato e anche accettato; un generale di valore e di grande carisma era tenuto d’occhio con una certa diffidenza, per timore di una cospirazione.
Fin dai primi tempi dovette esistere a Cartagine un gruppo di cittadini anziani o eminenti che affiancava i sufeti. Era una sorta di senato i cui membri - alcune centinaia - rimanevano in carica per un periodo determinato. Gli argomenti della loro competenza erano pressoché illimitati: promulgavano le leggi, definivano le linee della politica estera, decidevano se intraprendere una guerra o a quali condizioni porvi termine, ricevevano le ambascerie, reclutavano gli eserciti, vigilavano sul contegno dei generali. A partire dal III secolo a.C. al più tardi, all’interno di questo senato generale esisteva un gruppo di trenta senatori che costituiva un comitato permanente addetto agli affari più urgenti e a questioni di ordinaria amministrazione. C’era poi la cosiddetta corte dei Cento (scelta sempre tra i membri del senato) che amministrava la giustizia e che col tempo ampliò i suoi poteri fin quasi a detenere il potere effettivo. Quanto all’assemblea dei cittadini, essa era chiamata in causa solo se senato e sufeti erano in disaccordo.
Nei primi tempi l’esercito cartaginese era composto da cittadini arruolati, come avveniva in tutte le città-stato dell’antichità, ma già ai tempi delle guerre in Sicilia esso consistette in buona parte di mercenari e di contingenti arruolati fra i popoli soggetti. I cittadini cartaginesi furono comunque sempre presenti nell’esercito, come i 3000 giovani, addestrati e arruolati nella fanteria pesante, che formavano la famosa ‘‘compagnia sacra” distintasi nel 339 a.C. contro i siracusani. Fra i soldati stranieri che facevano parte dell’esercito cartaginese i più numerosi erano i libi di Tunisia, particolarmente adatti a costituire la fanteria leggera; quindi gli iberici, armati di spade falcate; i balearici, arruolati come frombolieri (e pagati non in oro ma in donne); i celtici dotati di lunghe spade da taglio. I mercenari greci contribuivano a formare la falange, armati di lunghissime lance, mentre la cavalleria era costituita prevalentemente da numidi e mauritani. I generali erano sempre cartaginesi. L’arma vincente di questi eserciti erano all’inizio i carri falcati che spezzavano e scompaginavano gli schieramenti avversari; per essere efficienti essi avevano però bisogno di ampi spazi privi di asperità del terreno, per cui furono sostituiti dagli elefanti da battaglia che, potendo muoversi agevolmente anche su terreni accidentati, svolgevano strategicamente la stessa funzione dei carri. Per quanto riguarda la consistenza delle armate cartaginesi sembra che di norma non superassero le 30 mila unità, anche se quelle condotte in Italia da Annibale erano molto più numerose.
Le navi da guerra fenicie avevano pochi rivali nell’antichità. Tra il VII e il IV secolo a.C. la regina del Mediterraneo fu la trireme (o triera), inventata molto probabilmente dai sidoni; era lunga circa 36 metri e imbarcava un equipaggio di 180 uomini: 85 per lato, sovrapposti in tre file sfalsate, erano applicati ai remi, la parte restante costituiva il personale addetto al comando e alla manovra della velatura e un piccolo contingente di fanteria da sbarco destinata al combattimento. A Cartagine è invece attribuita dalle fonti classiche l’invenzione della quadrireme (o tetrera) in auge intorno al V secolo a.C., e in seguito della quinquireme (o pentera), utilizzata durante le guerre contro Roma. Gli equipaggi erano composti unicamente da cittadini di diritto cartaginese e comprendevano un ufficiale superiore addetto al comando, un ufficiale in seconda, un timoniere, trenta marinai addetti alle vele e alla coperta, e un numero di uomini ai remi compreso tra 150 e 300 secondo il tipo e la grandezza della nave. La propulsione avveniva a vela durante gli spostamenti, mentre durante le ostilità i due alberi di cui erano dotate le navi venivano smontati dai loro alloggiamenti e la manovra era fatta unicamente a remi. La flotta consisteva in dieci squadre di dodici navi ciascuna, munite di rostro, alle quali si aggiungevano numerose imbarcazioni che fungevano da collegamento. Le modalità e le tecniche degli scontri non erano molto cambiate rispetto a quelle dei secoli precedenti.
Il commercio aveva reso Cartagine la più ricca città del Mediterraneo: quando un greco o un romano dell’epoca ellenistica pensava a un cartaginese, se lo raffigurava nei panni di un mercante. Il commercio ha lasciato tuttavia poche tracce rilevabili mediante ricerche archeologiche perché la più alta percentuale di merci oggetto di questa attività (viveri di ogni tipo, metalli non lavorati, tessuti, pelli e schiavi) sono materiali deperibili; le importazioni e esportazioni di manufatti – che meglio si conservano – era soltanto una piccola parte del totale. Fino al III secolo, il traffico dal quale la città traeva i maggiori profitti era quello con le tribù più retrograde, le quali fornivano, in cambio di articoli di poco valore, i metalli preziosi: oro, stagno e probabilmente ferro con il quale i cartaginesi fabbricavano da sé le proprie armi. Gran parte di questi metalli era in transito, perché essi venivano nuovamente esportati dopo che l’erario aveva incassato la sua percentuale. Il monopolio di Cartagine nel Mediterraneo occidentale non serviva però solo ad accaparrarsi questi metalli: prodotti greci, egizi e campani rinvenuti sulle coste africane, in Sardegna e in Iberia dovettero giungervi a bordo di navi cartaginesi. Per questo i mercanti stranieri furono incoraggiati ad aprire empori nella città punica: i materiali da loro importati sarebbero stati riesportati dai mercanti cartaginesi. Il monopolio del mare implicava però trattati che ne imponessero il riconoscimento ad altri stati e una continua lotta contro i pirati.
Oltre a commerciare manufatti di produzione straniera, i cartaginesi possedevano industrie proprie che producevano articoli destinati all’esportazione. Prima di tutto tessuti colorati con la porpora, quindi oggetti d’avorio, entrambi prodotti per i quali i cartaginesi andavano famosi. C’erano poi gli athyrmata, quei ‘‘gingilli” tanto richiesti da tutte le popolazioni del Mediterraneo, e le armature che a centinaia uscivano giornalmente dalle botteghe cartaginesi, specie durante l'ultima guerra contro Roma. Gli artigiani specializzati nella lavorazione dei metalli erano numerosissimi e producevano anche una grande quantità di articoli di uso quotidiano destinati soprattutto alle tribù libiche e numide e alle popolazioni iberiche. I manufatti che uscivano dai laboratori di Cartagine (a parte le stoffe colorate che avevano alle spalle una tradizione millenaria) erano piuttosto dozzinali, poco originali e mancavano di talento artistico (chi voleva cose belle si rivolgeva ai greci), ma il loro stile, misto di tanti stili diversi, era adattissimo per gli oggetti che i mercanti cartaginesi esportavano in tutte le città ellenistiche. Proprio per questo nel III secolo a.C. Cartagine cominciò a battere moneta, senza la quale era impossibile commerciare con il mondo greco-ellenistico.
L’agricoltura, a Cartagine, fu importante quasi quanto i commerci e l’industria e la classe dei proprietari terrieri godeva lo stesso prestigio di quella mercantile. Le notizie che abbiamo ci sono giunte attraverso gli scrittori romani Varrone (116 ca.-27 a.C.), Plinio il Vecchio (23-79) e Columella (I sec. d.C.), autori di opere anche di argomento agricolo in cui sono spesso citati i testi del cartaginese Magone (IV secolo a.C.) che aveva raccolto l’esperienza punica. Le fertili terre attorno alla città, tutte in possesso dell’aristocrazia, vennero sottoposte a colture estensive, soprattutto cerealicole, affidate a contadini libici, ma grande cura veniva dedicata all’olivo e alla vite: il vino di produzione cartaginese che godette di maggior fama era il passum, ossia il passito. Tra le altre colture arbustive vanno ricordate quelle del mandorlo, del fico e del melograno che i latini chiamavano malum punicum (mela punica). I terreni della costa africana erano inoltre adatti, come del resto ancora oggi, all’allevamento di pecore e capre al quale i cartaginesi aggiunsero quello dei buoi, dei tori e dei cavalli. Anche se non propriamente allevati, venivano tuttavia addestrati per la guerra elefanti di una razza autoctona del Nord Africa, da tempo estinta, di taglia inferiore a quella degli attuali elefanti centro-africani.
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Ta il 318 e il 305 il tiranno di Siracusa Agatocle portò la guerra sul territorio di Cartagine. Un passo di Diodoro Siculo (ca. 80-ca.20 a.C.), descrive come apparve agli occhi dei greci la campagna africana.
‘‘Il territorio che bisognava attraversare era disseminato di giardini e frutteti di ogni genere, poiché molti rivi erano incanalati e irrigavano ogni luogo. Apparivano senza interruzione case di campagna edificate con lusso e imbiancate a calce, che attestavano la ricchezza dei proprietari. Le ville erano piene di tutto ciò che contribuisce ai piaceri della vita, dato che gli abitanti, in un lungo periodo di pace, avevano messo da parte una grande quantità di beni. La terra era coltivata in parte a vite, in parte a ulivo, ed era ricca pure di alberi da frutto. Nelle restanti zone pascolavano in pianura mandrie di buoi e greggi di pecore, e i prati vicini erano pieni di cavalli al pascolo. In una parola, in quella zona si trovava un’opulenza varia, perché i cartaginesi più nobili avevano là i loro possedimenti e, grazie alle loro risorse, potevano dedicarsi al godimento dei piaceri della vita”.
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La religione fenicia, della quale peraltro abbiamo una scarsissima documentazione, non costituì un complesso unitario; a causa del frazionamento politico del territorio ogni città provvide in modo autonomo al culto, adorando le proprie divinità. Al di là delle differenze è possibile tuttavia ritrovare elementi comuni. È ampiamente attestata una triade divina comune composta da un dio protettore della città, da una dea della terra feconda, e da un giovane dio che con la sua morte e con la sua successiva rinascita sancisce il ciclo annuale della vegetazione. Quindi, benché i fenici dipendessero quasi completamente dal mare, la loro era una religione legata alla terra: questo perché il culto e le pratiche religiose sono molto più antiche della navigazione e del commercio.
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Il pantheon dei cartaginesi ricalcava quello dei fenici d’Oriente, anche se alcune divinità apparvero a Cartagine con nomi diversi; comune era anche la mitologia. Dal V secolo a.C. le divinità principali furono il dio Baal Hammon, signore e protettore della città, e la dea Tanit (l’Astarte delle città-stato d’Oriente) il cui nome non è fenicio, ma libico, segno che i coloni erano stati influenzati dal culto locale. I greci identificarono Tanit con Era, la loro dea suprema, ma la divinità cartaginese assunse anche altri attributi riservati altrove a dee più tipiche della fecondità, come Afrodite e Demetra. Su numerose stele dedicate a Tanit figurano infatti i simboli della fertilità (la palma, la colomba, il melograno) oltre alla luna di cui essa era la dea e, più frequentemente, il cosiddetto ‘‘segno di Tanit” che rappresenta una donna con le braccia alzate in segno di benedizione. A fianco di Tanit e Baal Hammon rimasero altre divinità di tradizione fenicia, come Eshun di Sidone che, in quanto dio della medicina, aveva il tempio più grande e più ricco di Cartagine, o Melqart di Tiro che i greci identificarono con Eracle. A partire dal IV-III secolo vennero poi introdotti a Cartagine culti greci, come quello di Demetra e Core. Come accadeva in Fenicia, agli dèi erano sacrificati numerosi animali e, solo eccezionalmente, venivano immolati esseri umani, anche se i resti carbonizzati di fanciulli trovati nel tofet hanno fatto supporre a lungo, erroneamente, che vittime umane venissero offerte al fantomatico dio Moloch.
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Nel suo celebre romanzo Salambô, affresco rievocativo di Cartagine durante la rivolta dei mercenari del 241-238 a.C., Gustave Flaubert (1821-80) descrive il crudele rito del sacrificio dei fanciulli in onore di Moloch, il divoratore. Viene portata fuori dal tempio la colossale statua di bronzo del dio che ha braccia mobili protese in avanti e un fuoco di aloe, cedro e lauro è acceso ai suoi piedi.
"I fanciulli salivano lentamente, e, poiché il fumo che s’innalzava dal rogo formava ampi vortici, così, visti da lontano, parevano svanire entro una nube. Nessuno d’essi si muoveva, perché erano legati ai polsi e alle caviglie, e il velo nero che li avvolgeva impediva loro di vedere e alla folla di riconoscerli ... Le braccia del colosso si muovevano via via più celermente, né quasi più s’arrestavano. Ogni volta che un fanciullo veniva posto su di esse, i sacerdoti di Moloch tendevano una mano sul suo capo, per porre a suo carico i delitti del popolo, vociferando: ‘‘Non sono uomini, questi, ma buoi!” La moltitudine tutto attorno ripeteva: ‘‘Son buoi! Son buoi!” e i devoti gridavano: ‘‘Signore, mangia!”. Le vittime, appena giunte sull’orlo dell’apertura, sparivano come una goccia d’acqua quando cade sotto una lastra di metallo rovente, e una nuvoletta di fumo bianco saliva nell’interno della grande cavità tinta di color scarlatto. E nondimeno l’appetito del dio non si saziava, ma anzi pareva chiedere nuove vittime. Per offrirgliene in maggior copia, i sacerdoti gliene ammucchiavano sulle mani, trattenendovele con una catena. In principio i fedeli avevano voluto contarle, ma ne vennero aggiunte continuamente altre, ed era ormai impossibile distinguerle nel moto vertiginoso delle orribili braccia. Il rito durò a lungo, senza sosta fino a sera. Poi le pareti interne si tinsero di un rosso più cupo, e allora si videro carni che bruciavano; alcuni credevano perfino di riconoscere capigliature, membra e corpi inerti."
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Verso il 450 a.C., un capitano cartaginese di nome Himilco o Imilcone salpò dalla costa portoghese in direzione nord. Raggiunta la Bretagna e da qui la Cornovaglia, cercò di prendere contatto con i minatori indigeni dello stagno. Non si sa se vi sia riuscito, né se da questa prima presa di contatto siano sorti diretti legami di affari tra Cartagine e l’isola, ma i mercanti seguirono in seguito con frequenza le rotte settentrionali partendo da Cadice. Venticinque anni dopo Imilcone un altro capo di spedizione di nome Annone compì un viaggio lungo le coste atlantiche dell’Africa. Si mise in navigazione con sessanta vascelli da cinquanta remi ciascuno e con circa tremila uomini e donne, viveri ed altri oggetti di necessità. Sembra quindi più un’emigrazione che una spedizione. Al suo ritorno Annone fece incidere una relazione • su stele che depose all’interno del tempio di Baal Hammon a Cartagine. Il testo originario del resoconto di viaggio non è giunto sino a noi, possediamo invece una versione greca che presenta molte inesattezze. Con ogni probabilità il viaggio di Annone dovette concludersi all’altezza dell’attuale stato del Camerun o di quello del Gabon.
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Nonostante le inesattezze della traduzione greca, sono possibili nella relazione di Annone alcune identificazioni: il fiume Lixus con il Draa (Marocco); i lixiti con i berberi, gli etiopi con le popolazioni dell’Africa equatoriale; Cerne con l’isola di Hern dinanzi alla costa del Sahara spagnolo; nel fiume Chretes si è riconosciuto il Senegal. Da questo punto la narrazione sembra assumere una connotazione fantastica.
"Dopo aver oltrepassato le Colonne ed aver navigato due giorni, fondammo una prima città che chiamammo Thymiaterion. Sotto di essa era una larga pianura. Dirigendoci poi verso Occidente, giungemmo a Soloeis, un promontorio coperto d’alberi, e vi fondammo un tempio a Poseidone. Quindi navigammo in direzione d’Oriente per mezza giornata e raggiungemmo una laguna non lontano dal mare, coperta di una grande quantità di alte canne, dove passavano elefanti e molti altri animali selvaggi. Passata questa laguna e navigato lungo la costa fondammo delle città chiamate Karikon, Theichos, Gytte, Akra, Melitta e Arambys. Partiti di là, arrivammo al gran fiume Lixus, che viene dalla Libia. Presso di esso, dei nomadi detti lixiti pascolavano le loro greggi. Restammo qualche tempo con loro e ne divenimmo amici. All’interno rispetto a loro vivevano degli Etiopi inospitali, in una terra di bestie feroci e traversata da grandi montagne (...). Presi degli interpreti dai lixiti, muovemmo a sud lungo il deserto per due giorni, e poi per un giorno a Oriente. Allora trovammo un’isoletta dalla circonferenza di cinque stadi nel fondo di un golfo. Vi lasciammo dei coloni e la chiamammo Cerne. Giudicammo dal nostro viaggio che era situata in posizione opposta a Cartagine, perché il viaggio da Cartagine alle Colonne e quello dalle Colonne a Cerne era simile. Da qui, passando per un gran fiume chiamato Chretes, raggiungemmo un lago nel quale si trovavano tre isole più grandi di Cerne. Con un giorno di viaggio giungemmo al fondo del lago, dominato da altissime montagne piene di selvaggi vestiti di pelli di animali, che ci lanciarono contro delle pietre e ci impedirono di sbarcare. Navigammo di là verso mezzogiorno per dodici giorni, fiancheggiando la costa, tutta occupata da etiopi che non si fermarono, ma fuggirono dinanzi a noi (...). Poi continuammo la navigazione per cinque giorni lungo la costa, finché giungemmo ad un grande golfo che i nostri interpreti chiamarono il Corno dell’Occidente. Di giorno non vedemmo altro che una foresta, ma di notte ci apparvero molti fuochi ed udimmo dei suoni di flauti, un battere di cimbali e di tamburi ed un gran rumore di voci. La paura ci prese e gli indovini ci ordinarono di lasciare l’isola. Partimmo di là in fretta e fiancheggiammo una costa infuocata piena di profumo d’incenso. Grandi rivoli di fuoco scendevano nel mare e la terra era inavvicinabile per il calore. Navigando per tre giorni giungemmo ad un golfo chiamato il Corno del Sud. Al fondo di questo golfo v’era un’isola piena di selvaggi. Le donne erano molto più numerose, avevano il corpo peloso ed i nostri interpreti le chiamavano gorilla (...). Prendemmo tre donne, che mordendo e graffiando non volevano seguirci. Noi le uccidemmo e togliemmo loro la pelle che portammo a Cartagine. Essendo finiti i viveri, non navigammo oltre".
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Cartagine fu la prima città-stato che tentò di dominare un impero, e riuscì a mantenere tale dominio per tre secoli. Eppure, come tutti gli stati la cui ricchezza è basata sul commercio, Cartagine fu certamente uno degli stati meno bellicosi del Mediterraneo perché essa sapeva valutare le perdite provocate dalla guerra.
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Dopo la sua fondazione, per un lungo periodo di tempo non abbiamo più notizie di Cartagine. Poiché le colonie fenicie non avevano lo scopo di sfruttare l’entroterra ma guardavano piuttosto al controllo del mare, passarono diversi secoli prima che Cartagine si estendesse oltre i confini originari.
Ma durante l’ultimo quarto del VII secolo il dinamismo dei greci e la nuova potenza dei sicilioti, ossia dei greci di Sicilia, cominciarono a entrare in urto con i diversi interessi, sia commerciali che strategici, dei fenici e Cartagine dovette intervenire.
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Anche se già nei poemi omerici i fenici sono caratterizzati come mercanti infidi e mancatori di parola, fino al VI secolo a.C. non sono documentate ostilità tra greci e fenici, che anzi intrattennero vivaci scambi commerciali e culturali con reciproco vantaggio. Ma, alla fine del VI secolo a.C., gli interessi greci cominciarono ad entrare in contrasto con quelli fenici e a risentirne furono i rapporti con i sicilioti. Nel 631 a.C. i coloni di Tera fondarono Cirene, sulla costa libica, inserendosi nei traffici tra Cartagine e l’Egitto e, poco prima, i focesi, che nonostante l’opposizione di Cartagine avevano fondato la loro colonia di Marsiglia, tentarono di aprirsi un mercato nel regno di Tartesso, per raggiungere il quale erano occorsi ai fenici secoli di paziente penetrazione. Inoltre, dopo la fondazione di Gela, avvenuta nel 688 a.C., i greci non sembravano più attratti solo dalle coste orientali della Sicilia e si erano volti alle due coste occidentali dell’isola dove nacquero, con grande inquietudine dei fenici, Imera e Selinunte. Dal 580 i greci tentarono di cacciare i fenici da tutta la Sicilia e, per mantenere il possesso della parte occidentale intervenne direttamente, per la prima volta, Cartagine. Il momento era particolarmente delicato perché le città-stato della madrepatria erano in crisi a causa dell’attacco dei babilonesi di Nabucodonosor che imposero a Tiro tredici anni di assedio. Furono queste le circostanze politiche che portarono Cartagine alla guida delle colonie fenicie e che le consentirono, dalla metà del VI secolo a.C., di asservirle gradualmente all’impero che andava costruendosi.
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Quando la sua posizione in Sicilia fu salda, Cartagine si volse alla Sardegna e, benché osteggiata dalle popolazioni locali, riuscì a imporvi il proprio dominio, anche al di fuori degli scali marittimi e delle basi commerciali che i fenici già controllavano. A ostacolarla c’erano solo i focesi che in Corsica avevano fondato Alalia (560 a.C.). Più che una colonia si trattava di una vera e propria base di scorrerie ai danni degli etruschi nel Tirreno settentrionale. L’alleanza tra etruschi e cartaginesi portò nel 540 a.C. allo scontro con i pirati focesi, che vennero distrutti: la Corsica passò agli etruschi e le colonie fenicie della Sardegna non vennero più minacciate. Da quest’alleanza antigreca, segno di una nuova dimensione politica mediterranea, scaturì una divisione delle zone di influenza: agli etruschi l’Italia continentale salvo la Magna Grecia, ai cartaginesi le grandi isole (eccetto la Corsica) e l’Occidente mediterraneo. Il segno più evidente dell’alleanza etrusco-cartaginese viene da Pyrgi, l’attuale Santa Severa, sulla costa tirrenica a nord di Roma: in questo centro portuale etrusco il signore di Cerveteri fece incidere e dedicare alla dea fenicia Astarte (etrusca Uni) tre lamine d’oro, due in etrusco e una in fenicio. Ma ormai la potenza etrusca volgeva al declino e Cartagine volse lo sguardo alla nascente potenza di Roma. Con essa, e in funzione antigreca, strinse nel 508 a.C. un trattato nel quale si definivano le rispettive zone di influenza: ai romani il territorio latino, ai cartaginesi una parte della Sicilia e l’Africa.
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Il testo del trattato tra cartaginesi e romani è stato tramandato dallo storico greco Polibio (ca.205-125⁄120 a.C.) ed è probabilmente il più antico documento dell’archivio romano a noi noto. Esso non presuppone rapporti di amicizia ma elimina ogni concorrenza commerciale di Roma sulle coste africane; in cambio riconosce alla città sul Tevere l’influenza sulle città laziali alle quali, specie a quelle costiere, Cartagine s’impegna a non recare danno. Ci sarà un secondo trattato tra Cartagine e Roma nel 348 a.C., un terzo 306 a.C., e addirittura un quarto nel 279 a.C., ai tempi cioè della guerra dei romani contro Pirro.
‘‘Sui seguenti punti si basa l’amicizia tra i romani e i loro alleati e i cartaginesi e i loro alleati. I romani e i loro alleati non devono navigare al di là del promontorio Calos (forse capo Fatina, a nord di Tunisi), a meno che non vi siano costretti da nemici o da tempeste. Se qualcuno vi è portato per motivi di forza maggiore non deve prendere o comprare nulla salvo quel che gli occorre per rifornire la nave o per offrire sacrifici, limitando comunque la presenza a un massimo di cinque giorni... Se qualche romano viene nella Sicilia, soggetta ai cartaginesi, sia protetto dalle medesime leggi. I cartaginesi, a loro volta, non molestino le popolazioni di Ardea, Anzio, Laurento, Circeo, Terracina, né di alcun’altra città latina soggetta a Roma e si tengano lontani dalle città indipendenti: e qualora ne abbiano presa una, la restituiscano intatta ai romani. Non dovranno i cartaginesi costruire fortezze in territorio latino: e se vi entreranno in assetto di guerra non potranno trascorrervi la notte”.
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Nel 480 a.C. un evento decisivo segnò la ripresa dei greci in Sicilia: ad Imera, sulla costa settentrionale dell’isola, essi inflissero una dura sconfitta all’esercito cartaginese. Poiché nello stesso anno i greci uscirono vincitori anche in Oriente nella battaglia di Salamina contro i persiani, alcuni storici antichi collegano le due vicende e parlano di un’alleanza punico-persiana ai danni dei greci; quest’ipotesi è oggi ritenuta improbabile, connessa alla propaganda greca. Dopo Imera cessano le notizie che riprendono nel 409 a.C. con l’aprirsi in Sicilia di una nuova fase di scontri dagli esiti incerti. Nel 409 e nel 406 a.C. i cartaginesi conquistarono a nord Imera e a sud Selinunte, Agrigento e Gela. I greci a loro volta reagirono con la spedizione di Dionisio di Siracusa che nel 397 a.C. giunse fino a Mozia e la conquistò. Alla morte di Dionisio (367 a.C.) la frontiera si stabilizzò lungo i fiumi Imera e Alico cosicché i cartaginesi controllarono il terzo occidentale dell’isola e i greci il resto. Fu di poco dopo (348 a.C.) il secondo trattato tra cartaginesi e romani da cui risulta, rispetto al precedente, una novità: Cartagine controllava ormai la Sardegna che viene menzionata nei suoi possedimenti al pari dell’Africa. Gli scontri tra i cartaginesi e i greci in Sicilia ripresero nella seconda metà del IV secolo a.C.: tra il 342 e il 339 per iniziativa di Timoleonte Corinzio, che fu respinto nella battaglia del fiume Crimiso; tra il 318 e il 305 per iniziativa di Agatocle di Siracusa che, sconfitto e assediato nella sua città, decise di portare la guerra nel territorio cartaginese d’Africa. La manovra non ebbe successo e Agatocle fu costretto a concludere una pace che riportava i confini all’Imera e all’Alico. Intanto i cartaginesi strinsero un terzo trattato con Roma e un quarto venne ratificato nel 279 a.C. per la mutua difesa contro l’ultimo assalto greco, quello di Pirro re dell’Epiro che 276 a.C. dovette abbandonare la Sicilia. Ormai il rimuoversi della potenza greca in Sicilia creava le premesse per lo scontro tra Cartagine e Roma.
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Quando, nel 282 i romani imposero alle città della Magna Grecia di entrare nell’alleanza romana, Taranto chiamò in suo aiuto il più abile condottiero del tempo, Pirro, re del piccolo Epiro (l'attuale Albania). Nel 280 a.C. Pirro sbarcò in Italia con un esercito non molto numeroso ma ben organizzato, fornito di uno strumento bellico sconosciuto ai romani: gli elefanti. Il terrore che questi animali seminarono tra i soldati romani fece guadagnare al condottiero epirota il primo scontro avvenuto a Eraclea, sulla costa ionica della Basilicata e lo stesso avvenne l’anno successivo ad Ascoli, presso Foggia, dove però anche Pirro riportò perdite così gravi che l’espressione ‘‘vittoria di Pirro” passò a designare un successo conquistato a carissimo prezzo. Invece di sfruttare la vittoria, egli decise improvvisamente di passare in Sicilia dove sperava di costruirsi un proprio regno, nella zona occidentale dell’isola, ai danni dei cartaginesi. Si mise quindi alla testa degli eserciti di Siracusa, Gela, Agrigento e Messina, ma dopo tre anni di guerra senza concreti risultati abbandonò l’isola per tornare sul continente dove fu definitivamente sconfitto dai romani a Benevento nel 275 a.C.
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Ai tempi della guerra contro Pirro i cartaginesi si erano impegnati ad aiutare i romani e in quella circostanza, tra le due città, era stato stipulato un trattato (il quarto) che definiva esattamente le zone di influenza di ciascuna di esse: ai cartaginesi era riservato il controllo del mare e delle isole (Sicilia, Sardegna, Corsica); ai romani era lasciata mano libera nella penisola. La linea di demarcazione tra le due zone d’influenza passava per lo stretto di Messina: se i romani o i cartaginesi avessero valicato quella linea, avrebbero provocato una guerra. Un fatto apparentemente secondario fece precipitare le cose. Un esercito di soldati mercenari, chiamati mamertini, che aveva occupato Messina, chiese, nel 264 a.C., l’intervento prima di Cartagine e poi di Roma per difendersi da Gerone II di Siracusa, un ex generale di Pirro, che intendeva cacciarli dalla città. I romani valutarono i rischi, poi decisero di infrangere il trattato con Cartagine. Sbarcati in Sicilia nel 262 a.C. conquistarono quasi completamente l’isola, ad eccezione delle fortezze occidentali di Trapani e di Lilibeo (Marsala) che erano appoggiate e rifornite dalla flotta cartaginese, padrona del mare. Purtroppo i romani si adeguarono in fretta alle esigenze della guerra: allestirono in tutta fretta una flotta di 120 navi e con essa nel 260 a.C. sbaragliarono la marina cartaginese a Milazzo e poi, nel 256 a capo Ecnomo. Incoraggiati dall’esito di queste vittorie tentarono perfino, ma senza successo, di portare direttamente la guerra in Africa con il console Attilio Regolo. I cartaginesi intanto si erano ripresi e conducevano con successo le operazioni in Sicilia sotto il comando del generale Amilcare Barca. La guerra alla fine si risolse sul mare con la vittoria del console romano Lutazio Catulo alle isole Egadi (241 a.C.). Le condizioni di pace subite dai cartaginesi dopo una guerra durata 23 anni furono abbastanza ragionevoli: l’abbandono della Sicilia, l’impegno ad abbandonare ogni ostilità contro i romani e il pagamento di una forte indennità in denaro.
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I romani, che fino allora erano stati un popolo di contadini e di pastori, profondamente radicati alla terra, si trasformarono, con l’aiuto degli etruschi e dei Greci della Magna Grecia, in marinai ma dotarono le loro navi di ponti mobili, i corvi, con i quali agganciavano le imbarcazioni nemiche e sui quali potevano combattere come sulla terraferma. A raccontare l’episodio della battaglia di Milazzo è ancora una volta Polibio.
‘‘I cartaginesi (quando seppero che la flotta romana avanzava verso di loro) con grande gioia e zelo salparono con 230 navi, pieni di disprezzo per l’inesperienza dei romani, e navigarono tutti con la prora volta ai nemici come se andassero a fare un sicuro bottino, pensando che non valesse neppure la pena di schierarsi a battaglia. Al loro comando c’era Annibale (nome che si ripete frequentemente nella storia cartaginese) con una nave a sette ordini di remi che era stata del re Pirro. Appena furono vicini, vedendo i corvi volti in alto su ciascuna prora, i cartaginesi rimasero un po’ incerti, stupiti da quegli strani apparecchi, ma poi, siccome avevano un grande disprezzo per gli avversari, quelli della prima fila si mossero all’assalto arditamente. Ma le navi, una volta avvicinatesi, venivano strette insieme dalle macchine, e gli uomini subito si lanciavano attraverso i corvi e balzavano a combattere sui tavolati delle navi; alcuni dei cartaginesi furono trucidati, altri, sbigottiti da quanto accadeva, si arresero: la battaglia si svolse infatti in modo simile a un combattimento terrestre. Così i romani tolsero di mezzo trenta navi con tutti gli equipaggi e fra queste fu catturata l’imbarcazione del comandante. Annibale riuscì faticosamente a fuggire su una scialuppa”.
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Dopo la sconfitta romana, privata dei suoi domini marittimi, Cartagine guardava alla penisola iberica come area di ogni suo futuro sviluppo.
La regione, lontana dalle ingerenze romane, avrebbe costituito un prezioso serbatoio di reclutamento, e il possesso e la gestione diretta delle miniere d’argento della Sierra Morena avrebbe consentito il mantenimento di forti contingenti militari.
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Le condizioni di pace imposte dai romani dopo la sconfitta cartaginese in Sicilia, anche se non furono disastrose per la città punica innescarono una crisi progressiva: Cartagine era ormai posta in condizioni di inferiorità che non riuscirà mai più a rimuovere durevolmente. I primi segni della crisi si ebbero subito, in Africa. Le truppe mercenarie si ribellarono perché non ottennero il soldo né le gratifiche che si aspettavano per le sofferenze patite e accesero una guerra quadriennale nel corso della quale il conflitto venne portato in Sardegna (238 a.C.). Qui i mercenari chiesero l’intervento dei romani che si affrettarono a occupare l’isola insieme alla vicina Corsica. La rivolta fu domata nel 237 a.C. dal generale Asdrubale, ma intanto Cartagine aveva perduto il suo potere nel Mediterraneo: l’unica via di espansione era costituita dalla penisola iberica. Ricca di miniere di argento e di rame e poco distante dalla costa africana, la Spagna era lo sbocco naturale a un movimento di conquista e, nelle intenzioni dei cartaginesi, una formidabile base strategica per riprendere la lotta contro Roma. A imporre questa strategia fu la famiglia dei Barca, o Barcidi, che capeggiava il partito dei commercianti. Furono quindi prima Amilcare e poi il suo genero e successore Asdrubale ad affermare in Iberia il dominio di Cartagine: nel 229 Asdrubale fondò Cartagena e nel 226 strinse un trattato con Roma che gli riconosceva come zona d’influenza tutti i territori a sud del fiume Ebro. Nel 221 a.C. Asdrubale fu assassinato e gli succedette nel comando il cognato Annibale, figlio del ‘‘Lampo”.
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Prima di fregiarsi del soprannome di Barca (‘‘il Lampo” o ‘‘la Folgore”) Amilcare (m. 229 a.C.) era stato l’eroe della guerra con Roma e il generale che aveva domato con decisione la rivolta dei mercenari in terra d’Africa. La famiglia era di grande e solido patrimonio, proprietaria di vastissimi possedimenti nella regione dell’attuale Sehel tunisino, e di antica nobiltà: il poeta latino Silio Italico (25-101) che scrisse il poema epico Punica di imitazione virgiliana, la diceva giunta in Africa al seguito di Elissa, ma è più probabile che si sia trasferita dalla Fenicia più tardi, in seguito a una seconda migrazione. Amilcare aveva dato due figlie in spose a due influenti membri del senato, uno dei quali, Asdrubale, che gli succedette nel comando in Spagna, capeggiava una delle fazioni più forti; altre due figlie le aveva unite a due principi numidi, fornitori di cavalleria punica, che controllavano l’entroterra. Forte di tanta parentela, di ricchezza e di prestigio personale, questo aristocratico cartaginese si recò in una colonia relativamente cartaginesizzata al fine di procurare alla città madre un compenso per i territori perduti, ma anche per fondare su suolo straniero una sorta di monarchia militare: si compiaceva più della parte di sovrano per grazia propria che del ruolo di governatore. Se poi, come vuole la leggenda, il fondamento emotivo della sua politica era l’odio antiromano, tale sentimento doveva comprendere in pari misura amore di patria, orgoglio ferito e ambizione. E poiché era cosciente che, per attuare i vasti disegni dettati da tale odio non poteva bastare la vita di un solo uomo, alimentò nei tre figli – almeno secondo la voce storica – l’odio verso Roma. Annibale raccontava che il padre gli aveva fatto giurare di non vivere mai in amicizia con i romani.
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Annibale nacque nel 124 a.C., quasi sicuramente a Cartagine, primo di tre fratelli. A dodici anni seguì il padre in Spagna e fu allevato nel campo dell’armata paterna affidato a un precettore spartano, Sosilo. Sotto la sua guida Annibale studiò a fondo sia le campagne militari di Alessandro Magno, che divenne il suo modello, sia le opere di storia militare successive concernenti la tattica e la strategia. Il condottiero che in quegli anni viene formandosi, superiore secondo la tradizione antica a Pirro e allo stesso Alessandro, è il sommo rappresentante della scuola militare ellenistica, sorretto da un’ambizione e da un disegno politico che prevedevano la ricostruzione dell’impero punico e, come esito ultimo, dopo l’inevitabile guerra di rivincita con Roma, l’instaurazione di un potere personale nella stessa Cartagine: una sorta di re occulto in una repubblica pur sempre retta democraticamente.
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Così lo storico Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) descrive la figura di Annibale.
‘‘Di suprema audacia nel superare i pericoli, era però anche di suprema prudenza. Nessuna fatica poteva fiaccarne il corpo o vincerne l’animo. Di uguale resistenza sia al caldo sia al freddo, assumeva cibo e bevanda in quantità corrispondente al bisogno naturale, non al piacere. Il tempo che gli avanzava dal disbrigo delle sue faccende, lo dedicava al riposo: non però in un morbido letto e conciliato dal silenzio, ché anzi molti lo videro spesso giacere per terra, avvolto in un mantello militare, fra le sentinelle e i posti di guardia. Era di gran lunga il primo tra i cavalieri come tra i fanti, primo a entrare in battaglia, ultimo lasciava il campo alla fine.”
Al luminoso ritratto il romano si affretta com’è ovvio, ad aggiungere qualche tratto negativo:
‘‘Vizi ingenti pareggiavano le tante virtù dell’uomo; di crudeltà inumana e perfidia più che punica (la slealtà punica era proverbiale...), nulla vi era per lui di vero, di santo: nessun timore aveva degli dèi, nessun giuramento era sacro, nessun legame religioso”.
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Costretto, come tutti i suoi predecessori a servirsi di contingenti eterogenei, tratti dai diversi domini di Cartagine, Annibale si rese subito conto che per trasformare un’accozzaglia di mercenari in una forza efficiente era necessario sfruttare al massimo i caratteri diversi delle varie etnie, combinandone, quando era possibile, l’azione in battaglia. Perno degli eserciti punici era la fanteria pesante libica, armata e impiegata alla greca secondo la tattica oplitica e falangista della formazione serrata e armata di lancia d’urto e della lunghissima sarissa macedone. Ma i libici si sentivano più a proprio agio nel combattimento corpo a corpo e concepivano la battaglia come una serie di duelli individuali. Così, invece della picca (la lunga asta dalla punta di ferro) Annibale fornì la spada come principale arma offensiva a tutti i suoi contingenti di fanteria pesante e li divise in piccole unità tattiche (speirai), più elastiche e duttili della massiccia falange, in grado cioè di manovrare con grande libertà. Il "suo” esercito esaltava la capacità combattiva ideale dei vari elementi (e dei vari gruppi etnici) e al tempo stesso li manteneva perfettamente fusi. Quella di Annibale era un’armata piuttosto anomala, quanto a organizzazione, rispetto agli schemi dell’epoca, ma greca restò la manovra che essa era chiamata a eseguire sul campo. Come negli eserciti ellenistici l’aggiramento era operato dalle cavallerie, ma esso veniva "preparato”, come successe a Canne, dalle formazioni di fanteria pesante che ora erano assai più agili di quelle greche.
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Contro le smisurate risorse dello stato romano, che in quegli anni poteva mobilitare 600 000 uomini, l’esercito di Annibale, con i suoi 20 000 fanti e 6000 cavalieri, era poca cosa. In una guerra di logoramento i cartaginesi non avrebbero avuto speranze, ma Annibale aveva in mente una guerra lampo, combattuta sul territorio italico, che scardinasse il sistema della confederazione romana e staccasse da essa, con le lusinghe o con le minacce, quei soci che ne alimentavano gli eserciti. Infatti erano apertamente ostili a Roma, anche se ad essa soggette, quasi tutte le genti della Gallia Cisalpina; malcontento e rivolta serpeggiavano inoltre nel mondo osco-sabello e in quello italiota dell’Italia meridionale; qui dunque alcune città si proponevano come potenziali alleate di Annibale. Delicata appariva anche la situazione di Capua, seconda città d’Italia, da qualche tempo minacciata nel suo primato economico. Annibale era convinto che, se avesse isolato Roma staccandola dai suoi soci e alleati, il senato sarebbe stato costretto a trattare; il condottiero contava di ottenere questo risultato rapidamente: la promessa fatta ai suoi soldati durante l’attraversamento delle Alpi di mettere in loro mano la capitale d’Italia con una o due battaglie al massimo, è un’autentica dichiarazione programmata.
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Lo scopo di Annibale era probabilmente quello di ridimensionare la potenza romana, non di eliminarla, riportandola ai confini antecedenti alla conquista della Magna Grecia, della Sicilia e dell’Italia settentrionale. Sulla penisola si sarebbero quindi costituiti tre sistemi statali: a nord una lega di tribù galliche; al centro la federazione romana con latini umbri e etruschi; a sud un’altra federazione di sabbiai, lucani e bruzii, sotto il protettorato di Cartagine.
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Nel 226, con Asdrubale, i cartaginesi si erano impegnati a non superare, durante le loro operazioni, il corso dell’Ebro. Atteggiandosi ancora una volta a protettrice della grecità occidentale Roma intendeva con questo rassicurare l’alleata Marsiglia fondata dai focesi. Ma a sud del fiume restava libera Sagunto, città di presunta fondazione greca, delle cui sorti ritenevano di poter decidere sia i romani che i cartaginesi: i romani perché da tempo la città si era posta sotto la loro protezione, i cartaginesi perché essa si trovava nella loro zona di influenza. Quando, malgrado i moniti di Roma, Sagunto venne espugnata e distrutta, il conflitto si rivelò inevitabile. Se il "caso Sagunto” sia stato il pretesto colto da Annibale per realizzare i suoi piani di guerra contro Roma è una questione che è stata dibattuta a lungo e senza esito; è certo, tuttavia, che i romani si risolsero a prendere le armi solo all’ultimo minuto e non senza esitazioni. Convinti che Annibale volesse difendere i suoi domini nella penisola iberica, si prepararono a inviargli contro Publio Cornelio Scipione, mentre affidarono all’altro console, Tiberio Sempronio Longo l’incarico di preparare uno sbarco in Africa. Ma la fulminea reazione del Barcide vanificò tutti i piani dei romani. Nel 218 a.C., appena la guerra fu dichiarata, Annibale superò l’Ebro, e superati i Pirenei e le Alpi con un esercito di 26 mila uomini e più di trenta elefanti da combattimento, si presentò nell’autunno nella pianura padana.
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Ecco la descrizione che lo storico romano Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) fece dell’impresa, ritenuta fino allora impossibile:
"Annibale dalla Duerza (affluente del Rodano), quasi sempre per pianure, giunse ai piedi delle Alpi. Allora, sebbene per fama sapessero ciò che li attendeva, al veder da vicino l’altezza di quelle montagne, e le nevi che si confondevano con il cielo, gli informi tuguri addossati alle rupi, le greggi e i giumenti arsi dal freddo, gli uomini furono presi da nuovo terrore... In testa erano la cavalleria e gli elefanti che procedevano con estrema lentezza per gli stretti sentieri; dietro veniva il grosso dell'esercito... Il nono giorno, si giunse al valico (forse il Monginevro) per vie spesso non più tentate, e iniziò la discesa che si rivelò assai più difficile della salita perché nella notte era caduta molta neve. Giù per i sentieri scoscesi, uomini e cavalli sdrucciolavano sulla molle poltiglia, scoprendo l’insidioso ghiaccio sottostante... Leggendosi sulla faccia di ognuno lo scoramento e la disperazione, Annibale, spintosi innanzi e fatti fermare i soldati su un promontorio, donde la vista spaziava largamente, mostrò loro l’Italia, e ai piedi delle Alpi la pianura padana, dicendo che essi superavano allora non solo le mura d’Italia, ma della stessa città di Roma, che tutto il resto sarebbe stato agevole e piano, che con una o al massimo due battaglie avrebbero avuto nelle loro mani la rocca e la capitale d’Italia”.
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In dicembre, sotto una fitta nevicata, gli elefanti di Annibale (che non sopravviveranno all’inverno) misero in fuga, prima sul Ticino e poi sulla Trebbia, le legioni dei consoli Publio Cornelio Scipione e di Tiberio Sempronio Longo che si erano riunite per affrontare l’invasione, mentre l’esercito cartaginese raddoppiò di numero per l’apporto dei galli che, come previsto, accorsero ad arruolarsi nelle sue file. Dopo avere passato l’inverno del 217 a.C. nell’Italia settentrionale, l’esercito cartaginese sfondò le difese dei valichi appenninici e marciò su Perugia, inseguito lungo la sponda del lago Trasimeno dalle legioni del nuovo console Gaio Flaminio. Annibale le attaccò di sorpresa e le distrusse la mattina del 22 giugno, poi sbaragliò la cavalleria del secondo console, Gneo Servilio, che giunse in ritardo sul campo. Ora, dal cuore dell’Italia l’esercito cartaginese minacciava direttamente Roma che fu invasa dal panico. In quel momento di supremo pericolo il senato soppresse le magistrature ordinarie e nominò dittatore Quinto Fabio Massimo. Egli eluse ogni scontro decisivo con i cartaginesi preferendo una tattica di contenimento e di logoramento, accontentandosi di molestare il nemico e di rendergli impossibile l’approvvigionamento. Scaduto il suo mandato, il potere fu restituito ai consoli che in quel 216 a.C. furono Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. Essi, per non lasciare più a lungo il territorio degli alleati italici in balia dell’esercito cartaginese, cercarono di risolvere il conflitto in Apulia dove Varrone diede battaglia campale presso il villaggio di Canne, sulle rive del fiume Ofanto. La sconfitta che i romani subirono fu la più tremenda che la storia della Repubblica registri; Annibale aveva virtualmente concluso la sua guerra lampo.
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Sono i primi giorni dell’agosto del 216 a.C. e Roma è attanagliata dalla paura, stretta nella morsa della disperazione. Pochi giorni prima a Canne, un villaggio dell’Apulia che nessuno ha mai sentito nominare, i consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone hanno subito la più tremenda sconfitta che si ricordi e il più e il meglio delle legioni romane, con il fior fiore dei loro ufficiali, sono stati annientati dall’esercito di Annibale, il cartaginese che da due anni sta tenendo a ferro e a fuoco la penisola italica. Si parla di 70 000 legionari rimasti sul campo o fatti prigionieri, e solo 3000 sarebbero usciti malconci dallo scontro. Roma è vicina alla disfatta finale e tenta di conciliarsi il favore degli dèi tornando agli antichi riti della fondazione, celebrando persino sacrifici umani. Non è chiaro se le divinità capitoline abbiano accettato il fumo delle vittime, ma è certo che se Annibale sarà pronto a cogliere il frutto della sua vittoria, si vedranno i cavalli dei cartaginesi pascolare nel Foro e Roma tornare alla condizione di piccolo stato agricolo di periferia.
[13341]
Roma assorbì il colpo con insospettata energia. La sua intatta supremazia sul mare impediva che da Cartagine e dalla Spagna affluissero all’esercito di Annibale rifornimenti e truppe fresche, quindi il conflitto aspro si trasformò in una guerra di esaurimento. Mentre ebbero poco esito i tentativi di Annibale di suscitare nuovi nemici a Roma (Siracusa si schierò apertamente dalla sua parte e fu assediata; Filippo V di Macedonia aprì in Illiria un nuovo fronte di guerra) nel 210 a.C. Publio Cornelio Scipione passò al contrattacco in Spagna, e nel 207 a.C. Gaio Claudio Nerone bloccò sul fiume Metauro l’esercito cartaginese portato nell’Italia centrale da Asdrubale, fratello di Annibale. A questo punto Roma comprese che, se voleva costringere Annibale ad abbandonare l’Italia, doveva spostare la guerra in Africa. Guadagnatosi l’alleanza del principe Massinissa di Numidia, Scipione minacciò direttamente Cartagine e per tutto l’anno 203 a.C. vinse ripetutamente gli improvvisati eserciti cartaginesi di madrepatria. Finalmente il 29 ottobre del 202 a.C. Annibale e Scipione si affrontarono a Zama e la sconfitta di Cartagine fu definitiva. Le condizioni di pace imposte dai romani nel 201 a.C. furono durissime; entro un cinquantennio Cartagine doveva versare ai vincitori l’enorme indennità di 10 mila talenti d’argento (un talento corrisponde più o meno a 25-28 milioni delle nostre lire o a 13-14 mila euro); rinunciare subito a tutti i possedimenti fuori dall’Africa e a quelli africani al di là del ‘‘confine fenicio" (restava quindi praticamente solo la Tunisia nordorientale); consegnare la flotta a eccezione di 10 navi; impegnarsi a non portare guerra fuori dal territorio africano e comunque a non intraprendere azioni militari senza l’autorizzazione di Roma.
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La distruzione totale di Cartagine nel 146 a.C. a opera di Scipione Emiliano fu un atto di cui si conservò nell’antichità un perpetuo ricordo. Furono la grandezza della catastrofe e il fatto che una città tanto ricca e potente venisse cancellata dalla faccia della terra a imprimersi nell’immaginazione di tutti: quella tragedia venne simboleggiare il crollo di ogni potenza, sia personale che nazionale.
[13411]
Nell’accingersi a riparare i danni causati dalla guerra contro Roma Cartagine dovette affrontare soprattutto due problemi: il sollecito pagamento a rate annuali dell’indennità e la difesa del territorio cartaginese dalle scorrerie di Massinissa re dei numidi. Annibale era rimasto al comando dell’esercito per alcuni mesi dopo la conclusione della pace, ma nel 200 si era ritirato a vita privata. Alla sua assenza dalle cariche pubbliche corrispose un periodo di grande corruzione del governo aristocratico, che tentò addirittura di pagare con una lega d’argento di basso valore l’indennità e scaricò la tassa straordinaria sulla cittadinanza incamerandone a proprio vantaggio una buona percentuale. Nel 196 a.C. il malcontento popolare crebbe a tal punto che Annibale fu eletto sufeta. Egli valorizzò allora l’immenso potenziale agricolo dell’esausta Cartagine attraverso l’impianto di colture specializzate, ma soprattutto tentò una serie di riforme per reprimere gli abusi finanziari della classe oligarchica. I Cento si appellarono al senato di Roma e, nonostante la mediazione di Scipione, il vincitore di Zama che aveva assunto l’appellativo di Africano, l’odio contro il grande cartaginese ebbe il sopravvento. Costretto all’esilio nel 195 a.C. Annibale trascorse gli ultimi anni di vita vagando dalla Siria alla Bitinia dove morì suicida nel 183 per non essere consegnato ai romani.
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Per essere stato alleato in terra d’Africa dei romani durante le ultime fasi della guerra contro Annibale, Massinissa di Numidia cercava con ogni pretesto di strappare i pochi territori che erano rimasti ai cartaginesi, sicuro che essi non avrebbero reagito in forza dei trattati di pace del 201 a.C., e i romani, dal canto loro, gli lasciavano una notevole libertà d’azione. Non conosciamo l’ordine cronologico degli sconfinamenti di Massinissa, ma nel 193 e nel 182 a.C. egli si era già appropriato di una considerevole fetta di territori. Gli abusi continuarono per un altro decennio finché nel 172 a.C. Cartagine presentò una formale protesta a Roma che fu accolta tiepidamente. Le prevaricazioni di Massinissa non si arrestarono tanto che nel 161 a.C. riuscì ad annettersi, con la tacita approvazione di Roma i fertili terreni che si estendevano attorno al golfo di Gabes (gli Emporii), la perdita più grave tra tutte quelle subite da Cartagine. La città presentava regolari ricorsi a Roma ma il senato rimaneva sordo: ogni tanto inviava in Africa qualche commissione che si limitava a richiamare blandamente all’ordine il re numida lasciando tutte le controversie in sospeso. I cartaginesi avevano all’interno del senato romano un irriducibile nemico, Marco Porcio Catone, che concludeva ogni sua arringa, di qualsiasi argomento si trattasse, con le famose parole ‘‘ceterum censeo Chartaginem esse delendam” (... e inoltre dichiaro che Cartagine deve essere distrutta). L’occasione che Catone aspettava fu offerto a Roma nel 150 a.C. quando, in conseguenza di un nuovo assalto di Massinissa, la città non invocò più l’arbitrio di Roma, ma respinse la violenza con le armi. L’ultima rata di indennizzi imposta dai trattati del 201 era stata regolarmente pagata l’anno precedente.
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Roma non accettò scuse, né la proposta di un nuovo indennizzo, né la resa che Cartagine offrì quando seppe che il senato aveva dichiarato la guerra. L’esercito Romano sbarcò nel 149 a.C. ad Utica, che si era affrettata a lasciare Cartagine al suo destino, e da lì i consoli comandarono ai cartaginesi di abbandonare la loro città che i romani avevano deciso di distruggere. I cartaginesi si apprestarono allora a una resistenza disperata: i templi e gli edifici pubblici furono trasformati in officine dove i cittadini lavoravano giorno e notte a fabbricare armi con le materie prime ancora disponibili nei magazzini e le donne offrivano i loro capelli per le corde delle catapulte. Fra scaramucce, attacchi alle mura da parte dei romani, sortite dei cartaginesi per approvvigionarsi, defezioni, tentativi di tradimento, disperati atti di eroismo, l’assedio andò avanti fino al 147 a.C., quando giunse in Africa un nuovo esercito romano al comando di Publio Cornelio Scipione Emiliano (figlio adottivo dell’Africano): faceva parte del suo seguito anche lo storico greco Polibio. La città fu stretta dapprima per lunghi mesi in una morsa poi, nel 146 a.C. subì un violento attacco che obbligò i difensori a rinchiudersi nella cittadella di Byrsa da cui combatterono strenuamente per sei giorni. Il settimo giorno fu chiesta la vita salva per coloro che si arrendevano e cinquemila uomini, donne e bambini, mezzi morti di fame, uscirono in fila dalla cittadella; i più tenaci si chiusero in un tempio che poi incendiarono, morendo tra le fiamme. Dopo aver riservato allo stato l’oro, l’argento e gli oggetti sacri, Scipione permise alle sue truppe di mettere a sacco la città e infine, tutto quanto era rimasto in piedi fu raso al suolo. Scipione pronunciò una maledizione sulle rovine e sul terreno venne passato un aratro nel cui solco si seminò del sale, a significare che la terra doveva rimanere per sempre sterile e deserta.
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L’autentica tragedia che fu la fine di Cartagine simboleggiò il crollo di ogni potenza, sia personale che nazionale. Polibio, che fu presente alla sua distruzione, descrive Scipione attonito tra le rovine della città distrutta, presago del destino di morte cui la stessa Roma non potrà sottrarsi.
"Scipione considerò la città che aveva prosperato per più di settecento anni dalla sua fondazione, che aveva dominato isole, mari e territori tanto vasti ed era stata ricca d’armi, flotte, elefanti e denaro quanto i più grandi imperi, superandoli però in ardire e disperato coraggio...Dopo aver meditato a lungo sul fatto che non solo gli individui ma anche le città, le nazioni e gli imperi devono tutti inevitabilmente perire, sulla sorte di Troia, città un tempo gloriosa, sulla caduta degli imperi degli assiri, dei medi e dei persiani e sulla più recente distruzione dello splendido impero dei macedoni, egli citò di proposito o fra sé e sé le parole che Omero mette in bocca a Ettore: Verrà il giorno che cadrà la sacra Troia, e il re Priamo, e con lui tutto il suo popolo guerriero. E quando Polibio, che era con lui, gli chiese che cosa volesse dire, egli si volse e gli afferrò la mano dicendo: Questo è un momento di gloria, maestro; eppure sono preso dal timore e dal presentimento che un giorno la stessa sorte toccherà alla mia patria”.
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L’arte fenicia ripete nel tempo e nello spazio tipologie e iconografie sostanzialmente invariate, sicché talvolta ci si chiede - senza essere in grado di rispondere - dove è stata prodotta un’opera, perché il luogo del reperimento non è necessariamente anche quello di produzione. Ma l’omogeneità della produzione artistica fenicia è spesso ingannevole. È indubbio l’influsso egiziano nelle città-stato della madrepatria, così come nelle colonie vengono recepiti influssi esterni derivanti da altre culture, quelle indigene o quelle che ad esse si erano sovrapposte. Restano tuttavia la costante funzionalità pratica dei prodotti, l’aderenza alla tradizione e ai modelli, le valenze religiose e magiche che ad essi si accompagnano; ciò può consentire una articolazione per generi o categorie, almeno in apparenza assai solidi e condizionanti: stele, figurine di terracotta, protomi e maschere, gioielli e altri.
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Il complesso delle testimonianze relative all’architettura permette l’individuazione di alcune componenti costanti che delineano una tipica ‘‘cultura dell’insediamento” e, sia in oriente che in occidente, troviamo una serie di elementi peculiari che giustificano l’enunciazione di un vero e proprio ‘‘paesaggio fenicio”. Là dove però, come a Cipro, l’insediamento fenicio non diede luogo alla fondazione di nuove colonie, l’elemento locale rimase prevalente e il contributo fenicio si coglie solo in alcune specifiche realizzazioni architettoniche.
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L’urbanistica fenicio-punica mostra alcune componenti costanti, delle quali un aspetto fondamentale è costituito dalla topografia degli abitati, le cui peculiarità hanno reso possibile l’enucleazione di un vero e proprio ‘‘paesaggio fenicio”. Gli insediamenti in genere erano posti su promontori o su isolette a poca distanza dalla costa, di fronte a specchi d’acqua poco profondi o lagunosi, adatti a ricevere navi dalla chiglia bassa come quelle dei fenici. La preferenza accordata a promontori e isole rispondeva anche a un’esigenza di difesa: le isolette erano infatti attaccabili meno facilmente degli impianti di terraferma e i promontori potevano ospitare un’acropoli o comunque un insediamento fortificato. L’acropoli, cinta di mura, costituiva il nucleo centrale di tutti i grandi abitati e intorno ad essa si disponevano i quartieri che ospitavano case private, luoghi di culto, locali per le attività commerciali e industriali. Una cinta muraria racchiudeva l’intero insediamento cittadino, articolandosi spesso in varie cortine successive. In prossimità delle mura si trovava abitualmente l’area sacra caratteristica del mondo fenicio, il tofet – attestato archeologicamente solo in Occidente – ossia un recinto a cielo aperto riservato alla sepoltura (e per molto tempo si è ritenuto al sacrificio) dei fanciulli. Ugualmente in posizione eccentrica rispetto agli abitati erano posti gli impianti sepolcrali. Quanto ai porti, gli impianti naturali erano spesso integrati da banchine, frangiflutti, opere di canalizzazione. Tipica di alcuni insediamenti occidentali era poi la presenza di un bacino artificiale di carenaggio (il cothon), attestato a Cartagine e a Mozia.
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Secondo lo storico Strabone i quartieri abitativi delle città fenicie d’Oriente avevano edifici addossati gli uni agli altri, con case a più piani non prive di soluzioni di una certa eleganza; le porte d’ingresso erano inquadrate da colonne e, ai piani superiori, le finestre avevano balaustre ornate con eleganti volute. A Cartagine e a Kerkouane inoltre erano diffuse le vaste insulae abitative in mattoni e pietra che potevano raggiungere anche i sei piani. Vi si accedeva attraverso uno stretto ingresso che conduceva a un cortile centrale, sovente decorato con un pavimento a mosaico in cui compariva il cosiddetto ‘‘segno di Tanit”. Nel cortile si trovavano una o più vasche, un pozzo e la scala d’accesso ai piani superiori. Tutt’intorno si disponevano i singoli vani secondo un criterio organizzativo tipico delle case puniche di città. In Sicilia (Mozia, Solunto) e in Sardegna (sulle rive dello stagno di S. Gilla, presso Cagliari, e a Tharros) sono presenti abitazioni dalla caratteristica tecnica ‘‘a telaio” – cioè con strati verticali alternati a sacche di pietrame più minuto – organizzate, come a Cartagine, attorno a un cortile centrale; in quelle di Tharros la corte occupa però la parte anteriore degli edifici. In certi casi (come a Nora, in Sardegna), le abitazioni sono di dimensioni più modeste e disposte irregolarmente l’una accanto all’altra: per quartieri di questo tipo è stata utilizzata la denominazione di kasbah.
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Nelle città-stato fenicie, interi settori cittadini erano adibiti a ospitare esclusivamente officine e laboratori. Numerosi forni per la ceramica attestano in alcuni siti la produzione di anfore e vasellame, mentre consistenti depositi di conchiglie del genere murex, da cui si ricavava la caratteristica porpora, resta a testimoniare l’attività di tintura dei tessuti. A Kition ( Cipro) sono invece presenti resti del cantiere navale, con rampe usate per tirare in secco le imbarcazioni. Consistenti sono gli impianti industriali che riguardano Mozia: in un’area di oltre 600 mq, che costituiva un vero e proprio quartiere, si sono trovati indizi di attività di concia e di tintura delle pelli e di fabbricazione di laterizi e di altri prodotti ceramici. Parti di strutture architettoniche riferibili a edifici rurali sono stati invece riportati alla luce a Malta e a Ibiza. Nella penisola iberica sono state infine rinvenute strutture interpretate come magazzino per lo stoccaggio dei prodotti commerciali datate al VII-VI secolo a.C.; il più notevole, dalle dimensioni di 15x11 metri, è quello di Toscanos, presso Malaga, costituito da tre locali interni e da una cantina.
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I santuari della Fenicia non avevano, di norma, un aspetto particolarmente monumentale. Di forma rettangolare, erano costituiti da un unico grande vano dove, su uno dei lati brevi, era collocato un piccolo altare, spesso preceduto da un pilastro isolato o betile che indicava la sacralità del luogo (dal punico bet el = ‘‘casa del dio”); lungo tutte le pareti interne correvano banchine destinate alle offerte. Il santuario cipriota di Kition, fondato nel IX secolo a.C. e dedicato ad Astarte, era diviso in navate da quattro file di colonne e aveva una cella. Le colonne sono una caratteristica anche del tempio di Kerkouane, detto appunto ‘‘casa delle colonne”, che comprende, oltre ad un vano centrale di 7x10 metri, una serie di ambienti circostanti. Peculiari dell’area fenicia (ma sviluppati anche in area coloniale) sono i piccoli sacelli cubici ispirati a modelli egiziani; quello presente nel tofet di Mozia ha invece nell’alzato colonne doriche e un altare incorporato. Due grandi santuari sono presenti anche a Monte Adranone, nel territorio di Agrigento, in Sicilia. Il primo, posto sull’acropoli, è una struttura rettangolare di 31x10 metri, divisa internamente in tre vani: quello centrale, scoperto, ospitava su apposite basi di arenaria due pilastri votivi (betili); nella facciata dell’edificio si combinavano elementi greci e punici. Il secondo tempio, di 21x8 metri, comprendeva due vani affiancati, nel maggiore dei quali sono stati trovati pilastri votivi e un’ara. Documentazione architettonica di grande interesse presenta anche il tempio di Antas, che sorge isolato presso Iglesias, in Sardegna, eretto nel VI secolo a.C. in onore del dio locale Sid.
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Poiché i fenici alternavano i riti dell’incinerazione e dell’inumazione, l’architettura funeraria mostra tombe ipogee a semplice fossa, a pozzo e a dromos. Presenti in Fenicia e poi in tutto il mondo punico, le tombe a pozzo – cioè quelle che si aprono ai lati o sul fondo di un modulo verticale d’accesso – risultano spesso notevolmente complesse, per la presenza di diverse camere sepolcrali; il pozzo d’accesso può misurare fino a 5 metri di profondità, ma in alcuni casi li supera di molto. Le tombe a dromos (testimoniate a Cartagine, Palermo, Sulcis, Tharros ecc.) hanno invece un corridoio a rampa che immette nella cella talora decorata. Veri e propri monumenti sepolcrali, gli unici che non attestino esclusivamente soluzioni ipogeiche, sono le costruzioni tombali di Amrit note col nome arabo di meghazil (‘‘fusi”); si tratta di mausolei a più piani, risalenti all’età persiana, costituiti da un tamburo circolare o poligonale e da una parte superiore a cupola o a piramide. Esempio di architettura funeraria famosa per le decorazioni pittoriche è la tomba di Gebel Mlezza, presso Kerkouane.
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Per la generale tendenza ai prodotti artigianali minuti – i più facilmente trasportabili ed esportabili – scarseggia nel mondo fenicio la documentazione di una statuaria in pietra.
Essa è inoltre rappresentata da opere singole, più che da una tradizione organica. In queste opere prevale nella fase più antica l’ispirazione egiziana, in quella più recente l’ispirazione greca.
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Da Tiro proviene un busto, risalente all’VIII-VII secolo a.C., che mostra un’iconografia tipicamente egiziana: un torso, con un ampio pettorale sul petto nudo e un gonnellino a pieghe, che conserva il braccio sinistro stretto a pugno per contenere un rotolo. A Sidone è emersa invece un’arte di influenza greca, ma di datazione arcaica (VI secolo a.C.).che ricorda i modelli greci dei kouroi. Dal tempio di Eshmun, sempre a Sidone, provengono alcune statuette di fanciulli, rappresentati in piedi, accovacciati, o nell’atto di giocare con un animale o con un piccolo oggetto; preziose le iscrizioni fenicie che appaiono sullo zoccolo che suggeriscono una datazione al VI-IV secolo a.C. La scarsezza di statuaria che caratterizza l’Oriente fenicio si ripete anche in Occidente. Della prima fase della produzione Cartagine ha restituito qualche testina femminile in pietra con tracce di puntura risalenti al VI secolo a.C., poi prevale una seconda fase di età ellenistica che mostra l’influsso greco ormai dominante, sicché la componente fenicia assume piuttosto l’aspetto di una variante provinciale. Testimonianze importanti di statuaria fenicia giungono dalla Sicilia, come la figura femminile in trono tra due sfingi, proveniente forse da Pizzo Cannita, fortemente mutilata nella parte superiore e nei fianchi, le cui sottili pieghe della veste suggeriscono un influsso ionico. Anche la Sardegna ha restituito notevoli testimonianze di statuaria punica, tra cui spicca l’immagine femminile divina del VII secolo a.C. scoperta a Monte Sirai: la testa è attentamente elaborata, mentre il corpo è trattato sommariamente. Nel 1983 è stata rinvenuta a Sulcis una coppia di leoni a grandezza pressoché naturale che si fa risalire al VI-V secolo a.C.; gli animali poggiano su basamenti a gola e sono inquadrati superiormente da una specie di architrave rettilineo, che prosegue posteriormente con un pilastro sagomato; i leoni sono accosciati, con la zampa anteriore allungata e la coda arrotolata in elegante spirale sul dorso. Anche l’Iberia offre una scarsa documentazione. Notevole è la figurina femminile divina in trono tra sfingi, alta 18 centimetri, eseguita in alabastro e rinvenuta presso Galera. La dea ha il corpo coperto da un velo che le ricade sulle spalle e indossa una tunica a fitte pieghe; sulle braccia sostiene un grande bacile; i seni forati indicano che si tratta di una raffigurazione della dea della fecondità.
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Questa statuetta di alabastro che rappresenta una dea in trono è un’opera particolarmente elegante e raffinata. Il capo della dea è coperto da un velo che ricade sulle spalle lasciando scoperte le grandi orecchie. Il volto, dalle guance piene, è caratterizzato da grandi occhi allungati, sormontati da sopracciglia fortemente arcuate. Il naso è stretto e diritto, la bocca è piccola, con le labbra serrate.
La dea indossa una veste a fitte pieghe riccamente decorata sulla scollatura e sul bordo inferiore. I seni della dea, forati e comunicanti con un’apertura alla sommità della testa, poggiano sul bordo di un ampio bacile che la dea sostiene sulle braccia. Ai lati si dispongono due sfingi i cui volti presentano lineamenti affini a quelli della dea. Anche le zampe dei due animali mitici sono simili ai piedi nudi della dea che sporgono dall’orlo della tunica.
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Nell’ottobre 1979, una missione archeologica formata dai componenti la cattedra di Antichità Puniche dell’Università di Palermo ha portato alla luce sull’isola di Mozia la statua in marmo di un giovane uomo, alta allo stato attuale 1,81 metri; ma poiché manca dei piedi era originariamente più alta. Manca anche delle braccia, delle quali si può ricostruire la posizione: il destro, alzato, doveva forse impugnare una lancia o una corona di fiori o di fronde; il sinistro è invece piegato su se stesso e la mano, con le dita divaricate, sprofonda nel fianco, sopra la veste fenicio-punica fluttuante e pieghettata fittamente, trattenuta al petto da una fascia che originariamente doveva essere di cuoio o di porpora, uguale a quella che portavano i sacerdoti. Per questo, tra le altre ipotesi, il giovane personaggio è stato identificato con il dio di Tiro Melqart. La testa, dal volto purtroppo rovinato, è volta leggermente a sinistra e la fronte è incorniciata da una triplice fila di riccioli rotondi, detti a ‘‘lumachella”. La maggior parte degli studiosi data la statua al 470-460 a.C., certamente commissionata da facoltosi cittadini della colonia fenicia a un artista greco di formazione ionica: il ‘‘dio di Mozia” è il simbolo dunque dell’incontro tra la civiltà greca e la fenicio-punica, le due componenti che per secoli hanno determinato la storia del Mediterraneo.
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Nel mondo fenicio il rilievo in pietra ha due realizzazioni di spicco: le stele e i sarcofagi. Per la natura tipica dell’area e della politica locale, manca il rilievo storico ampiamente presente in Egitto e in Mesopotamia.
La stele è il genere artigianale più diffuso nell’Occidente fenicio; il sarcofago, genere d’arte di provenienza egiziana, subì nel V-IV secolo a.C. l’influsso greco ed ebbe una notevole produzione a Cartagine.
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Tra gli esemplari rinvenuti in Fenicia va ricordata la stele di Yehaumilk (V secolo a.C.) proveniente da Biblo. Ha la sommità arrotondata e presenta un re in piedi (di età persiana a giudicare dal copricapo cilindrico, dalla barba e dai lunghi capelli) che offre una coppa a una dea seduta in trono che ha sul capo il disco egiziano con due corna; in mano tiene uno scettro alto in forma di papiro. Quest’iconografia ritorna su altri frammenti di stele rinvenute in altre località orientali (Beirut, Sidone, Burg esh-Shemali). Migliaia di stele caratterizzano il patrimonio di Cartagine legato al tofet. Si tratta per la maggior parte di pilastri che hanno al centro delle nicchie con betili o pilastri, oppure il più famoso simbolo del mondo punico, quelle detto ‘‘di Tanit”, la schematizzazione di una figura femminile. Sono presenti nelle stele anche motivi ispirati al mondo greco come la colonna ionica o dorica, il delfino, i fiori. Una vera rivelazione, per la storia delle stele fenicie, sono le scoperte di Mozia che hanno restituito migliaia di esemplari. Qui prevalgono le immagini umane, figure femminili e maschili frontali e di profilo, nonché ‘‘idoli a bottiglia” e betili, questi ultimi presenti anche a Nora. Il maggior centro di produzione di stele in Sardegna è tuttavia Sulcis (Sant’Antioco), con oltre 1500 esemplari, in cui prevalgono le figurazioni umane e animali.
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Il più antico e celebre sarcofago fenicio è quello del re Ahiram, databile al XIII-XII secolo a.C. I sarcofagi di pietra sono un genere d’arte di provenienza egiziana, non solo nell’ispirazione ma anche nella derivazioni degli esemplari; nel V e nel IV secolo si sviluppò tuttavia una fase di tipo grecizzante testimoniata da alcune decine di esemplari provenienti da Sidone: la modellatura del corpo è appena accennata o manca, mentre la testa è trattata in modo totalmente greco. Da Cartagine provengono due esemplari pitturati con coperchio in marmo; uno rappresenta un sacerdote barbuto dalla lunga veste a pieghe che sorregge una coppa; sull’altro c’è un’immagine femminile in tunica avvolta da due grandi ali che si sovrappongono. Sarcofagi di varie fogge e ispirazione sono stati trovati in vari siti della costa africana, a Malta e in Sicilia, mentre mancano finora in Sardegna. La documentazione riprende invece in Iberia con i sarcofagi delle necropoli di Cadice risalenti al IV secolo a.C.
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L’argilla è la materia prima meno costosa e più facile a manipolare presente in natura. Essa richiede solo un processo di depurazione e di cottura per ottenere oggetti lavorati a mano, oppure eseguiti al tornio o a stampo. Con questi tre sistemi tecnici le terrecotte ebbero in Oriente una tradizione millenaria, e presso i fenici alcune tipologie assunsero un ruolo peculiare, in accordo con la destinazione - funeraria, cultuale, votiva - che furono chiamate a svolgere.
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I tipi più antichi di terrecotte figurate fenicie, che goderanno di grande favore anche nelle colonie occidentali, specie a Cartagine, sono rappresentazioni di figure femminili che si premono i seni, di gestanti (pregnant women) e immagini di Bes. Il centro di questa produzione fu soprattutto Cipro dove, dall’VIII secolo a.C., la presenza fenicia si è ormai consolidata. La Sicilia fenicio-punica, insieme a Ibiza, presenta la serie più ampia di terrecotte a stampo di tipo greco, come le teste-bruciaprofumi. In Sardegna sono documentate figurine votive maschili (spesso itifalliche) nelle varietà a corpo campaniforme e a corpo ovoidale, presenti anche a Ibiza che, dal VI al II secolo a.C., fu centro di una produzione di massa a stampo. Le terrecotte iberiche rappresentano però anche figure femminili piuttosto omogenee, a braccia aperte o ripiegate sul petto, adorne di alta tiara e collane a cordone. Né mancano placchette quadrangolari o circolari con motivi di valore funerario o simbolico a rilievo o incisi al negativo.
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Nella terminologia archeologica si usa il termine ‘‘protomi” per indicare le raffigurazioni plastiche (quasi esclusivamente femminili) che comprendono il volto e la parte superiore del busto, abitualmente senza aperture, e ‘‘maschere” per quelle (nella quasi totalità dei casi maschili) limitate al volto, con aperture passanti in corrispondenza degli occhi e spesso anche della bocca. Le protomi, che rappresenterebbero delle divinità, vengono classificate tra gli oggetti votivi nei santuari e fra le immagini tutelari del defunto nelle tombe; le maschere erano invece indossate da sacerdoti o devoti durante cerimonie e rappresentazioni religiose. L’uso di questo tipo di terrecotte, fabbricate con la tecnica del vasaio e spesso con l’aggiunta del colore, è attestato in tutto il mondo fenicio, sia orientale sia occidentale. Le maschere virili e grottesche sono di antica attestazione a Cartagine (dal VII secolo) distinte nel tipo ‘‘negroide”, di cui rimangono pochi esemplari, e ‘‘ghignante”: queste ultime presentano spesso fori in cui venivano inseriti gioielli. Molte maschere, e specialmente quelle sarde di San Sperate, hanno decorazioni a stampo (rosette, sole ecc.) che ricordano i gioielli.
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I gioielli rappresentano uno degli aspetti più caratteristici dell’artigianato fenicio e punico e, per alcuni di essi, si può parlare sicuramente di arte. La lavorazione dei metalli preziosi, favorita dal commercio mediterraneo, è legata a una lunga tradizione artistica che antecede i fenici nell’area siro-palestinese.
La precisa definizione cronologica di questo genere di produzione rimane difficile, sia per la fondamentale omogeneità che rende persino problematica la distinzione tra esemplari prodotti in Oriente ed esemplari occidentali, sia per la tesaurizzazione dei gioielli che potevano essere conservati per molte generazioni, rimanendo sempre in uso.
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I gioielli fenici, come del resto quelli di tutti gli altri popoli e culture, erano realizzati per lo più in oro, il metallo che meglio si conserva nel tempo. Grande impiego aveva anche l’argento, più deperibile e quindi meno documentato, specie per l’esportazione verso quei paesi, come l’Egitto, che ne erano del tutto privi. Alcuni ornamenti erano anche di bronzo; largo impiego trovarono le pietre dure pregiate (ematite, lapislazuli, diaspro, corniola, cristallo di rocca ecc.) e il vetro policromo. Pietre e vetro furono usate in diversa foggia soprattutto per collane e bracciali, spesso in combinazione con i metalli preziosi. Quanto alla tecnica prevale, specie in epoca più antica il lavoro a sbalzo, a granulazione e a filigrana. Nella tematica prevalgono motivi di valenza magico-religiosa, specie di derivazione egiziana. Si preferivano comunque soggetti fitoformi (la palma, il fiore di loto, la rosetta), zoomorfi (scarabei, sfingi, leoni, falchi) e geometrici, mentre quelli umani non sono frequenti, con l’eccezione della figura della protome femminile, simbolo della fecondità.
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Lo scrigno di una famiglia ricca di Sidone, o cartaginese, o iberica (i gioielli erano portati sia da donne sia da uomini) conteneva orecchini, pendenti, anelli, bracciali, collane: fattura e disegno avevano una loro peculiarità determinata dalla tradizione locale. Per l’Oriente del VII-VI secolo si possono citare come esempio gli orecchini in oro o in argento a croce ansata, dai bracci stretti ed equilateri che ricorda il noto simbolo egiziano della vita (ankh), o gli anelli con costone arrotondato (a cartouche), che richiama il cartiglio. In tutto il mondo fenicio, la gioielleria era caratterizzata da pesanti orecchini a goccia, pendenti a cestello o a edicola; collane con vaghi di diverso materiale, astucci porta amuleti di varie fogge, larghi anelli crinali e leggeri anelli da dita in filigrana, medaglioni e borchie con guarnizioni granulari ecc. La documentazione sarda di Tharros appare la più rilevante per qualità e quantità: bracciali lavorati a sbalzo; pesanti collane a cordone che appaiono rappresentate anche nelle statuette di terracotta; anelli col ‘‘segno di Tanit”.
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L’Iberia, fonte dei metalli preziosi, ci ha restituito, tra l’altro, due importanti complessi di gioielli che possono essere inseriti, per il repertorio ornamentale, nell’ambito dell’arte orientaleggiante, ove l’ispirazione principale della corrente fenicia si amalgama con quella greca, ed etrusca. Sono il cosiddetto tesoro del Carambolo e quello di Ebora. Il tesoro del Carambolo è costituito da ventun pezzi d’oro, tutti di grande novità per ricchezza, originalità di forma, e decorazione puramente geometrica. Comprende due pettorali; due bracciali; otto piastre di varia grandezza, decorate a fasce alternate di semisfere e rosette separati da fili circondati; otto piastre con decorazioni di semisfere e fili di anelli alternati; una collana (il pezzo più significativo) costituita da una doppia catena terminante con un passante bigoncio dal quale si dipartono otto catenelle che sostengono sette grossi pendenti. Il tesoro di Ebora è costituito da un centinaio di piccoli pezzi d’oro, collegabili in un grande diadema snodato con appendici simmetriche triangolari, e da collane, bracciali e pendenti vari in cui appare prevalente la tecnica a granulazione.
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Gingilli traduce la parola athyrmata con la quale i greci indicavano piccoli oggetti (preziosi, semipreziosi o di valore intrinseco trascurabile) di fabbricazione fenicia costituiti soprattutto dagli scarabei e dagli amuleti, ma che comprendevano anche i piccoli ossi lavorati o le figurine in pasta di vetro. Oggi potremmo chiamarli ‘‘arti minori” ma questa classificazione è vaga perché gli athyrmata comprendevano anche la ‘‘gioielleria minuta”. Il centro di fabbricazione più importante fu Tharros, in Sardegna, tra il VI e il III secolo a.C. Gli scarabei, che nel mondo egiziano avevano un significato di simbolo legato ad una forma rigenerativa di vita terrena o ultraterrena, quando ‘‘divennero” athyrmata persero la loro funzione religiosa e, montati in oro o in argento, assunsero valore di amuleto in tutta l’area mediterranea (dalla Grecia, all’Etruria, alla Magna Grecia e, naturalmente, alle colonie fenicie). I materiali impiegati furono soprattutto la steatite, ma anche pietre dure come il diaspro, l’agata, l’onice ecc. Anche molti degli altri amuleti ricordano temi e motivi di tradizione egiziana (l’occhio di Horo, Iside, Anubi, Bes) ma ci sono anche simboli che si sono evoluti proprio nella cultura punica, come il cosiddetto ‘‘segno di Tanit”. Molti amuleti hanno connotazioni zoomorfe (la lepre, il gatto, il falcone, la scimmietta), non mancano esempi di raffigurazioni di parti del corpo (piedi, mani e braccia).
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Gli avori e gli ossi costituiscono una delle più pregevoli categorie dell’artigianato artistico fenicio e punico. L’avorio, prezioso e raro, di non facile reperimento ma presente in Asia Minore e in Africa, fu presto sostituito - o comunque parallelamente usato - dall’osso, meno prezioso ma di facile acquisizione.
La consuetudine ormai acquisita di questa categoria include quindi nel termine ‘‘avori” anche i più modesti ossi.
[14611]
L’intaglio eburneo, diffuso in Medio Oriente già nell’età del Bronzo, raggiunse in Fenicia esiti di grande abilità tecnica specie intorno all’VIII secolo a.C. La produzione comprendeva statuette a tutto tondo; manici di specchi, di ventagli o di utensili; placchette per arredo con motivi fitoformi (palmette e fiori di loto) o zoomorfi (grifone, sfinge, vacca, ariete cane) da applicare su altari, troni, letti ecc.; pissidi; spilloni; scatole per gioielli, unguenti o cosmetici; bottoni e rosette; cucchiai, scacchiere e tavolette da gioco ecc. I lotti più notevoli di età fenicia sono quelli di Nimrud (in Assiria, sul Tigri), Samaria (dove era il palazzo di re Acab d’Israele), Arslan Tash (residenza del re assiro Tiglatpileser III) e Khorsabad (capitale assira di Sargon II), tutti centri geograficamente esterni alla Fenicia vera e propria, ma la cui produzione appare una irradiazione sia diretta (importazione del prodotto finito o degli artigiani) che indiretta (bottini di guerra). Anche dalle tombe reali di Salamina di Cipro provengono avori intagliati di notevole fattura. La documentazione di Cartagine, e in tutto l’Occidente, appare meno consistente: mancando il ‘‘Palazzo” sede del potere, l’uso degli avori costituiva solo uno status symbol e un esotismo; la produzione era quindi limitata ai piccoli oggetti, agli ex voto, ai contenitori soprattutto per la cosmesi femminile.
[14621]
Gli avori di Nimrud, centro assiro non lontano da Mossul, sono stati divisi in due gruppi, classificati dal nome dei relativi archeologi che li hanno portati alla luce nel secolo scorso: il gruppo Layard e il gruppo Loftus. Il primo proviene dal Palazzo del re Assurnasirpal II (883-859 a.C.) ed è costituito da numerosissimi pezzi che costituivano pannelli per letti e di un trono, nonché esemplari a tutto tondo. I pannelli sono lavorati a basso e alto rilievo, tra i quali ricordiamo la ‘‘donna alla finestra”, il giovane che stringe in mano un fiore di loto; il leone che divora un negro in un campo di papiri, arricchito da intarsi di lapislazzuli, cornalina e parzialmente ricoperto da una lamina d’oro. Il gruppo Layard sembra essere stato portato a Nimrud da Sargon II (721-705 a.C.) come bottino di guerra da Hamah (Siria). Si tratta di centinaia di esemplari che ripetono il repertorio Loftus e che sono stati rinvenuti nel cosiddetto ‘‘Palazzo bruciato”, iniziato a costruire da Sargon nel 712 ma non ancora ultimato alla sua morte.
[146211]
Questa placchetta d’avorio intagliata a giorno decorava probabilmente la spalliera di un letto. E’ rappresentato un grifone alato nell’atto di afferrare un frutto con il becco spalancato. La superficie del corpo leonino, dalle zampe possenti, è levigata mentre le ali sono decorate da linee incise. Il grifone sembra arrampicarsi su un albero dai rami contorti, ricchi di fiori, rappresentati con il tipico motivo “ a palmetta”. Tre alti riccioli che si ergono sulla testa dell’animale assumono l’aspetto di una corona, altri tre ricadono sulle spalle.
Questa placchetta costituisce un raffinato esempio dell’alto livello qualitativo raggiunto dai Fenici nell’arte dell’intaglio eburneo.
[1471]
La metallurgia del bronzo conosce nel mondo fenicio e punico due categorie: la piccola plastica, che ha i suoi antecedenti in Siria e in Palestina e che è quindi indizio della più antica frequentazione fenicia in Occidente, e i cosiddetti rasoi votivi, legati strettamente a Cartagine, che evidenziano l’autonomia di scelte artigianali del mondo occidentale rispetto alla madrepatria.
[14711]
Non ci sono giunte molte figurine in bronzo di produzione fenicia e la loro tipologia è piuttosto circoscritta: la divinità combattente, il dio in trono, il personaggio incedente e benedicente, la donna con pesanti decorazioni ad anelli. Determinante è la produzione di Cipro (dove si fabbricano anche arredi cultuali, tripodi e candelabri), che accoglie derivazioni della tradizione siro-palestinese ed egiziana per poi trasmetterla in Occidente. La documentazione siciliana si limita al rinvenimento del 1955 nelle acque di Selinunte di una statuetta di bronzo alta 36 centimetri, che riproduce il tipo della divinità combattente, forse Reshef. I rinvenimenti della Sardegna, che risalgono a un’epoca di poco posteriore a quella del bronzetto di Selinunte, provengono dal nuraghe Flumenelongu (Alghero), da Olmedo, che ha restituito statuine di personaggi benedicenti, e dal pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino che mostra una figura seduta. Di probabile fattura locale sembrano invece i due personaggi seduti, dei quali uno versa il liquido da una brocca in una patera che tiene sulle ginocchia, l’altro impegnato a suonare la cetra. La penisola iberica ci ha restituito, tra l’altro, una bella figurina di una divinità femminile seduta, alta 16,5 centimetri e letta come Astarte, che riporta sulla base un’iscrizione fenicia non più tarda del VII secolo a.C.
[147111]
Conservata nel Museo Archeologico Regionale di Palermo, la figura maschile porta un copricapo conico terminante con una protuberanza a bottone e con ai lati due alette che sono probabilmente le piume di struzzo stilizzate della corona di Osiride. Due profonde cavità, riempite probabilmente in origine con pasta vitrea segnano le cavità orbitali, mentre le orecchie e il naso sono molto pronunciati. Lo stato di corrosione della statuetta non consente di stabilire se il busto e le braccia siano nudi, ma dalla cintola all’inguine conserva tracce di un gonnellino. Il braccio destro è levato all’altezza del capo, la mano è chiusa a pugno e doveva contenere una mazza; il sinistro tende l’avambraccio in avanti e manca della parte terminale della mano. Le gambe, con la sinistra portata in avanti, hanno piedi con dita ben marcate e le piante conservano due protuberanze, utilizzate probabilmente per fissare la statuetta. Prodotto probabilmente in Oriente nel X-IX secolo a.C., il bronzetto siciliano documenta la frequentazione fenicia in Occidente in quei secoli.
[14721]
I cosiddetti ‘‘rasoi punici” in bronzo sono un esempio tipico dell’autonomia di scelte artigianali che il mondo fenicio occidentale compì rispetto alla madrepatria orientale, anche se esempi di rasoi rituali sono largamente presenti nella cultura egiziana. Rinvenuti nei principali contesti punici, dall’Iberia, al Nord Africa, alla Sardegna, essi costituirono – dal VII al II secolo a.C. – gli elementi qualificanti di una pietà religiosa funeraria, probabilmente riservata a una ristretta cerchia della società. Posti accanto al cadavere, i rasoi erano simboli della depilazione purificatrice cui il defunto era stato sottoposto; garanzia quindi di purezza, i rasoi dovevano facilitargli il passaggio nell’altro mondo. Il corpo dei rasoi punici è sottile e lungo, di forma generalmente rettangolare; i lati maggiori sono per lo più rettilinei e tra loro paralleli; uno dei lati minori si allarga in forma si semiluna, il lato opposto si restringe e si prolunga plasticamente a formare il collo di un cigno dal becco ben evidenziato. Le due facce dello strumento sono incise con tratti geometrici o con rappresentazioni figurative, di un certo valore artistico, che rimandano alla tradizione magica egiziana (Iside, Horo), a raffigurazioni di divinità fenicie (Melqart, Reshef) e a rappresentazioni di animali (cigno, cinghiale, toro, grifone, leone ecc.) e di elementi vegetali (palmetta, fiore di loto, rosetta). Le dimensioni dei rasoi oscillano da una lunghezza massima di 21 centimetri a una minima di 4. Il loro principale centro di produzione fu Cartagine.
[1481]
Della pittura fenicia ci sono pervenuti pochi resti e quasi tutti di epoca ellenistica. Manca anche una produzione ceramica decorata, come accade invece in ambito greco, che supplisca all’assenza di testimonianze pittoriche. Quello che ci è giunto sono soprattutto decorazioni dipinte su pareti di tombe che fanno supporre l’esistenza di pitture anche sulle pareti delle case dei vivi.
[14811]
La pittura parietale funeraria in Fenicia è documentata in alcune tombe funerarie di Sidone databili al III secolo a.C. e mostrano motivi in prevalenza vegetali: ghirlande, fiori, petali intrecciati in cui dominano il colore rosso e verde. In Occidente sono state individuate camere funerarie dipinte a Capo Bon e nei pressi di Kerkouane dove è famosa una tomba della necropoli di Gebel Mlezza del IV-III secolo a.C. La camera, cui si accede da un pozzo, è decorata su tre lati con ocra rossa, stesa direttamente sulla parete rocciosa. A un’altezza di 80 centimetri dal suolo corre una fascia di triangoli uniti ai vertici, che produce un effetto di decorazione a rombi. Al di sopra, sulla parete a sinistra, è dipinta una costruzione su basamento a gradini, con un altare (alla sua sinistra) e la figura di un gallo (alla sua destra). La parete opposta è decorata alla stessa maniera, ma manca la figura del volatile. Sulla parete di fondo è delineata una città schematizzata con edifici merlati; alla sua sinistra c’è una nicchia al cui interno è tracciato il cosiddetto ‘‘simbolo di Tanit” sovrastato da un crescente lunare; a destra della città appare di nuovo la figura di un gallo. Sul soffitto a spioventi appaiono i resti di una decorazione lineare (non colorata) a triangoli e rombi uguale a quella eseguita a colore lungo le pareti.
[14821]
L’uomo, fin dagli albori della storia, ha identificato nell’uovo il principio vitale, la continuità generatrice, e le grosse uova di struzzo dovevano essere un simbolo sacro per eccellenza: se ne sono trovate nelle tombe egizie e mesopotamiche del III millennio a.C. e anche nell’ambiente miceneo del II. In ambito punico le uova di struzzo furono una vera e propria moda e non solo nell’uso funerario: in Spagna ne sono state trovate anche in abitazioni civili. Erano beni di lusso il cui uso si estese per un periodo molto ampio compreso tra il VII e il II secolo a.C. Le uova erano dipinte con motivi ornamentali di tipo geometrico o rappresentavano maschere con grandi occhi eseguiti in nero, lunghe ciglia attentamente disegnate, capelli resi in nero sulla fronte in un festone o una serie di spirali, e guance indicate in rosso. La pittura del volto spiccava bene sul fondo che poteva avere la lucentezza dell’avorio o l’opacità del gesso. Alcuni gusci, perforati alla sommità o tagliati a metà fungevano da recipienti. Il più importante lotto di uova di struzzo dipinte di tutto l’Occidente punico proviene dalla necropoli di Villaricos, sulla costa orientale spagnola.
[1492]
La letteratura storico-artistica chiama ‘‘fenici” i vetri preromani, anche se la tecnologia del vetro affonda le sue origini in Mesopotamia e poi in Egitto. Da qui essa sarebbe rifluita intorno al VII-VI secolo a.C. verso i centri costieri levantini e fenici in particolare.
È tuttavia indubbio che l’industria vetraria fenicia assurse a grande perizia tecnica, favorita dalle particolarità chimiche delle sabbie fenicie particolarmente adatte alla vetrificazione.
[1491]
La lavorazione del vetro giunse in Fenicia dall’Egitto e dal Medio Oriente, ma dal VII-VI secolo furono le botteghe fenicie a monopolizzarne la produzione. Essa comprendeva vasetti o unguentari di vario tipo che si ispiravano alle forme vascolari greche (alabastra, aryballoi, amphoriskoi, oinochoai) ma anche dalle forme antropomorfe, coppe, pendenti (i più famosi sono quelli a teste demoniache barbate), vaghi circolari e allungati per collane, amuleti e tutti quei piccoli gingilli detti dai greci athyrmata. Il colore naturale del vetro è l’azzurro o azzurro-verdastro ma i fenici vi aggiunsero una vivace decorazione ‘‘a fili” unendo alla pasta vitrea di base ossidi minerali e metallici, la cui diversa percentuale dava colorazioni diverse: ossido di rame per l’azzurro, ossido ferroso per il verde, ossido di stagno per il bianco, composti di antimonio per il giallo ecc. Molto usata, specie per i pendenti, era la tecnica a maiolica, costituita da una pasta silicea quasi pura con smalto vetroso monocromo o policromo. In Fenicia il centro vetrario più importante fu Sidone, poi emersero Cipro, Mozia in Sicilia, Nora e Tharros in Sardegna e la stessa Cartagine; vetri fenici furono prodotti anche in Iberia (Ibiza). I romani continuarono quella tradizione artigianale, documentata soprattutto ad Aquileia (I-II secolo d.C.) da cui poi raggiunse Venezia. I ‘‘vetri veneziani” ancora oggi famosi in tutto il mondo, devono quindi molto agli antichi maestri fenici.
[1502]
La ceramica vascolare fenicia non può sostenere un confronto estetico e qualitativo con la ben più appariscente produzione greca. La ceramica delle città-stato, sotto l’influenza dell’artigianato siriano e palestinese, mostra una certa tendenza alla decorazione, mentre quella ‘‘coloniale” si volge con maggior interesse alla forma d’uso.
Dal VII secolo ogni regione occidentale elabora una tipologia propria, autonoma e peculiare.
[1501]
Le ceramiche orientali sono rivestite di uno strato di smalto rosso o nero e decorate in modo geometrico con entrambi i colori; ci sono però anche ceramiche grezze ornate con vernice bianca o del tutto prive di decorazione. La loro funzione principale era quella domestica, commerciale e funeraria. Esiste un vasto repertorio di tazze, con e senza piede, dalle pareti emisferiche; piatti profondi dall’orlo gonfio o solcato, ampi bacini a due o quattro anse, mortai con orlo semicircolare. I vasi sono per lo più biconici con pancia ovoidale (utilizzati anche come ossuari), le brocche hanno pancia semisferica con collo carenato e breve orlo gonfio, spesso espanso orizzontalmente. Caratteristiche le cosiddette ‘‘fiasche da pellegrino” con pancia asimmetrica e collo lungo, fornite di anse. I prodotti di matrice occidentale si differenziano, secondo le aree geografiche, sia nel tipo di argilla impiegata (a esempio il caolino della Sardegna), sia nella tipologia delle forme. Il riscontro più evidente è dato dalle anfore le cui forme si fanno strozzate al centro, fino ad assumere, soprattutto in Sicilia e in Sardegna, la forma del siluro.
[161]
Si fa abitualmente distinzione tra fenici e punici in relazione a una differenza puramente geografica. Fenicio sarebbe l’abitante delle città-stato della madrepatria orientale; con punico si intende invece il fenicio immigrato in qualche regione del Mediterraneo occidentale come la Sicilia, la Sardegna, il Nord Africa. Col progredire degli studi la dimensione geografica si è dimostrata tuttavia inadeguata perché si sono scoperte originali specificità culturali non solo tra le città del Mediterraneo orientale e quelle del Mediterraneo occidentale, ma anche tra i punici della Sardegna e quelli del Nord Africa, della Sicilia, della penisola iberica. Un substrato comune, quindi, che ha mantenuto nel tempo fondamentali analogie ma che ha anche sviluppato significative diversità a seconda dei luoghi.
[1611]
La densità del popolamento e degli insediamenti sulla costa fenicia ha determinato grandi sconvolgimenti e deteriorato le fasi più antiche. I centri fenici storicamente più importanti sono anche quelli maggiormente compromessi dalla sovrapposizione di monumenti grandiosi: dall’impianto delle città ellenistiche e romane ai castelli crociati e alle città arabe. La possibilità di ricerca sul terreno ne è stata compromessa e in certi casi non è possibile valutare, neppure in trama, le opere edilizie per le quali le antiche città fenicie andavano famose.
[16111]
Biblo occupa un promontorio sul mare, circa 37 chilometri a nord di Beirut. L’area archeologica ha un’estensione di circa cinque ettari in leggero pendio verso il mare; al centro, da una profonda cavità nella roccia, sgorga una fonte che è stata elemento essenziale nella storia dell’abitato. L’urbanizzazione di Biblo risale al III millennio a.C., ma la città si sviluppò a partire dal 2700 a.C. grazie ai rapporti con l’Egitto facilitati da due porti, a nord e a sud della città. Attorno al 2300-2200 a.C. la città fu distrutta in concomitanza con l’invasione amorrea, ma presto risorse riacquistando rapidamente la propria prosperità economica accompagnata da una nuova fioritura urbana. È di questo periodo la ricostruzione della cinta muraria in pietra con una serie di contrafforti quadrati all’interno e accesso principale a nord-est, del tempio di Baalat e l’impianto di nuovi templi come quello del dio maschile Reshef (o degli obelischi). Ripresero allora anche i rapporti con l’Egitto testimoniati dai frequenti doni dei faraoni (oreficeria) ritrovati nelle tombe dei re di Biblo. Questa necropoli reale resterà in uso fino al IX secolo e qui venne rinvenuto il sarcofago di Ahiram. In questo periodo, oltre che con l’Egitto i commerci della città si aprirono anche all’Egeo e verso la Mesopotamia. Intorno al 1200 a.C. Biblo, come l’Egitto e il Vicino Oriente asiatico, venne coinvolta (ma non travolta) dalle vicende dei popoli del mare, a cui seguì, nell’XI-VIII secolo a.C. un periodo di indipendenza e un successivo periodo di dominazione assira e babilonese, del quale pochissimo è archeologicamente noto. Grande fervore edilizio si ebbe invece sotto la dominazione persiana: gli edifici pubblici furono restaurati e ampliati, specie il vetusto tempio della Baalat di Biblo, e in varie riprese furono rafforzate e ricostruite le strutture difensive con l’innalzamento di mura e terrapieni esterni.
[16121]
Sidone è stata localizzata su un piccolo promontorio, con file di isolette lungo la costa. In mancanza quasi completa di ritrovamenti dell’area urbana, si cerca di ricostruire il contesto di cui la città faceva parte grazie ai siti venuti alla luce nell’immediato entroterra. Kafer-Giarra, 10 chilometri circa ad est di Sidone, e Majdalouna, a nord est, hanno restituito numerose tombe del Bronzo Medio e del Bronzo Tardo scavate nella roccia, con pozzo e camera; i corredi comprendevano scarabei egiziani, sigilli siriani, armi, paste silicee, ceramiche di botteghe locali. Dakerman, a sud, è una vasta necropoli con tombe di tipologie diverse che è rimasta in uso dal XIV secolo a.C. al I secolo d.C. Le necropoli ‘‘reali”, che si distribuiscono sulla linee delle colline nell’entroterra di Sidone, hanno restituito alcuni sarcofagi e corredi con manufatti di pregio di botteghe diverse, ma settori interi di necropoli sono stati cancellati dall’attività dei cavatori di pietra. Forse la città fu sede di una residenza ufficiale assira; certamente ospitò un governatore persiano del cui palazzo rimane un capitello a doppia protome taurina simile a quelli rinvenuti a Persepoli. Nel 1914 gli scavi hanno riportato alla luce, alla periferia sud, uno dei quartieri industriali della città, riservato alla tintura dei tessuti: il cumulo dei rifiuti di lavorazione ha ancora l’altezza di 40 metri. A poca distanza da Sidone, il tempio di Eshmun si distende su terrazze a vari livelli che appartengono al periodo della dominazione neobabilonese (prima metà del VI secolo a.C.); al periodo persiano risale il riadattamento di tutto il santuario e la costruzione del massiccio podio (60x40 metri). Fra il V e la seconda metà del IV secolo al santuario si aggiunsero nuove strutture con ricca decorazione a rilievo; nel periodo ellenistico fu aggiunta la piscina di Astarte ricca di fregi scultorei.
[16131]
Della Tiro fenicia non è conservato quasi nulla. Ristrutturata in forma di città ellenistica è stata poi ricoperta da imponenti edifici romani, bizantine e crociati; inoltre alcune parti della città sono oggi sotto il livello del mare. Il sito fu occupato a partire dal III millennio a.C., e i dati archeologici coincidono con la tradizione riportata da Erodoto che voleva la città e il tempio di Melqart fondati intorno al 2750. Il sito fu poi abbandonato fra il 2000 e il 1600 a.C. Secondo la descrizione degli storici e dei geografi antichi, l’abitato di Tiro era impiantato su una linea di scogli e isolotti lungo la costa, a circa 600 metri dalla terraferma. La città era servita da due porti: il ‘‘sidonio” a nord, corrispondente al porto attuale, e ‘‘l’egizio” a sud, abbandonato in epoca bizantina. Le indagini sottomarine condotte al porto Sud hanno studiato un articolato complesso di moli, banchine e bacini risalenti però all’età ellenistica. Il tempio principale della città, dedicato a Melqart, fu edificato nel X secolo a.C. dal re Hiram sull’isoletta settentrionale, la maggiore, spianando i ruderi di un tempio precedente: avrebbe avuto (secondo Giuseppe Flavio, 37-95 d.C.) la facciata preceduta da due stele o colonne, una d’oro e l’altra di smeraldo che, se fossero ancora al loro posto si troverebbero probabilmente sotto le strutture della basilica dei crociati. Il tempio doveva avere strette analogie con quello di Gerusalemme, alla cui costruzione presero parte gli artigiani di Hiram. Un altro tempio, dedicato a una divinità maschile che i greci identificarono con Zeus Olimpio, era sull’isola più meridionale di Tiro. Hiram unì con una colmata lo spazio di mare tra le due isole ottenendone una grande area aperta destinata alle attività pubbliche, ma anche così l’intera superficie insulare non superava il chilometro quadrato. La città si estendeva però anche sulla terraferma, 6 chilometri più a sud, con il tempio dedicato ad Astarte. Tiro aveva solide fortificazioni ed era considerata inespugnabile: Alessandro Magno la tenne sotto assedio per nove mesi e per farla cadere nel 332 a.C. dovette costruire un molo foraneo.
[1622]
Posta nel punto del Mediterraneo in cui venivano a sovrapporsi le sfere di influenza culturali dell’Egeo e del Vicino Oriente, Cipro, con i suoi ricchi giacimenti di rame, fu la prima zona di espansione dei fenici, particolarmente dei fenici di Tiro a cui le città-stato dell’isola furono soggette fin dal X secolo a.C.. Nel 707 Cipro cadde sotto il dominio assiro ma i fenici continuarono a svolgervi liberamente i loro commerci, come del resto fecero con gli egizi che la presero nel VI secolo a.C. e con i persiani ai quali passò nel 525 e che la tennero fino ai tempi di Alessandro Magno.
[1621]
I contatti di Cipro con la regione siro-palestinese risalgono al II millennio a.C. e si mantennero anche quando l’isola, a causa del continuo afflusso di coloni greci, entrò nell’orbita greca intorno all’XI secolo a.C. Un mito racconta che la città di Kition (la moderna Larnaca) sarebbe stata fondata da Belo, re dei sidoni, che aiutò l’acheo Teucro a prendere possesso di Salamina. Ma, a parte la leggenda, quando ebbe inizio la presenza fenicia a Cipro? Testimonianze letterarie affermano che all’inizio del suo regno Hiram I re di Tiro dovette domare una rivolta del popolo di Kition: se l’informazione è corretta, la città era soggetta a Tiro già nel X secolo a.C. Della fine del IX secolo a.C. è un grande tempio, delle dimensioni di 33,5x22 metri, dedicato a una divinità femminile, probabilmente Astarte – come si deduce dall’iscrizione frammentaria presente su una coppa fenicia – venerata anche a Pafo Vecchia (Palaipaphos). Il tempio, oltre a essere un luogo di culto, fungeva anche da rifugio per i mercanti fenici e da mercato dei loro prodotti molti dei quali (le figurine in terracotta o gli incensieri, ad esempio) servivano proprio da offerta alla divinità. Grazie ai fenici fiorì a Cipro la lavorazione degli arredi in avorio intagliato con la tecnica del traforo presenti tombe ‘‘reali” di Salamina e risalenti al VII secolo a.C., tra cui una testata di letto con placchette dai motivi egiziani. I fenici rafforzarono la loro posizione sull’isola dapprima con gli assiri (fine dell’VIII e nel VII secolo a.C.), poi con i persiani per i quali funsero da governatori dopo la rivolta delle città ioniche (499 a.C.) alla quale parteciparono anche i ciprioti; oltre a Kition i fenici controllarono così le città di Amatunte, di Golgoi, Tamassos e Lapitos. Dall’isola essi traevano legname per le loro navi e, soprattutto, il prezioso rame.
[1631]
Pare che i fenici siano giunti nel Nord Africa allo scadere del II millennio a.C. Plinio il Vecchio data la fondazione di Lixus in Marocco verso il 1180 a.C. e fa risalire al 1101 la nascita di Utica, nel nord-est della Tunisia. Da allora la presenza dei fenici in Nord Africa non cessò di estendersi, ramificarsi, e moltiplicarsi raggiungendo l’apice verso la fine del IX secolo a.C., particolarmente con la fondazione di Cartagine.
[16311]
Cartagine fu l’unico fortunato tentativo di colonizzazione stabile compiuto nel Mediterraneo orientale da una popolazione originaria del Vicino Oriente prima della conquista araba dell’Africa settentrionale avvenuta più di mille anni più tardi, durante il secolo di Maometto.
Quando la madrepatria cadde in mano allo straniero, Cartagine rimase libera e continuò a essere un centro d’irradiazione della civiltà fenicia.
[16321]
Di tutto il mondo punico Kerkouane è senz’altro. Le sue vestigia più antiche risalgono al VI secolo a.C. quando si sviluppò da modesto villaggio libico grazie ai contatti con il mondo cartaginese. La città fu invasa durante la prima guerra punica e fu probabilmente abbandonata nel 253 a.C. Quello che rimane oggi è un chiaro piano urbanistico elaborato con bastioni e strade che s’incrociano a scacchiera e abitazioni con tutte le comodità dell’epoca, bagno con vasca da bagno compreso. Le case sono a corte centrale di tipo cartaginese, ma sono presenti anche quelle allineate di origine più propriamente libica. Sull’arteria principale della città si affaccia il più grande santuario punico dell’Occidente, cui sono annessi fabbricati con officina completa di figurine votive fittili, dal deposito di argilla al forno. L’esame della città si compie con la necropoli di Areg el Ghazouani che contiene tombe del periodo che va dal VII al III secolo a.C.; qui i modelli si discostano da quelli cartaginesi, con un pozzo che si sviluppa in lunghezza, la cella funeraria, che mostra talvolta un epitaffio inserito nello spessore della parete posta dirimpetto alla scala che conduce in basso.
[1641]
Scrive Tucidide: ‘‘Dopo aver occupato i promontori sul mare e le isolette vicine a causa del commercio con i siculi, abitarono poi i fenici tutte le coste della Sicilia. Ma quando poi gli elleni in gran numero vi giunsero per mare, lasciata la maggior parte dell’isola abitarono Mozia, Soloenta (Solunto) e Panormo (Palermo), vicino agli elimi e fidando della loro alleanza, perché da quel punto Cartagine dista dalla Sicilia di una brevissima navigazione”.
[16411]
Mozia è una piccola isola, estesa circa 45 ettari, che chiude di cosiddetto ‘‘Stagnone di Marsala”, il tratto di mare, quasi un lago, che si trova di fronte alla città. Rappresentò uno scalo ideale per i commerci tra i fenici e gli elimi, gli abitanti indigeni dell’antistante costa siciliana, e divenne sede stabile nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. L’isola è circondata da una cinta muraria – costruita verosimilmente all’inizio del VI secolo a.C. – che si estende per una lunghezza di 2375 metri, costituita semplicemente da una cortina di massi non squadrati e rafforzata a intervalli da torri quadrate. A sud, una piccola insenatura di 51x37 metri, costituiva il bacino di carenaggio (cothon), mentre il porto vero e proprio era costituito da tutto lo Stagnone. I resti del santuario di Cappiddazzu (‘‘cappellaccio”), forse dedicato a Baal Hammon, sono costituiti da un muro di cinta rettangolare (20,40x35,40 metri) su un lato del quale, a nord-ovest, è incastrato il basamento di un edificio a tre navate. Il tofet presenta vari livelli di deposizione, con piccole urne contenenti resti combusti, che vanno dagli inizi del VII al III secolo a.C. Accanto alle urne erano depositate statuette di terracotta, potromi e maschere, tra cui una virile dal sorriso ghignante. La zona industriale è una superficie quadrata di 600 mq, ben delimitata su tutti i lati da muretti; ha all’interno due fornaci di grandi dimensioni e dalla forma ellittica. La necropoli ha restituito circa duecento tombe quasi tutte a incinerazione. Il centro abitato è ancora poco noto, salvo due case dai muri ‘‘a telaio”: una è detta ‘‘dei mosaici” per la decorazione pavimentale dell’ambulacro costituito da ciottoli di fiume bianchi neri e grigi; l’altra, di cui è rimasto un solo vano, è detta ‘‘delle anfore” per le molte anfore ‘‘a siluro” che conteneva.
[16421]
Solunto si trova a circa 20 chilometri da Palermo, su un colle denominato Monte Catalfano. Solunto è, dopo Mozia, la seconda città siciliana nominata da Tucidide (460⁄455-395 a.C.), ma i resti abbastanza consistenti che sono giunti fino a noi si riferiscono alla città ellenistica: strade larghe che s’incrociano ad angolo retto con strade più strette; quartieri differenziati in relazione allo stato sociale degli abitanti; botteghe sulla strada principale, zona industriale separata. L’elemento punico è tuttavia presente in alcune stele di pietra, in testine di terracotta con iscrizioni fenicie e, soprattutto, negli edifici religiosi. Finora se ne conoscono tre. Uno, nel punto più alto della città, consiste in un gruppo di ambienti che ricorda un labirinto e che ha, nell’ultimo vano, una nicchia dove probabilmente era esposto il simbolo della divinità. Il secondo sorge a ridosso della collina; è un ambiente bipartito dove erano poste due divinità, una maschile (forse Baal Hammon) e una femminile. Il terzo, infine, è un’ara con tre pilastri o betili (bet el = casa del dio e simbolo della religione fenicia) dove si consumava il sacrificio di animali, come risulta dalla vaschetta trovata ai piedi dell’ara.
[16431]
L’ultimo periodo di Selinunte, città greca fondata dai megaresi intorno alla metà del VII secolo a.C., si svolse dal 409 a.C. sotto l’egemonia dei cartaginesi che la distrussero e la riadattarono alle loro esigenze. Le testimonianze puniche sono quindi tra le più notevoli esistenti in Sicilia e molte di esse risalgono anche al periodo antecedente la dominazione cartaginese, a dimostrazione dei rapporti commerciali che la città aveva intrattenuto con le città-stato fenicie d’Oriente. I cartaginesi trasformarono l’acropoli in luogo di abitazione dei cittadini, mentre la città greca fu adibita a necropoli. I templi dorici furono abbattuti, ma per alcuni di essi fu utilizzato il pronao quale luogo sacro, come testimoniano i simboli di Tanit e del sole, quest’ultimo raffigurato con una testa di toro tra un cerchio di raggi. Anche il santuario suburbano, già dedicato a Zeus Meilichios (‘‘dolce come il miele”) fu adattato a nuovi culti, come dimostrano le due stele riproducenti una figura maschile e una femminile, forse Baal Hammon e Tanit.
[1652]
L’assenza di risorse minerarie e la limitatezza del suolo disponibile per lo sfruttamento agricolo condizionarono a Malta un’economia proiettata verso l’esterno, tramite il mare, con attività in cui primeggiavano il commercio di scambio e la pirateria. Fenici e punici sfruttarono la posizione strategica dell’arcipelago maltese fin dall’VIII secolo a.C. e ne fecero uno scalo e per il controllo delle rotte nel canale di Sicilia.
[1651]
Malta fu un centro sacro fin dalle epoche preistoriche, luogo di culto della Grande Madre alla quale furono dedicati templi megalitici che, nella loro forma, rappresentavano il corpo stesso della dea. Testimonianze concrete della presenza fenicia sull’isola si hanno dall’VIII secolo a.C., ma già durante la fase della ‘‘precolonizzazione” la frequentazione dell’isola da parte di navigatori-commercianti fenici dove essere stata abituale. La concentrazione delle testimonianze archeologiche definisce due aree principali di occupazione: quella costiera e portuale nel settore sud-est dell’isola attorno alla vasta baia di Marsaxlokk, l’altra interna e dominante costituita dal rilievo di Rabat. Anche nell’isola minore di Gozo ci sono un insediamento a mare (il sito di Ras-il-Wardija) e uno interno (Vittoria). La giustapposizione tra la cultura indigena e quella fenicia trova conferma nel grande santuario extra urbano di Tas Silg dedicato alla dea Astarte fenicia, che qui assunse connotazioni ctonie come la divinità locale. Malta ebbe sempre una funzione strategica, ma la penetrazione cartaginese, diretta dapprima verso le regioni minerarie della Sardegna e della Spagna, fu lenta. Del resto, dati i contatti costanti dell’isola con la Sicilia greca (ma anche con l’Africa orientale e con l’Egitto) l’orizzonte punico-maltese mostra molteplici sorgenti d’ispirazione. Il costume funerario, ad esempio, impiega raramente nei corredi terrecotte (maschere, protomi, statuette), e sono presenti urne cinerarie di tipo straniero invece dei piccoli ossuari ben noti a Cartagine.
[1661]
La Sardegna fu essenziale nella spinta verso occidente dei fenici. Non a caso qui, prima che altrove, gli empori commerciali superarono presto la loro provvisorietà e divennero, già nell’VIII secolo a.C., insediamenti stabili, il perno della prima urbanizzazione storica dell’isola. Si definì così anche in Sardegna quel tipico paesaggio caratteristico delle città fenicie costiere: un capo che si addentra nel mare (come a Nora e a Tharros) o un’isola a breve distanza dal litorale (come a Sant’Antioco), le saline (a Cagliari), la possibilità di accedere a fertili entroterra, specie sotto la spinta cartaginese.
[16611]
Sulcis, sull’isola di Sant’Antioco, risulta essere stata fondata almeno nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., probabilmente come porto d’imbarco del materiale argentifero dell’Iglesiente. Resti dell’insediamento fenicio e punico si individuano in tutta la zona costiera dell’isoletta, collegata alla terraferma con un istmo in parte artificiale che originava due porti; alle spalle di essi si sviluppava la città vera e propria, cinta da una linea di fortificazioni in grosse pietre sbozzate e da un fossato. Fuori delle mura sono presenti due aree cimiteriali dove le tombe si aprono a vari livelli nel bancone di roccia tufacea; il tofet, anch’esso esterno alle mura, ha un santuario con grande recinto rettangolare di blocchi di pietra; le urne venivano deposte nelle fessure naturali del terreno insieme alle numerosissime stele. Il centro documenta numerose ceramiche provenienti da diverse aree del Mediterraneo (Eubea, Corinto) che si associano a quelle fenicie; particolare sembra il rapporto che Sulcis ha avuto con Cipro e con le sue botteghe artigianali, tanto da suggerire l’ipotesi di una presenza di coloni ciprioti tra i fondatori di Sulcis.
[16621]
La colonia fenicia di Tharros fu fondata intorno all’VIII secolo a.C., dopo una lunga frequentazione commerciale che doveva aver evidenziato le potenzialità del sito. Esso infatti controlla le vie naturali di penetrazione verso l’interno e delle rotte iberiche e tirreniche. Le strutture ‘‘precoloniali” furono fondi commerciali per i quali furono utilizzati in parte e con diversa finalità le strutture nuragiche già esistenti in loco, ma nel VI secolo a.C. il centrò l’aspetto urbano con le costruzioni in arenaria che lo caratterizzano. A settentrione sorse una cortina muraria in blocchi, con almeno due porte monumentali, postierle e torrioni; venne innalzato il tempio ‘‘monumentale”, dal basamento ricavato nel bancone roccioso del litorale orientale; fu impiantato il tofet con stele in arenaria locale. Tharros investì nei traffici mediterranei le risorse di un’economia ricca e differenziata, ma fu soprattutto centro della produzione di gioielli e di athyrmata.
[1671]
Nonostante la sua posizione agli estremi confini occidentali del Mediterraneo, i territori andalusi della penisola iberica (anche oltre lo stretto di Gibilterra) costituirono le prime meta delle espansioni fenicie e puniche e furono un centro di notevole interesse strategico per le aspirazioni politiche di Cartagine nel VI-V secolo a.C. Grazie ai fenici la Spagna uscì dalla preistoria e si inserì nei circuiti commerciali e culturali del Mediterraneo orientale.
[16711]
Gli storici classici collocano la fondazione fenicia di Gadir intorno al 1100 a.C., il che conferisce a questa colonia di Tiro il ruolo di fulcro dellespansione fenicia nel Mediterraneo. Non si sono potuti fare scavi nella Gadir fenicia perché la sua ubicazione coincide con quella della moderna città di Cadice, ma occasionalmente, durante gli scavi per la costruzione di qualche edificio, si è potuto accedere agli strati più profondi e scoprire resti di epoca fenicio-punica oltre i cinque metri sotto il livello attuale. Cadice fu la colonia fenicia più importante dell’estremo Occidente, nata in funzione puramente economica: ottenere il minerale d’argento del territorio di Tartesso e delle montagne delle province di Huelva e di Siviglia che venivano imbarcati a Gadir e trasportati in Oriente. E di argento da Gadir doveva partirne molto, se è vera l’affermazione di Diodoro Siculo secondo la quale i mercanti di Tiro sostituivano le ancore di piombo delle loro navi con ancore d’argento per utilizzare al massimo la portata delle loro imbarcazioni. Gadir era situata sulla sommità di un promontorio, al centro di una baia che dominava l’estuario del Guadalete. Anticamente nella baia esisteva un autentico arcipelago, costituito da tre isole principali, che oggi sono unite alla terraferma per formare la penisola di Cadice. Gadir sorgeva, fortificata, sull’isola più piccola chiamata dagli storici classici Erytheia. Quella più grande e stretta (Koutinussa, secondo Plinio) ospitava, nell’estremità più vicina alla città, la necropoli da cui ci sono pervenuti splendidi sarcofagi di marmo. La terza isola (Isola di Leon), corrisponde alla moderna città di San Fernando, in terraferma. Il tempio di Gadir, consacrato a Melqart, godette grande fama e, come molti santuari orientali, fungeva da banca, luogo di asilo, deposito di merci.
[16721]
Scalo obbligato nelle rotte attraverso il Mediterraneo orientale, la baia di Ibiza (Ebusus) fu frequentata presto dai fenici. Nella seconda metà del VII secolo a.C., la costa meridionale dell’isola, allora disabitata, fu gradualmente popolata da gruppi di coloni provenienti da Gadir, anche se Diodoro Siculo attribuisce la fondazione della città di Ebusus ai cartaginesi, nel 650 a.C.
Fra il 540 e il 500 a.C. la colonia divenne un grande centro urbano che tra il V e il II secolo a.C., grazie ai cartaginesi, visse la sua età dell’oro. Il monumento più celebre dell’Ibiza punica è la necropoli del Puig d’es Molins, situata a circa 500 metri dalla cinta fortificata. Si estende su una superficie di oltre 50 mila mq e ha restituito fino a oggi tra le tremila e le quattromila sepolture: ipogei scavati nella roccia, fosse rettangolari scavate in terra, sepolture infantili all’interno di anfore. Il rito predominante è l’inumazione. Le sepolture più spettacolari sono gli ipogei con grande camera a pozzo collettiva; sono a pianta rettangolare, dalle dimensioni che variano dai 2 ai 6 metri di lunghezza, e conservavano sarcofagi di pietra ricchi di corredi funebri consistenti in terrecotte votive, gioielli e athyrmata. Sono presenti sull’isola due grandi santuari: quello di Isla Plana, consacrato al dio della medicina Eshmun, è famoso per la quantità di terrecotte votive, datate dal VI secolo a.C., rinvenute in un pozzo o recinto annesso al tempio; quello rupestre di Es Cuyram fu in uso fra il IV e il II e anch’esso ha restituito più di seicento figurine fittili originariamente policrome.
[91011]
2500 a.C. ca.
- Genti semitiche giungono in Palestina da sud.
1500 a.C. ca.
- Inizio della storia propriamente fenicia.
- Organizzazione delle città-stato.
- Influenza egiziana sulle città fenicie.
1200 a.C. ca.
- Invasioni dei ‘‘popoli del mare”.
- Inizia il predominio di Sidone sulle città-stato fenicie.
- Comincia a estendersi l’azione marittima dei fenici.
1209 a.C.
- Sidone viene distrutta dai filistei.
- La supremazia delle città-stato fenicie passa a Tiro.
1110 a.C.
- Fondazione di Cadice, secondo la tradizione.
1101 a.C.
- Fondazione di Utica.
1100 a.C. ca.
- Tiglatpileser I dell’Assiria compie la prima spedizione verso la Fenicia.
[91021]
969-936 a.C.
- Tiro raggiunge la massima potenza sotto il regno di re Hiram.
- Hiram soffoca la rivolta di Kition (Cipro).
- Rapporti di Hiram con i re David e Salomone di Gerusalemme.
- Hiram e Salomone intraprendono congiuntamente la spedizione navale fino a Ofir.
[91031]
883-859 a.C.
- Assurnasirpal II dell’Assiria ottiene la sottomissione di Tiro, Sidone e Biblo.
852-837 a.C.
- Salmanassar III dell’Assiria impone tributi ai maggiori regni fenici.
820-774 a.C.
- Regna a Tiro re Pigmalione
814 a.C.
- Fondazione di Cartagine.
[91041]
775 a.C. ca.
- Fondazione della più antica colonia greca di Ischia.
700-750 a.C. ca.
- Massima espansione commerciale di Tiro.
- La lingua fenicia si impone come idioma internazionale di comunicazione.
- Diffusione dell’alfabeto fenicio.
750-700 a.C. ca.
- Presenze fenicie testimoniate a Mozia (Sicilia); Malta; Pantelleria; Sulcis e Tharros (Sardegna) e nella penisola iberica.
745-727 a.C.
- Taglatpileser III dell’Assiria annette le città della Fenicia settentrionale.
721-705 a.C.
- Sargon II dell’Assiria s’impossessa di Tiro e di Cipro.
700-650 a.C. ca.
- Presenze fenicie testimoniate a Cagliari, Nora e Bitia (in Sardegna) e a Solunto e Ponormo (Sicilia).
[91051]
675 a.C.
- L’insurrezione di Sidone è soffocata nel sangue dal re assiro Asarhaddon.
668-626 a.C.
- Sotto il regno assiro Assurbanipal (il Sardanapalo dei greci) viene domata la ribellione di Biblo, Arado e di altre città fenicie.
654-653 a.C.
- Fondazione di una colonia cartaginese a Ibiza.
612 a.C.
- Caduta dell’impero assiro a opera dei medi.
600 a.C. ca.
- I cartaginesi tentano di impedire ai greci la fondazione di Massalia (Marsiglia).
[91061]
580 a.C. ca.
- I greci tentarono di cacciare i fenici da tutta la Sicilia.
587 a.C.
- Il re babilonese Nabucodonosor deporta gli ebrei a Babilonia.
586 a.C.
- Attacco babilonese alle città della Fenicia.
573 a.C.
- Tiro è espugnata dopo tredici anni di assedio dai babilonesi di Nabucodonosor.
560 a.C.ca.
- A Tiro viene introdotto l’ordinamento repubblicano.
550 a.C. ca.
- Il generale cartaginese Malco combatte i greci in Sicilia.
- La Sicilia occidentale è sottomessa ai cartaginesi.
525 a.C.
- Le città della Fenicia passano sotto l’egemonia del persiano Cambise.
535 a.C.
- Malco si impossessa del potere a Cartagine ma viene messo a morte.
- Il potere militare passa a Magone, fondatore della dinastia dei Magonidi.
540 a.C.
- Alleanza militare tra cartaginesi ed etruschi.
- Vittoria sui focesi ad Alalia, in Corsica.
- Cartagine rafforza il dominio sulla Sardegna.
525-450 a.C. ca.
- Tiro e Sidone, filopersiane, si avvantaggiano sul piano territoriale e commerciale.
- Dinastie fenicie dominano a Cipro.
510 a.C.
- Lo spartano Dorieo guida i greci in una guerra contro Cartagine in terra d’Africa ma viene respinto.
508 a.C.
- Primo trattato di alleanza tra Cartagine e Roma.
[91071]
480 a.C.
- I greci sconfiggono i cartaginesi a Imera (Sicilia).
450 a.C.
- Spedizione del generale cartaginese Imilcone in Bretagna.
425 a.C.
- Spedizione di Annone lungo le coste atlantiche dell’Africa.
409 a.C.
- Scontri tra cartaginesi e greci in Sicilia.
406 a.C.
- I cartaginesi conquistano Imera, Selinunte, Agrigento e Gela.
[91081]
397 a.C.
- Dionisio di Siracusa conquista Mozia.
392 a.C.
- I fenici perdono il possesso di Cipro a vantaggio dei greci.
367 a.C.
- La frontiera siciliana tra cartaginesi e greci è posta tra i fiumi Imera e Alico.
348 a.C.
- Secondo trattato tra Cartagine e Roma.
347 a.C.
- Sidone si ribella ai persiani e viene distrutta.
342 a.C.
- Il greco Timoleonte Corinzio combatte i cartaginesi in Sicilia.
339 a.C.
- Sconfitta di Timoleonte Corinzio al fiume Crimiso.
318 a.C.
- Agatocle di Siracusa attacca i cartaginesi in Sicilia.
306 a.C.
- Terzo trattato tra cartaginesi e romani.
305 a.C.
- Assedio cartaginese di Siracusa.
- Agatocle porta la guerra in Africa.
- Pace tra cartaginesi e siracusani in Sicilia.
- I confini siciliani sono riportati all’Imera e all’Alico.
333 a.C.
- Alessandro Magno sconfigge a Isso il re persiano Dario III.
332 a.C.
- Biblo e Arado si consegnano spontaneamente ad Alessandro Magno.
- I cittadini di Sidone obbligano il re a sottoporsi ad Alessandro Magno.
- Tiro si sottomette ad Alessandro Magno dopo un assedio di sette mesi.
- Con la conquista macedone si conclude di fatto la storia della Fenicia come nazione autonoma.
[91091]
279 a.C.
- Quarto trattato tra cartaginesi e romani per la mutua difesa dell’attacco di Pirro.
276 a.C.
- Pirro abbandona la Sicilia.
265 a.C.
- I cartaginesi muovono su Messina.
- I mamertini che occupano Messina chiedono l’intervento romano.
264-241 a.C.
- Guerra tra Roma e Cartagine (prima guerra punica).
262 a.C.
- I romani conquistano la Sicilia occidentale fino ad Agrigento.
260 a.C.
- I cartaginesi sono sconfitti dai romani nella battaglia navale di Milazzo.
256 a.C.
- Sconfitta cartaginese a Capo Ecnomo.
254 a.C.
- I cartaginesi sconfiggono in Africa il console romano Attilio Regolo.
247 a.C.
- I cartaginesi sotto il comando di Amilcare Barca contrattaccano in Sicilia.
241 a.C.
- Sconfitta cartaginese alle isole Egadi.
- Cartagine deve abbandonare la Sicilia.
241-238 a.C.
- La truppe mercenarie cartaginesi si ribellano con l’aiuto dei libici e danno inizio a una guerra quadriennale.
238 a.C.
- La rivolta dei mercenari cartaginesi si sposta in Sardegna.
- I mercenari chiedono l’aiuto di Roma.
- Roma occupa Sardegna e Corsica.
237 a.C.
- Amilcare Barca doma la rivolta dei mercenari in Africa.
- Amilcare Barca intraprende la conquista della penisola iberica.
229 a.C.
- Morte di Amilcare cui succede, nel comando dei domini iberici, Asdrubale.
- Fondazione di Cartagena.
226 a.C.
- Asdrubale stringe con Roma il trattato dell’Ebro.
221 a.C.
- Assassinio di Asdrubale
- Annibale succede nel comando ad Asdrubale.
218 a.C.
- Annibale distrugge Sagunto.
- Roma dichiara guerra a Cartagine (seconda guerra punica o annibalica).
- L’esercito di Annibale passa le Alpi.
- Vittorie cartaginesi al Ticino e alla Trebbia.
217 a.C.
- Vittoria di Annibale al Trasimeno.
216 a.C.
- Vittoria cartaginese a Canne.
215-205 a.C.
- Filippo V di Macedonia si allea con Annibale e apre un altro fronte di guerra contro i romani.
212 a.C.
- Contrattacco romano nella penisola iberica.
- Siface, re della Numidia occidentale, si allea con Roma contro Cartagine.
- Cade Siracusa, alleata di Annibale.
211 a.C.
- Conquista romana di Capua che si era data ad Annibale.
209 a.C.
- I cartaginesi perdono Cartagena nella penisola iberica.
208 a.C.
- Asdrubale, fratello di Annibale, porta rinforzi ai cartaginesi in Italia.
207 a.C.
- Sconfitta e morte di Asdrubale al Metauro (Pesaro).
205 a.C.
- Publio Cornelio Scipione porta gli eserciti romani in Africa.
- I romani si alleano con Massinissa re della Numidia orientale.
203 a.C.
- Sconfitta cartaginese di Tunisi.
- Annibale rientra in patria dall’Italia.
202 a.C.
- Scipione sconfigge definitivamente Annibale a Zama.
201 a.C.
- Masinissa comincia a pretendere porzioni di territorio cartaginese.
[91101]
196 a.C.
- Annibale ricopre la carica di sufeta.
- Tentativo di trasformazione politica dello stato punico da parte di Annibale.
195 a.C.
- Annibale è costretto all’esilio in Siria e in Bitinia.
193 a.C.
- Fallisce il tentativo di Annibale di rientrare in patria.
- Massinissa si impadronisce di un tratto di territorio cartaginese.
191 a.C.
- Cartagine, ormai ripresasi economicamente, offre il pagamento di tutte le rate dell’indennità, ma Roma rifiuta per mantenere vivo nei cartaginesi il senso di dipendenza.
183 a.C.
- Annibale muore suicida in Bitinia per non cadere in mano dei romani.
182 a.C.
- Massinissa si annette un altro territorio cartaginese.
182-172 a.C.
- Massinissa si impossessa di settanta città e fortezze cartaginesi.
172 a.C.
- Cartagine presenta a Roma una protesta contro Massinissa.
161 a.C.
- Roma assegna a Massinissa i territori cartaginesi degli Emporii, i fertili terreni del golfo di Gabes.
160-155 a.C.
- Cartagine rimette in efficienza l’esercito per reagire alle provocazioni di Massinissa.
- A Roma Catone tuona in senato contro Cartagine.
151 a.C.
- Cartagine versa a Roma l’ultima rata dell’indennità.
150 a.C.
- Cartagine manda contro Massinissa un esercito di 25 mila uomini.
149-146 a.C.
- Guerra tra Roma e Cartagine (terza guerra punica).
146 a.C.
- Publio Cornelio Scipione Emiliano assedia Cartagine e la dà alle fiamme.
- Cartagine diventa provincia romana d’Africa.
[21]
La storia degli etruschi è ricostruibile solo a grandi linee, perché la documentazione scritta, oggi in parte decifrata, non è molto significativa e i reperti archeologici, per quanto ricchi e interessanti, non bastano a riempire le lacune. Sono inoltre andate perdute, fin dall’antichità, le opere che al mondo degli etruschi dedicarono alcuni scrittori greci e latini e i riferimenti storici che sono giunti fino a noi appaiono frammentari e spesso contraddittori, se non addirittura falsati quando essi vanno a toccare gli ‘‘interessi di parte” greci o romani. È tuttavia indubbia la precocità dello sviluppo della civiltà etrusca, l’originalità delle sue espressioni, la sua importanza anche sul piano politico che assegnarono a questo popolo una posizione di privilegio nel quadro della più antica storia della penisola italiana e di quella mediterranea.
[211]
Il ‘‘caso”, il ‘‘mito”, la ‘‘diversità”, insomma il ‘‘mistero” degli etruschi: nessun altro popolo dell’antichità ha acceso un dibattito tanto vivace come quello riguardante la nazione storica etrusca, posta in età arcaica e classica al limite del mondo civilizzato, ma allo stesso tempo così ricca e culturalmente progredita. Quasi che gli etruschi siano vissuti chiusi nei loro confini o addirittura fuori del tempo, per scomparire lasciando dietro di sé segreti non ancora svelati, testimonianze vaghe e enigmatiche di una civiltà senza possibili confronti.
[2111]
Il ‘‘caso”, il ‘‘mito”, la ‘‘diversità”, insomma il ‘‘mistero” degli etruschi: nessun altro popolo dell’antichità ha acceso un dibattito tanto vivace come quello riguardante la nazione storica etrusca, posta in età arcaica e classica al limite del mondo civilizzato, ma allo stesso tempo così ricca e culturalmente progredita. Quasi che gli etruschi siano vissuti chiusi nei loro confini o addirittura fuori del tempo, per scomparire lasciando dietro di sé segreti non ancora svelati, testimonianze vaghe e enigmatiche di una civiltà senza possibili confronti.
[21111]
Gli storici più antichi facevano giungere gli etruschi da Oriente in età eroica o in ogni modoin una fase precedente all’età storica; discordavano solo nel collegarli ora con i lidi ora con i pelasgi. Secondo lo storico greco Erodoto (V secolo a.C.) gli etruschi sarebbero giunti in Italia dalla Lidia (Asia Minore) sotto la guida del re Tirreno dal quale presero il nome di tirreni (o tyrsenòi); a spingerli ad Occidente era stata una carestia scoppiata poco prima della guerra di Troia. Secondo lo storico greco Ellanico (V secolo a.C.) essi sarebbero stati invece pelasgi, un popolo guerriero che, dopo aver vagato a lungo nell’area danubiana, giunse infine nel Ponto Eusino (Mare Nero) alla fine del III millennio a.C.; da qui i pelasgi avrebbero poi raggiunto la Tessaglia, l’Attica e il Peloponneso. Gruppi di pelasgi si sarebbero quindi spinti in Italia dopo aver navigato a lungo tra le isole del mare Egeo. Della stessa opinione è anche lo storico Anticlide (IV-III secolo a.C.), anch’egli greco, per il quale i pelasgi, prima di spingersi a Occidente, avrebbero colonizzato le isole egee di Imbro e di Lemno. Vanno inoltre ricordate le fonti egiziane che indicano tra i ‘‘popoli del mare” i tusha o tirreni, ossia gli antenati degli etruschi.
[211111]
Erodoto riferisce nelle sue Storie (I,94):
‘‘Narrano che sotto il regno di Ati, figlio di Mida, una tremenda carestia colpisse tutta la Lidia. I lidi per un certo tempo la tollerarono ... ma poiché questa carestia, anziché diminuire, infieriva sempre più, il re divise i lidi in due gruppi e tirò a sorte coi dadi quale sarebbe rimasto nel paese e quale sarebbe emigrato; a capo di coloro che dovevano rimanere pose se stesso, a capo degli altri il proprio figlio di nome Tirreno. I lidi a cui toccò di lasciare la patria si recarono a Smirne e cominciarono a costruire navi; quindi, raccolte su di esse tutte le cose che erano loro utili si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra, finché, dopo aver costeggiato molte regioni, giunsero presso gli umbri, e qui edificarono le città nelle quali vivono tuttora. Abbandonarono però il nome di lidi e, dal nome del figlio del re che si era posto alla loro guida, si chiamarono tirreni”.
[21121]
La tesi di Erodoto sull’origine lidia degli etruschi fu contestata nella stessa antichità dallo storico e retore greco Dionigi d’Alicarnasso (I secolo a.C.). Nelle sue Antichità romane in 20 libri (dei quali ci sono pervenuti i primi 10), in cui narra la storia di Roma dalle origini alla prima guerra punica Dionigi puntualizza: ‘‘Per me, non credo che i tirreni siano coloni lidi, poiché non parlano la stessa lingua né conservano nessun’altra caratteristica della loro presunta patria. Infatti non onorano le medesime divinità dei lidi e hanno leggi e istituzioni diverse ... Mi sembra dunque che si avvicinino più alla verità coloro che sostengono che questo popolo non è immigrato da terre straniere, ma è autoctono, giacché risulta che esso è antichissimo e per lingua e costumi affatto diverso da ogni altra stirpe”. A sostegno della sua tesi Dionigi riferiva che gli stessi etruschi erano della sua stessa opinione, tanto che chiamavano se stessi ‘‘rasenna” e non tirreni. La teoria di Dionigi di Alicarnasso non ebbe molta fortuna e l’opinione corrente degli antichi continuò a basarsi sull’autorità di Erodoto; Virgilio chiama li etruschi anche col nome di lidi.
[21131]
La storiografia moderna ha ripreso ora l’una ora l’altra delle due tesi cercando di corroborarla e di aggiornarla mediante i risultati dell’indagine linguistica e archeologica. I sostenitori della provenienza dall’Oriente – tesi che contribuirebbe a spiegare l’anticipo dello sviluppo civile dell’Etruria rispetto ad altre regioni d’Italia – rivelano che la civiltà etrusca sorse nell’VIII secolo a.C., proprio quando si affermava in Etruria, nelle manifestazioni artistiche, lo stile detto ‘‘orientalizzante” per le sue connessioni con i tipici motivi del Vicino Oriente; pongono in evidenza i rapporti della religione etrusca con credenze mesopotamiche; sottolineano certe concordanze tra l’etrusco e le lingue preelleniche dell’area egea. Dall’altra parte i sostenitori dell’autoctonia obiettano che lo stile ‘‘orientalizzante” non è specificatamente proprio degli etruschi, ma largamente diffuso, e spiegano che gli etruschi, diversi per lingua e tradizioni culturali da tutti i popoli circostanti, rappresentavano un antico strato etnico, anteriore ai movimenti di popoli dell’età del Bronzo. Alle tesi tradizionali e alle loro varianti, se ne è aggiunta anche una terza (già ombreggiata da Tito Livio) che postula ‘‘un’origine settentrionale”: gli etruschi sarebbero discesi attraverso le Alpi (dove i reti del Trentino Alto Adige, quasi analoghi per nome ai rasenna, parlavano una lingua affine alla loro), la pianura padana e gli Appennini.
[2121]
Anche se le iscrizioni in lingua etrusca sono molte - ne possediamo circa 10 mila - solo un decimo di esse contiene qualcosa di più di semplici nomi propri, e una minima parte testi di una certa ampiezza. Lo sforzo di interpretare la lingua etrusca non è quindi pervenuto a risultati conclusivi, anzi ha aggiunto ‘‘mistero a mistero”.
[21211]
L’etrusco non è una lingua indeuropea come quella usata dai vicini italici e non è comparabile con nessun’altra lingua conosciuta, viva o morta, come affermava anche Dionigi d’Alicarnasso. Eppure alcuni storici ritengono che l’etrusco rappresenti una derivazione di antiche parlate del Mediterraneo, risalenti a epoche precedenti le invasioni indoeuropee, probabilmente imparentate con l’idioma che veniva usato a Lemno, l’isola che secondo lo storico Anticlide sarebbe stata colonizzata dagli antenati pelasgi degli etruschi. Ma se avessero ragione Diodoro Siculo e certi storici moderni che puntano sulla autoctonicità? In effetti gli etruschi adottarono una forma arcaica dell’alfabeto greco che modificarono per adeguarlo ai suoni della loro lingua e, poiché questo alfabeto ci è noto, è un luogo comune parlare di ‘‘indecifrabilità” e di ‘‘mistero” della lingua etrusca. Ma i testi che abbiamo sono scarsamente significativi perché consistono per lo più in brevi iscrizioni funerarie o dedicatorie; solo pochissimi sono più ampi e se ne intuisce il significato religioso o giuridico. Su tutti questi materiali si sono esercitati con vari metodi parecchi filologi, e i risultati non sono mancati: si sono distinti verbi e sostantivi; si è accertato che i nomi venivano declinati (ma in modo del tutto diverso che in latino o in greco); si è precisato l’esatto valore di qualche decina di parole; si sono individuate alcune coincidenze sia con lingue indoeuropee (il che è spiegabile con i contatti con gli italici) sia, come abbiamo detto, con lingue ‘‘mediterranee” dell’area egeo-anatolica. Come per il mondo greco, anche in Etruria è possibile definire delle scritture locali sulla base del diverso uso di taluni segni per esprimere uno stesso suono.
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Sul finire dell’VIII secolo a.C., gli etruschi erano in possesso di un alfabeto introdotto nell’Italia centrale dai coloni greci provenienti dall’Eubea, stabilitisi prima nell’isola di Ischia (775 a.C. ca.) e poi a Cuma. Quest’alfabeto comprendeva in origine 26 segni di cui però solo 22 furono utilizzati per la scrittura etrusca: gli etruschi rifiutarono a esempio la vocale o, le consonanti b, d e g perché non corrispondenti alle loro esigenze fonetiche, e altre le impiegarono diversamente. Allo stesso periodo risale la comparsa dei segni d’interpunzione per dividere le varie parole. L’andamento della scrittura andava da destra verso sinistra. Dopo la fine dell’età arcaica, la serie alfabetica si stabilizzò nel numero di 20 segni. Tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. l’uso dell’alfabeto etrusco venne progressivamente abbandonato a favore di quello latino. Gli etruschi si servirono dell’alfabeto per scrivere i loro documenti e i loro libri. Sappiamo che ebbero un’ampia letteratura composta da testi religiosi, da libri di storia di tipo annalistico e da testi teatrali, ma purtroppo nulla di questa copiosa produzione ci è pervenuto. Rimangono solo un migliaio di iscrizioni, per lo più epigrafi funerarie, con le sole generalità del defunto (prenome, gentilizio e patronimico). Rarissimi sono i testi più complessi come le lamine di Pyrgi o il cosiddetto libro della mummia di Zagabria. È questo il più importante manoscritto etrusco tramandato in lingua originale, che anticamente doveva costituire un testo di almeno 12 colonne verticali. Si tratta di un calendario liturgico con l’indicazione delle principali cerimonie scoperto in Egitto. Aveva in origine la forma di un rotolo (volumen), ma fu successivamente tagliato a strisce e impiegato per avvolgere il corpo di una giovane donna di età tolemaica o imperiale conservato oggi nel Museo di Zagabria. Una conoscenza ormai acquisita riguarda il sistema numerale che appare di tipo decimale e con le cifre indicate con segni tratti almeno in parte dall’alfabeto, come in latino.
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È ancora diffusa l’idea che la storia etrusca abbia avuto termine in maniera repentina, quasi per un ‘‘collasso” provocato dalla mollezza e dalla sregolatezza dei costumi. Di ciò avrebbero approfittato i ‘‘rozzi” romani per infliggere ai loro nemici il colpo di grazia finale. Un altro mito generato dall’aura di mistero che ha sempre aleggiato attorno agli etruschi.
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Scomparsi nel nulla portandosi nella tomba i propri segreti? Nonostante il mito che ha chiamato in causa persino una sorta di ‘‘genocidio” perpetrato dalle legioni romane, la fine degli etruschi non fu né misteriosa né eccezionale. In effetti, essa non fu diversa da quella di tutti gli altri popoli dell’Italia assorbiti nell’orbita romana. Successe ai lucani, agli apuli, ai sanniti, agli umbri, ai galli della Cisalpina e persino ai greci della Magna Grecia: tutti finirono per integrarsi in quella nuova realtà che era la ‘‘nazione” romana e diventarono parte di essa godendo, ai diversi livelli, della concessione della ‘‘cittadinanza” e adottando la lingua latina e il diritto romano. E non furono cittadini di ‘‘serie B”, perché una volta sottomessi, gli etruschi contribuirono all’affermazione romana nella penisola e alle vittorie nelle guerre esterne. Non va dimenticato né sottovalutato l’aiuto che le città etrusche fornirono nel 205 a.C. per l’allestimento della spedizione di Scipione contro Cartagine che condusse al ritiro di Annibale dall’Italia e alla decisiva vittoria di romana di Zama. Quanto alle fasi finali della loro vicenda, che si concluse con il passaggio della repubblica all’impero, gli etruschi vi parteciparono con due diversi e opposti atteggiamenti: da una parte alcune città si schierarono nelle lotte civili dell’ultimo secolo della repubblica con i partiti ‘‘democratici” (con Mario contro Silla; con Catilina; con Antonio contro Ottaviano); dall’altra appoggiarono con le loro aristocrazie le posizioni conservatrici dell’oligarchia romana e l’opera restauratrice di Augusto. E proprio sotto Augusto, grazie anche all’opera del suo consigliere ‘‘etrusco” Mecenate (di Arezzo) l’Etruria diede inizio a una seconda fioritura: in questo clima sarà ‘‘rifondata” la città di Veio distrutta nel lontano 396 a.C.
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Fra i presunti misteri diffusi sul mondo etrusco, uno di essi riguarda il tipo fisico delle antiche genti dell’Etruria nel quale si crede di poter identificare la prova della loro provenienza orientale. Cosa hanno a che fare con i tratti italici quei profili sfuggenti, i nasi dritti e sottili, le bocche larghe dalle labbra atteggiate nel caratteristico sorriso e, soprattutto, i grandi occhi a mandorla documentati in tante opere figurate?
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Il sapore d’Oriente che effettivamente si ritrova nelle rappresentazioni dei volti etruschi, ma limitato per lo più al periodo arcaico (VI secolo a.C.), non è altro che un preciso canone artistico, diffuso anche in altri ambienti del mondo mediterraneo, Roma compresa. Fu elaborato nella regione greca della Ionia, in Asia Minore, e prima ancora che nell’Etruria, si diffuse nella stessa Grecia (i kuroi e le korai, ad esempio) e nelle sue colonie. Il volto orientale sarebbe insomma una sorta di ‘‘maschera” cui si ricorse per rappresentare un’immagine convenzionale con la quale gli etruschi, specie gli aristocratici, volevano essere ricordati. Nel V secolo a.C. la ‘‘moda all’orientale” era già in declino e le rappresentazioni dei tratti somatici cambiò radicalmente per diventare più realistica. Si dovrebbe per questo supporre un cambiamento di razza? Fu solo un cambiamento di gusto e dello stile artistico: nella ‘‘nuova” grande varietà di volti e di fattezze ritroviamo allora davvero i tratti dei nostri antenati.
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Come narrare le vicende di un popolo di cui non possediamo una tradizione storiografica diretta? Poiché essa è andata perduta, fin dall’antichità, insieme a tutta la letteratura nazionale, dobbiamo necessariamente ricorrere alla ricostruzione indiretta basandoci, come del resto accade per i cartaginesi, su quelle parti di storia dei greci e dei romani che in certi momenti hanno coinciso con quella degli etruschi. Con discernimento però, e con la consapevolezza che non sempre le informazioni che ci vengono fornite dalle fonti sono obiettive. A complicare le cose c’è il fatto che quella etrusca fu la storia di un mondo vario e composito, in cui ognuna delle singole entità corrispondenti alle diverse città-stato agiva e si comportava in maniera autonoma, distinta e spesso contrastante con le altre. Rimane la documentazione archeologica e quella più generica delle possibili analogie che legarono gli etruschi alla ‘‘storia universale” del Mediterraneo.
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Gli antichi indicarono con varie denominazioni il territorio in cui si sviluppò la civiltà etrusca. I greci lo chiamarono Tyrrhenía o Tyrsenía, i latini Etruria, gli ultimi scrittori latini Tuscia. Corrispondentemente i nome del popolo che lo abitò fu per i greci tyrrenòi o tyrsenòi, presso i latini etrusci o tusci, per gli umbri turskus. Essi invece, a quanto ci riferisce Dionigi d’Alicarnasso, chiamarono se stessi rasena o rasenna, ma pare confermato il termine rasna, che in questa forma o in forme simili ricorre più volte nelle iscrizioni etrusche.
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I confini storici dell’Etruria sono segnati dal corso dei due fiumi principali dell’Italia peninsulare: l’Arno che limitava il territorio etrusco verso settentrione, e il Tevere che costruiva il confine a oriente e a mezzogiorno; il mare, che dagli etruschi prese il nome di Tirreno, segna il quarto lato dell’ampia regione che oggi chiamiamo tosco-laziale. In essa convivono almeno tre paesaggi. Una prima zona a sud, costituita dall’Alto Lazio, presenta larghe zone di pianura, ma più spesso strette valli incise da fiumi e da torrenti, affluenti del Tevere, e un succedersi di basse colline e di pianori tufacei di varia forma e grandezza e dalle pendici scoscese; su di essi sorsero le principali città etrusche meridionali: Veio, Orvieto, Caere, Tarquinia ecc. Tutta l’area è punteggiata di antichi crateri vulcanici diventati, nella maggior parte dei casi, bacini lacustri (lago di Bracciano, di Bolsena, di Martignano, di Vico ecc.). A ovest di quest’area, il ‘‘paesaggio del tufo” cede al paesaggio della Maremma con pianure variamente estese lungo la costa, rotte da rilievi come i Monti della Tolfa, dell’Uccellina o il Monte Argentario. In epoca antica la zona era paludosa e malsana, ragione per cui tutte le grandi città dell’Etruria marittima, tranne Populonia, sorsero a una distanza di diversi chilometri dal mare, destinando la funzione di porto a insediamenti minori (è il caso di Pyrgi per Caere). La terza area corrisponde al resto dell’attuale Toscana con l’appendice umbra di Perugia. Anche qui il paesaggio è collinare, con ampie vallate fluviali interne (del Tevere, dell’Arno, dell’Elsa, del Chiana, dell’Era ecc.) che innervano tutto il territorio. A vaste zone di calanchi si alternano massicci montani (Colline Metallifere, Amiata, Pratomagno, Monti del Chianti) che rendono più aspro il territorio e difficili le comunicazioni. Le città etrusche erano qui più disperse e in numero più limitato: più o meno quante quelle del Meridione in un territorio grande il doppio.
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Le tre grandi aree territoriali offrirono agli etruschi possibilità di sviluppo diverse, legate alle vocazioni spontanee del suolo in relazione allo sfruttamento agricolo: viti e olivi su tutte le zone collinari, grano nelle pianure fluviali e specie nell’agro di Chiusi, arboricoltura diffusa. In stretta connessione con l’agricoltura era l’allevamento del bestiame; i buoi etruschi erano famosi per forza e resistenza, grandi cure venivano dedicate agli equini e molto diffuso era, soprattutto nel sud, l’allevamento specializzato dei suini. Estesi e folti boschi davano legname abbondante e di buona qualità destinato a vari usi (opere di carpenteria, costruzioni di navi, alimentazione dei forni dell’industria metallurgica ecc.) e ospitavano una grande quantità di animali selvatici (cinghiali, cervi, lepri ecc.) che venivano regolarmente cacciati. Praticata era anche la caccia agli uccelli palustri che dovevano essere numerosi nelle lagune costiere e nei laghi vulcanici dell’Etruria meridionale. Ma la risorsa principale del suolo (e la ricchezza degli etruschi) era costituita dai minerali per l’estrazione dei metalli: rame, argento, piombo e soprattutto ferro. Le principali concentrazioni si trovavano in comprensori in cui l’attività mineraria è continuata fino ai giorni nostri: i Monti della Tolfa (ferro e allume che serviva per la concia delle pelli e i processi di riduzione della fusione), l’isola d’Elba (ferro), l’Argentario (piriti argentifere che fornivano ferro, argento e piombo), l’Amiata (cinabro); più difficile individuare le fonti per il minerale di rame, elemento fondamentale per la lega del bronzo: gli etruschi erano famosi per la capacità di lavorare questo metallo. Non a caso quindi, descrivendo l’Etruria, Diodoro Siculo poté affermare nel II secolo a.C.: ‘‘Questa è una terra che produce di tutto”.
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Il problema delle origini degli etruschi è un falso problema che va impostato su basi metodologiche diverse: non tanto la ‘‘provenienza” è importante, quanto piuttosto la ‘‘formazione” di questo popolo, ciò che esso, sfruttando elementi di varia provenienza - anche orientali, anche indoeuropei - ha prodotto di originale nelle sue sedi storiche.
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Comunque si imposti e si risolva il problema delle origini degli etruschi, l’area geografica dove storicamente essi insediarono il loro dominio era già definita e culturalmente connotata in senso unitario nel IX secolo a.C. Essa corrisponde a una larga parte dell’area in cui si era fino allora sviluppata la cultura del Ferro ‘‘villanoviana” e in essa dobbiamo riconoscere il primo manifestarsi del processo di formazione – sul suolo dell’Etruria – di quella che diverrà la ‘‘nazione” etrusca. I villaggi ‘‘villanoviani” erano organizzati in forme di carattere tribale, con un tipo di società sostanzialmente indifferenziata e con un’economia basata sull’agricoltura, l’allevamento e, marginalmente, su attività artigianali sulle quali predomina la metallotecnica. Ma all’inizio dell’VIII secolo a.C., questa struttura socio-economica cominciò a modificarsi per effetto delle prime frequentazioni di navi: mercanti fenici e greci attivarono un movimento commerciale basato sul traffico di risorse fondamentali (che in epoca antica erano cereali, olio, vino), dei minerali e dei metalli verso il bacino dell’Egeo e del Mediterraneo orientale; in cambio arrivavano manufatti di alta qualità e con essi maestri e idee. Alla primitiva utilizzazione in comune delle risorse si sostituì allora, a poco a poco, l’iniziativa dei singoli individui che sfruttarono a proprio vantaggio le risorse del territorio accumulando così (ed esibendo, come vediamo dai corredi funebri) ricchezza. L’originaria ‘‘unità villanoviana” si frantumò e il corpo sociale si scisse con l’emergere di un ceto più ricco che finì per imporsi come classe dominante.
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La civiltà villanoviana ha preso il nome dal villaggio di Villanova, presso Bologna, dove sono stati rinvenuti i reperti archeologici più notevoli. Essa era presente in modo omogeneo su tutta l’Etruria, continuava a sud del Tevere con l’affine cultura laziale, e si era diffusa anche attorno a Capua e nella zona di Salerno, in Campania. Le nostre conoscenze dipendono quasi esclusivamente dalle necropoli, costituite in genere da vasti ‘‘campi d’urne” con tombe a pozzetto scavato nella roccia o nel terreno in cui era deposto un vaso cinerario biconico e qualche oggetto di corredo. Nel territorio laziale si manifestò anche l’uso dell’incinerazione in urne a capanna. Poco sappiamo delle aree abitate che sembrano essere state però disseminate di molti piccoli villaggi costituiti da capanne a pianta circolare o ovoidale. La capillarità e l’omogeneità degli insediamenti fa pensare a un gigantesco processo di colonizzazione, avviato nel corso del IX secolo a.C., che nel breve giro di due o tre generazioni deve aver occupato tutta l’area di diffusione (dall’Emilia alla Campania).
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A poco a poco, dall’uniformità dei piccoli villaggi villanoviani cominciarono a emergere nettamente alcuni centri che, a metà dell’VIII secolo a.C., assunsero un evidente carattere di superiorità demografica ed economica su aree di territorio sufficientemente ampie. In questo processo di trasformazione, del resto vario e difforme, all’inizio furono avvantaggiate le comunità della fascia meridionale posta tra l’Albegna e il Tevere, perché più coinvolte nel traffico commerciale marittimo: prima di tutto il ‘‘sistema” di Tarquinia, poi quelli di Veio, Caere, Vulci, Vetulonia. In seguito la stessa novità si affermò anche nelle zone più interne dove sorsero centri minori collegati attraverso valli fluviali alle città maggiori e alla costa. Le città etrusche, fin dalle origini, si proposero come obiettivo di controllare i luoghi di produzione dei metalli e assicurarsi la disponibilità e lo sviluppo delle vie commerciali, sia per mare, sia per terra. Naturalmente esse attrassero il ceto dominante, ma anche il ceto medio che si andava affermando grazie all’industria dei metalli e al commercio. Si definì così, nei decenni iniziali del VII secolo a.C., la distinzione tra città e campagna, si incrementarono le attività artigianali, si sviluppò l’industria metallurgica, si diffuse l’uso della scrittura come sussidio indispensabile al commercio, si rinforzò la struttura sociale dominata da potenti nuclei di famiglie gentilizie che diedero vita a un sistema di vita ‘‘clientelare” e a istituzioni di regimi di tipo monarchico.
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Le varie città etrusche non costituiranno mai una compagine politico-amministrativa unitaria e, come quelle greche e quelle fenicie, adottarono la struttura politica della città-stato. Anche se indipendenti, le città erano riunite in un’alleanza o lega di tipo religioso, e forse anche militare, e da una stretta collaborazione commerciale. Si trattava di una sorta di federazione costituita da dodici (o forse quindici) città e perciò detta Dodecapoli; di queste città non conosciamo né il nome né l’epoca nella quale furono associate, ma poiché ben più di dodici erano le metropoli che potevano aver fatto parte di questa federazione, si deve supporre che esse si siano avvicendate nel tempo, quando la decadenza di una accelerava l’ascesa di un’altra. In origine, a capo di ogni città-stato stava probabilmente il lucumone, un personaggio regale sostituito in seguito, come avvenne anche nelle poleis greche, da un’oligarchia nobiliare costituita da famiglie delle quali conosciamo i nomi (i Maru di Cerveteri o i Pompu di Tarquinia) e i tumuli destinati ai membri della stessa stirpe. Dalle iscrizioni si ricavano i nomi di diverse magistrature, ma non sono esattamente definibili le funzioni dello zilath, del purth o del maru. Di fronte alla classe privilegiata, la plebe era in gran parte in condizione di clientela o, forse, di servitù della gleba.
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Nella prima metà del VII secolo a.C., gli etruschi dei principali centri del Sud hanno già portato a compimento il processo di urbanizzazione e danno inizio a una vicenda che li vedrà per un secolo e mezzo tra i grandi protagonisti della storia mediterranea, insieme ai greci delle colonie e ai fenici di Cartagine.
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Nel VI secolo a.C. l’Etruria divenne il principale mercato dei prodotti artigianali greci. Allo stesso tempo, la vitalità e il dinamismo delle sue città determinò un accentuato sviluppo delle attività produttive destinate non solo al mercato interno ma soprattutto all’esportazione. I centri dell’Etruria meridionale, economicamente e politicamente più potenti, diedero allora inizio a precisi e arditi programmi di espansione che miravano ad assicurare il controllo dei mercati e delle vie di comunicazione. Quindi gli etruschi si volsero verso il vicino Lazio, ma anche verso regioni più lontane che, come la Campania, facilitassero il contatto con il mondo greco, o che, come la Liguria o la Provenza, non disponessero di un’autonoma rete mercantile. Tale espansione avvenne in modi e forme diverse. L’espansione nel Lazio determinò una vera supremazia politica con l’acquisizione di un saldo controllo dei più importanti nodi di traffico: Praeneste (Palestrina) a guardia della valle del Sacco e sede del tempio della Fortuna Primigenia, uno dei più importanti e frequentati santuari d’Italia fino al IV secolo a.C., ma soprattutto Roma che dominava il guado sul Tevere. Qui transitava la più importante via di terra che attraversava l’Italia da nord a sud, passaggio obbligato per i traffici etruschi verso le città del meridione e il mondo greco peninsulare. Nel 616 a.C., secondo la tradizione sostanzialmente confermata dall’archeologia, a Roma si insediò la dinastia di origine etrusca dei Tarquini. La penetrazione in Campania avvenne attraverso l’intensificazione dei contatti con antichi centri di cultura ‘‘villanoviana”, come quello di Capua sul fiume Volturno, di Nola e di Pontecagnano presso Salerno; in Liguria e in Provenza, infine, furono creati scali marittimi e piccoli empori in cui si congiungevano le rotte provenienti dall’Etruria e le vie naturali del retroterra.
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La tradizione riferisce che a Roma regnarono i sovrani etruschi Tarquinio Prisco (616-579 a.C.), Servio Tullio (579-535 a.C.) e Tarquinio il Superbo (535-509 a.C.): ciò in realtà significa che per un lungo periodo Roma fu ‘‘dominata” dagli etruschi. Ecco come, secondo Tito Livio, Tarquinio Prisco riuscì ad assicurarsi il potere:
‘‘Lucumone arrivò in città con la moglie Tanaquilla e, presovi alloggio, dichiarò il nome di Lucio Tarquinio Prisco. Il fatto che fosse straniero e molto ricco lo rese subito interessante agli occhi dei romani, e lui faceva di tutto per aumentare la sua popolarità, finché la sua fama giunse alla reggia ... Alla fine il re Anco Marzio, nel testamento, lo nominò tutore dei suoi figli (Alla morte di Anco Marzio) i figli erano ormai vicini alla maggiore età. Per questo Tarquinio si dava daffare perché si tenessero i comizi che dovevano eleggere il nuovo re: appena furono indetti, egli allontanò da Roma i giovinetti organizzando per loro una battuta di caccia ... Tarquinio fu eletto re con il pieno consenso del popolo. E anche quando fu re, quest’uomo di grande valore sotto ogni aspetto, conservò lo stesso desiderio di popolarità che aveva avuto nell’aspirare al potere”.
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Non meno vigorosa dell’espansione via terra, documentata dall’archeologia, fu quella marittima di cui abbiamo notizia dalle fonti letterarie greche (Strabone, Diodoro Siculo, Pausania, Erodoto) che parlano di accese rivalità per il controllo delle rotte e danno notizia di vere e proprie battaglie navali, le prime che si conoscano nella storia dell’Occidente. Il Tirreno era nel VI secolo a.C. teatro di azioni commerciali e piratesche di greci, punici ed etruschi e l’espansione etrusca non poté svilupparsi senza fenomeni di concorrenza e di aperti conflitti con le altre due nazioni mercantili del Mediterraneo. Con i cartaginesi le città etrusche scelsero la via degli accordi, dividendo il Mare Tirreno in zone d’influenza. Una prova di collaborazione tra i due popoli è data dalle lamine d’oro scoperte a Pyrgi, porto di Caere. I rapporti degli etruschi con i greci si configurarono invece in ripetuti scontri avvenuti nel corso del VI secolo e fino agli inizi del V a.C. al largo delle isole Eolie: ad affrontarsi furono i coloni rodii e cnidii di Lipari e gli etruschi di non sappiamo quale città che disturbavano i traffici (o addirittura miravano a porli sotto il loro controllo) attraverso lo stretto di Messina, sulla rotta dall’Egeo al Tirreno. Gli storici greci non hanno dubbi sulla vittorie dei loro connazionali e a conferma citano i doni (bottini di guerra) che i liparesi avrebbero dedicato al tempio di Apollo a Delfi. Si trattava comunque, per il momento, di scorrerie e non di scontri decisivi, ma l’urto violento che avrebbe sancito il dominio etrusco del Tirreno orientale era prossimo.
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La colonizzazione greca in Occidente fu promossa soprattutto da Corinto e Megara. I corinzi si diressero dapprima verso le coste dell’Epiro e dell’Illirico poi si volsero alla Sicilia dove Siracusa rimase a lungo la colonia più fiorente. I megaresi, da parte loro, partendo dalla base siciliana di Mègara Iblea diedero origine ad altre colonie tra le quali Selinunte che era l’ultimo avamposto greco prima degli stanziamenti fenici che avevano i loro centri a Mozia e a Ponormo (Palermo). Un’altra città molto attiva nella colonizzazione fu Calcide, nell’Eubea, che in Sicilia fondò nel 750 a.C. Zancle (Messina) e poco dopo Catania e Leontini (Lentini) alle due estremità della pianura del Simeto; più tardi fu la volta di Cuma, in Campania, dove i calcidesi furono bloccati dagli etruschi che aspiravano anch’essi alle fertili terre campane; i cumani fondarono allora nel VII secolo a.C. Neapolis, la “città nuova” che sostituì l’antica Partenope. Anche Rodi e Creta si inserirono nella colonizzazione della Sicilia con Gela e Akragas (Agrigento); rodii e cnidii (di Cnido, nella Caria) colonizzarono poi le isole Eolie. Le coste del golfo di Taranto e quelle tirreniche della Calabria fino a Posidonia (che i romani chiamarono Paestum) erano occupate da stirpi greche meno progredite culturalmente delle genti corinzie, calcidiche o megaresi, eppure fu proprio questa la Magna Grecia, cioè Grande Grecia perché della madrepatria aveva lo spirito, i principi e la cultura. Taranto, fondata dagli spartani dai quali si staccò completamente come concezione culturale, fu uno dei maggiori centri economici; Locri era colonia delle genti della Locride; Metaponto, Sibari e Crotone furono invece fondazioni achee. La colonizzazione greca si spinge ben oltre le coste dell’Italia meridionale e della Sicilia ma i nuovi arrivati dovettero competere sia con i celti della Gallia che non permisero la penetrazione all’interno pur consentono alle colonie della costa – come Massalia (Marsiglia) dei focesi – di svolgere un’attività essenzialmente commerciale, sia con etruschi e fenici che già si dividevano il dominio del mare Tirreno.
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Uno degli episodi salienti della lotta tra etruschi e greci per il controllo dei traffici marittimi si svolse intorno al 540 a.C. nelle acque del Tirreno, e più precisamente al largo della Corsica. Esso fu provocato dall’intrusione dei focesi nel mare ‘‘di casa” degli etruschi e, in particolare, dalla fondazione della colonia di Alalia (Aleria) sulla costa orientale della Corsica, proprio di fronte alle coste etrusche. Per sfuggire alla minaccia persiana, i coloni di Focea, nella Ionia, si erano trasferiti a più riprese in Occidente e già intorno al 600 a.C. avevano fondato la colonia di Massalia (Marsiglia) alle foci del Rodano, nel territorio dei celti. Naturalmente i massalioti si erano affrettati a installare basi marittime e scali commerciali in Liguria e nel Golfo del Leone che avevano duramente colpito gli interessi degli etruschi e messo in allarme i cartaginesi da poco insediati in Sardegna; tanto più che i greci di Massalia avevano tentato di aprirsi un mercato nel regno di Tartesso dove i fenici avevano forti interessi. Quando l’ultima ondata dei focesi si stabilì sulla costa còrsa facendo di Alalia la base delle loro scorrerie nel Tirreno, gli etruschi furono costretti a reagire: l’iniziativa fu di Caere, forse in quel momento la città più potente, la quale si alleò con Cartagine. I focesi, battuti duramente sul mare, dovettero abbandonare la Corsica per andare a stabilirsi a Elea (o Velia, presso Paestum, in ordine di tempo l’ultima grande colonia della Magna Grecia) e gli etruschi ebbero il controllo della Corsica e dell’Elba. Diodoro Siculo afferma che Alalia fu dagli etruschi ribattezzata Nikaia (Vittoria).
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Lo scontro navale fra etruschi e cartaginesi contro i focesi di Alalia ci è stato riferito da Erodoto che, da greco, cerca di minimizzare la sconfitta focese. Parla infatti di vittoria ‘‘cadmea”, il che equivale a quella che fu poi definita una ‘‘vittoria di Pirro”, cioè con perdite tanto grandi da eguagliare una sconfitta.
‘‘Quando i focesi giunsero a Kyrnos (la Corsica), vi soggiornarono per cinque anni insieme ai coloni che vi si erano sistemati precedentemente e vi eressero templi. Poiché intrapresero scorrerie saccheggiando tutte le popolazioni limitrofe, allora tirreni e cartaginesi si strinsero in un accordo e mossero guerra contro di loro, con sessanta navi. I focesi, a loro volta, armarono altre sessanta navi e si diressero contro i nemici nel mare che si chiama Sardonio. I focesi ottennero una vittoria cadmea, poiché quaranta delle loro navi furono distrutte e le restanti venti rimasero inservibili, dato che i rostri erano rovinati. Ritornarono dunque ad Alalia, presero a bordo i figli, le donne e quanti dei loro beni potevano trasportare e, lasciata Kyrnos presero la rotta per Reggio”.
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Con il tardo VI secolo a.C., nel periodo successivo alla vittoria di Alalia gli etruschi toccarono l’apice della loro potenza. I trattati con gli alleati cartaginesi garantivano loro l’allargamento della zona d’influenza etrusca su tutta l’Italia continentale, esclusa la Magna Grecia, e il controllo del medio e alto Tirreno. Essi seppero approfittare della favorevole situazione e affermarono la loro presenza sul mare e in terraferma. Con la Corsica in loro possesso fu facile ricucire lo strappo con i greci di Massalia e riorganizzare la rete commerciale lungo le coste a nord dell’Arno appoggiandola alla nuova base strategica di Pisa e ad empori fissi aperti lungo la costa ligure. Per terra, le città dell’Etruria settentrionale interna (Volterra, Chiusi, Volsinii) iniziarono una vigorosa penetrazione verso Nord. Attraverso le facili vallate dell’Appennino (come la valle del Reno, in cui sorse Marzabotto) i coloni dell’Etruria sboccarono nella Valle Padana dove sorse Felsina (l’odierna Bologna), sul luogo del più cospicuo abitato villanoviano, e raggiunsero l’Adriatico, sulle cui rive fu fondata Spina, centro attivissimo di scambio col mondo greco. Se l’area comprendente Marzabotto, Felsina e Spina costituì il nucleo principale dell’Etruria padana, l’espansione etrusca si estese fino a Modena e a Parma e, oltre il Po, a Mantova e a Melpo (forse Melzo, presso Milano), tutte tradizionalmente considerate di fondazione etrusca. Nel resto dell’Italia settentrionale e centrale, anche là dove non si ebbe occupazione diretta da parte degli etruschi, si esercitò però la loro influenza culturale. Verso il 500 a.C., insomma, la civiltà etrusca sembra procedere a grandi passi verso l’unificazione culturale, se non politica, di buona parte dell’Italia, compiendo, con tre secoli di anticipo, quanto riuscirà a Roma dopo la seconda guerra punica. Invece, dopo il VI secolo, subentrò, rapido, il declino.
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Il prodigioso periodo di fioritura dell’Etruria non dura a lungo, a causa soprattutto della fragilità del ‘‘sistema”. Le singole città-stato, infatti, continuano a operare ognuna per proprio conto, senza programmi di ampio respiro e in assenza di qualsiasi effettivo coordinamento.
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Il cambiamento di tendenza fu piuttosto repentino, tanto che si parla di ‘‘crisi”. Essa viene collegata alla nuova situazione mediterranea conseguente alla guerre persiane e con le contemporanee turbolenze della penisola italiana, ma per le grandi città-stato del Sud la crisi si innestò nei cambiamenti istituzionali che sfociarono nell’instaurazione di regimi repubblicani retti da oligarchie aristocratiche e nella conseguente accentuazione delle tensioni sociali. Una prima crisi si presentò comunque come conseguenza, o contraccolpo, dell’occupazione della Ionia da parte dei persiani (517 a.C.) la quale determinò il crollo del sistema commerciale ionico in cui gli etruschi erano ben inseriti; né migliorarono la situazione le rivalità armate tra le città della Magna Grecia che determinarono, a esempio, la distruzione di Sicari da parte della rivale Crotone (510 a.C.). In più nel 509 a.C. la dinastia etrusca dei Tarquini fu cacciata da Roma con la conseguente rottura dell’equilibrio politico-economico che fino ad allora si era mantenuto tra il Lazio latino e le città dell’Etruria meridionale. Della situazione tentò di approfittare Chiusi, che con il lucumone Porsenna impose alla città la propria effimera egemonia, fino a quando la reazione della greca Cuma, che si alleo con i latini (battaglia di Ariccia, 504 a.C.), spense ogni ulteriore velleità degli etruschi di imporsi sul Lazio.
[22421]
La perdita del Lazio rese più importante la presenza dell’etrusca Capua nel territorio campano. La città, che godeva allora di una splendida fioritura manteneva aperti i contatti via mare con le città-stato dell’Etruria meridionale; non riuscì però, nonostante i ripetuti attacchi, ad avere la meglio su Cuma. La pressione che attraverso Capua le città etrusche mantenevano in direzione della Sicilia provocò la reazione della nascente potenza di Siracusa che nel 480 a.C., avevano bloccato a Imera i tentativi di espansione dei cartaginesi in Sicilia. Nel 474 a.C. la flotta dei siracusani affrontò e distrusse quella etrusca nelle acque di Cuma, fiaccando, insieme alla potenza navale, l’attività commerciale internazionale delle città etrusche il cui monopolio passò completamente ai cartaginesi. Le grandi metropoli dell’Etruria meridionale (Caere, Tarquinia, Vulci) entrarono in crisi e abbandonarono ogni velleità di riscossa, incapaci anche di impedire scorrerie e saccheggi dei siracusani sulle proprie coste: nel 453 e nel 451 a.C. i siracusani tentarono addirittura di insediarsi nell’Isola d’Elba attratti dalle sue risorse minerarie. Della crisi delle città costiere approfittarono quelle interne legate a un’economia agricola (Chiusi, Arezzo, Cortona, Volterra, Perugia) e che godevano anche delle risorse dello sfruttamento commerciale offerto dai mercati dell’Etruria padana e dei traffici dell’Adriatico.
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Sul finire del V secolo a.C. iniziò il lento ma progressivo processo di penetrazione romana in Etruria. Esso fu diverso da città a città, a seconda dell’atteggiamento che le classi dominanti assunsero di fronte alla conquista romana, e diverse furono perciò anche le condizioni con cui esse furono ‘‘accolte”, con le buone o con le cattive, nella confederazione romana. Veio, a esempio, dopo uno scontro che si era prolungato per tutta la seconda metà del V secolo a.C., fu distrutta e il suo territorio venne incorporato nello stato romano; Caere invece, legata a Roma al punto di accogliere i profughi romani, con i sacerdoti, le vestali e i simboli sacri dell’Urbe durante il sacco dei galli del 387 a.C., diventerà nel 353 a.C. municipio senza diritto di voto. Di fronte al pericolo reale di un assorbimento o di una conquista da parte dei romani, la reazione degli etruschi furono come sempre prive di qualsiasi coordinamento; anzi, l’esasperato particolarismo e le mai sopite rivalità facilitarono la penetrazione romana e ad una ad una, nel corso del VI-III secolo, le città etrusche persero la propria indipendenza, se non la propria identità. Così nel 351 a.C. Tarquinia, dopo una serie di ostilità con Roma che duravano dal 358 a.C., accettò una tregua di quaranta anni, che sarà rinnovata nel 308 a.C. Nel 302 a.C. Roma intervenne ad Arezzo a favore degli aristocratici locali per sedare un’insurrezione democratica e, di fatto, pose l’oligarchia al proprio servizio. Roselle sarà invece sconfitta nel 283 a.C., come Vulci nel 280 a.C. e Volsinii (Orvieto) nel 264 a.C. Alla fine del III secolo a.C. l’Etruria era ormai completamente nell’orbita romana visto che molte sue città contribuiranno nel 205 a.C. con aiuti di varia natura alla spedizione di Scipione in Africa, contro Cartagine.
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La repubblica romana era una confederazione romano-italica sotto l’egemonia dell’Urbs, in cui il territorio abitato da cittadini romani rappresentava una parte modesta. Alla confederazione appartenevano sia le città che godevano in pieno dei diritti di cittadinanza romana (municipia optimo iure), sia quelle dotate di larga autonomia amministrativa i cui cittadini, pur usufruendo dei diritti civili, non potevano votare e accedere alle cariche pubbliche (municipia sine suffragio). I rimanenti popoli e città legati a Roma costituivano i confederati (socii, civitates foederatae) e le loro relazioni con l’Urbe erano diverse a seconda se l’accordo era avvenuto pacificamente o in seguito a una conquista. Altro importante elemento dello stato romano erano le colonie dedotte fra i popoli vinti. Esse avevano i propri magistrati e le proprie assemblee ma, in base alla provenienza dei coloni, potevano essere colonie romane con diritto di cittadinanza o colonie latine in condizione simile alle città federate.
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Iniziata nel 447 a.C., la guerra contro Veio ebbe varie fasi e si concluse nel 396 a.C., dopo dieci anni di assedio, con la distruzione della città a opera del dittatore Marco Furio Camillo. Tito Livio racconta così la presa di Veio.
‘‘L’elezione a dittatore di Furio Camillo risvegliò la speranza nell’animo dei soldati. Egli ricondusse l’esercito a Veio, cominciò sa far costruire un cunicolo sotterraneo sotto la rocca dei nemici, e questa fu l’opera più grande e faticosa di tutte. Per non interrompere il lavoro e perché i soldati non fossero sfiniti dalla continua fatica sotto terra, Camillo li divise in sei turni. Ogni turno lavorava un’ora su sei e riposava per cinque ore. E si andò avanti giorno e notte finché non fu aperta una via fin dentro la rocca. Il dittatore, che già vedeva la vittoria a portata di mano e pensava che avrebbe preso la ricchissima città e fatto tanta preda in una sola volta, attaccò la città. I veienti non potevano immaginare che le mura fossero state scavate dal di sotto, e che la città fosse già piena di nemici. Infatti, dal passaggio sotterraneo i soldati uscirono proprio all’interno del tempio di Giunone, che era sulla rocca di Veio: mentre alcuni si buttavano sui nemici intenti a difendere le mura, cogliendoli di sorpresa alle spalle, altri spalancarono le porte, altri ancora appiccarono il fuoco alle case. Subito si levò un clamore di gente atterrita, misto al pianto delle donne e dei fanciulli. In un momento la città si riempì di nemici; si combatteva da ogni parte. Infine, dopo la strage, la battaglia languì e Camillo ordinò che non si combattesse contro i cittadini inermi. I soldati, col permesso del dittatore, cominciarono allora a darsi d’attorno a fare preda”.
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Poco prima del 500 a.C. l’Etruria padana fu investita dall’invasione dei galli (o celti), popolazioni indoeuropee che da tempo si erano stabilite in Gallia. Essi penetrarono nell’Italia settentrionale, probabilmente in più ondate, attraverso i valichi delle Alpi occidentali e centrali, ricacciarono o soggiogarono le genti liguri del Piemonte e della Lombardia e si scontrarono quindi contro la resistenza dell’Etruria padana. La tradizione conserva il ricordo di una sconfitta subita dagli etruschi sulla riva del Ticino, tanto che a breve distanza dall’etrusca Melpo sorse un nuovo centro, la gallica Mediolanum (Milano). Più lunga resistenza oppose la metropoli dell’Etruria padana, Felsina; ma anch’essa, alla metà del IV secolo a.C., cedette e divenne la gallica Bononia. Oltre Felsina i galli raggiunsero l’Adriatico e si spinsero fino al fiume Esino, a nord di Ancona. Il territorio conquistato fu diviso tra varie tribù: insubri e cenomani in Lombardia, boi in Emilia, lìngoni in Romagna, sénoni nel Piceno ecc. Né la forza espansiva dei galli si era ancora esaurita: nel corso del IV secolo essi compirono varie escursioni a sud dell’Appennino e giunsero fino a Roma (387 a.C.). Nello stesso periodo dell’invasione dei galli, altri popoli, questa volta italici, si mossero dalle loro sedi della dorsale appenninica. Da quello che era il baricentro della nazione osca, il Sannio, mossero gli irpini che si stabilirono tra Benevento e Venosa, i lucani che dilagarono fino allo Ionio, i bruzi che raggiunsero la Calabria e i campani che, con altre tribù affini, occuparono la Campania. Qui le tribù italiche sommersero sia gli etruschi che i greci: Capua cadde in loro potere nel 423 a.C., Cuma due anni dopo.
[2251]
L’ultimo periodo della storia etrusca è stato definito dell’Etruria federata, in quanto le città-stato, costrette a federarsi con Roma, confondono da ora in poi, pur conservando una peculiare identità, le loro vicende con quelle dell’Urbe e dell’Italia progressivamente unificata dai romani.
[22511]
La federazione tra Roma e le città etrusche fece parte della più grande federazione romano-italica organizzata da Roma su tutta la penisola, e nella quale i rapporti e i vincoli di alleanza riguardavano esclusivamente ogni singola entità e la città egemone. A fondamento del nuovo ordine stavano cioè i trattati che presentavano, a seconda dei casi, clausole diverse da città a città, particolarmente dure per quelle che più direttamente e duramente si erano opposte a Roma. Alcune metropoli (come Vulci, Tarquinia, Caere) persero addirittura ampie parti dei loro territori dove Roma fondò, durante il III secolo a.C., colonie proprie (è il caso di Fregene, Gravisca, Cosa ecc.). A tutte le città i patti imposero di rinunciare a qualsiasi azione politica autonoma, di riconoscere come propri nemici i nemici di Roma, di fornire a questa aiuti in caso di bisogno, di mantenere gli ordinamenti istituzionali fondati sul potere delle oligarchie, di accettare o richiedere l’intervento di Roma in caso di gravi turbamenti sociali o politici interni. In cambio della perdita della sovranità, alle città etrusche fu consentito di continuare a vivere secondo le proprie tradizioni, di mantenere le proprie leggi, la propria lingua e la propria religione. La rottura dei patti prevedeva dure e immediate sanzioni: quando nel 264 a.C. Volsinii cacciò gli esponenti dell’oligarchia dominante, la città fu distrutta dai romani e gli abitanti deportati in una nuova sede, il sito dell’attuale Bolsena (Volsinii Novi).
[22521]
Dopo che Roma, a seguito della prima guerra punica, sostituì Cartagine nel controllo del Tirreno, l’Etruria divenne la base delle operazioni romane contro i liguri e contro i galli che, nelle loro frequenti incursioni, si spinsero fino a Talamone (225 a.C.). L’impresa di Annibale del 218 a.C. toccò solo marginalmente l’Etruria, ma risvegliò qualche sopito desiderio di rivalsa e persino qualche seria agitazione, ma i patti vennero fondamentalmente rispettati. Le città etrusche fornirono anzi il loro contributo alla resistenza e poi alla reazione romana prendendo parte all’allestimento della spedizione di Scipione contro Cartagine. In questa occasione Caere fornì frumento e viveri di vario genere; Tarquinia tela di lino per le vele; Roselle, Chiusi e Perugia legname per la costruzione delle navi e frumento; Populonia ferro; Volterra frumento; Arezzo, che più di ogni altra città etrusca era stata sospettata di simpatie verso Annibale, si riscattò con 3000 scudi e altrettanti elmi, 100 mila giavellotti, 100 mila moggi di grano e rifornimenti di ogni genere per 40 navi. Il contributo etrusco durò poi per tutto il II secolo a.C. nelle numerose guerre che condussero Roma alla creazione del suo impero. Tra il 90 e l’89 a.C., durante la guerra civile, l’Etruria si trovò in gran parte schierata con la fazione popolare guidata da Caio Mario e per questo subì le pesanti vendette di Lucio Silla quando questi, sconfitti i mariani, divenne dittatore e padrone dello stato: Arezzo Fiesole e Volterra furono saccheggiate e private della cittadinanza romana. Nel 63 a.C. l’Etruria appoggiò la congiura di Catilina che proprio a Pistoia venne sconfitto e ucciso l’anno successivo; nel 14 a.C. Perugia fu messa a ferro e fuoco da Ottaviano per aver accolto fra le sue mura Lucio, fratello del rivale Marco Antonio. Nel 27 a.C. quando Augusto divise la penisola italiana in XI regioni, la VII fu l’Etruria.
[231]
Gli etruschi erano concordemente celebrati dagli antichi come ‘‘costruttori di città” e diffusa era la convinzione che essi fossero stati i primi ad attuare in Italia il modello della struttura urbana. In effetti, mentre nella penisola la maggior parte delle popolazioni continuava a vivere nella tradizione storica del ‘‘villaggio” gli etruschi, sotto l’influenza del modello greco, si concentrarono in organismi urbani. ‘‘Civiltà della città”, quindi, quella degli etruschi, intesa non solo nel senso fisico e materiale, ma soprattutto nel senso politico e ideologico che fa della città l’organismo e il centro in cui sono ordinate e concentrate tutte le strutture del vivere insieme.
[2311]
Degli aspetti e delle consuetudini della vita quotidiana, pubblica e privata, degli etruschi non ci è giunta alcuna documentazione letteraria diretta, mentre abbiamo, per fortuna, un’importante fonte complementare costituita sia dagli oggetti portati in luce dall’archeologia e rinvenuti per la maggior parte nelle necropoli, sia dalle rappresentazioni figurate con scene di vita presenti nelle tombe; queste ultime, tra l’altro, ci consentono di reintegrare nell’uso quotidiano gli stessi oggetti reali.
[23111]
Il ruolo di sostanziale parità sociale che nel mondo etrusco la donna ebbe nei riguardi dell’uomo scandalizzò i greci che confinavano spose e figlie nel gineceo ad occuparsi esclusivamente dei lavori domestici. Le donne etrusche, come appaiono nelle rappresentazioni figurate, partecipavano alle varie fasi del banchetto distese sullo stesso letto dell’uomo, così come insieme prendevano parte alle diverse manifestazioni della vita quotidiana che si svolgevano fuori delle pareti domestiche (gare atletiche, spettacoli, cerimonie ecc.). Il fatto che in molte pitture le donne a banchetto abbiano un velo sulla testa le qualifica come mogli e non come cortigiane. La parità è dimostrata anche in altri ambiti, per certi versi più significativi. L’indicazione onomastica ufficiale dei cittadini di pieno diritto, contrariamente all’uso invalso in Grecia e a Roma, era completata spesso col nome del padre e con quello della madre; inoltre una donna etrusca, che non fosse schiava, era denominata sempre con un nome personale e uno di famiglia, mentre delle più illustri donne romane ci sono giunti solo i nomi di famiglia (Cornelia, Calpurnia ecc.). In molte iscrizioni, poi, la proprietà di un oggetto è attribuita a una donna, segno di parità anche giuridica. Alle donne venivano inoltre dedicati gli stessi riti funebri degli uomini ed erano titolari di tombe, come dimostrano alcune iscrizioni della necropoli del Crocefisso del Tufo a Orvieto.
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In Grecia, e specialmente ad Atene, le sole donne a partecipare ai banchetti e alla vita pubblica con gli uomini erano le ‘‘etere”, ossia le ‘‘compagne” o cortigiane. Per questo i greci si stupivano e si scandalizzavano della libertà di cui godevano le ‘‘matrone” etrusche e condannarono l’intera vita privata dei ‘‘tirreni” con il marchio di sfrenata lussuria e di scostumatezza. Tra i più accaniti detrattori c’è lo scrittore Teopompo (IV secolo a.C.), per altro definito maledicentissimus, la lingua più velenosa della letteratura greca, da Cornelio Nepote (I secolo a.C.). Scrive Teopompo:
‘‘In occasione di riunioni di società o di parentado i tirreni si comportano come segue: anzitutto, quando hanno finito di bere e si dispongono a dormire, e mentre le fiaccole sono ancora accese, fanno entrare i servi, ora cortigiane, ora bellissimi giovani e qualche volta le loro mogli. Dopo aver soddisfatto le loro voglie con le une e con gli altri, fanno coricare giovani vigorosi con questi o con quelle. Fanno all’amore e si danno ai loro piaceri talora alla presenza gli uni degli altri... Le donne curano molto il loro corpo, fanno ginnastica con gli uomini e spesso si presentano nude. Banchettano accanto non ai propri mariti ma a chi capita, bevendo alla salute di chi vogliono. Sono anche grandi bevitrici e belle”.
[23121]
I dati relativi al banchetto, espressione della potenza e ricchezza di un signore, si ricavano dalle fonti figurate, numerosissime tra il VII e il II secolo a.C.
Il banchetto solenne si articolava in due momenti successivi: quello in cui si mangiava, e quello (simposio) in cui ci si intratteneva, bevendo, in conversazione o in giochi di società. I commensali, da soli o in coppia, si stendevano su bassi letti appoggiandosi col gomito sinistro a un cuscino, avvolti spesso in una coperta decorata. Le mogli erano presenti a fianco dei mariti. Le mense venivano imbandite con carne e selvaggina, formaggi, focacce, pani, uova, dolci a forma di piramide, melagrane, uva, salse per il condimento. I rifiuti del pasto erano gettati sul pavimento e mangiati dai cani presenti nella sala insieme a gatti e a gallinacei. La bevanda era il vino, che veniva mischiato all’acqua in un grande vaso dalla bocca larga, da cui giovani coppieri attingevano con crateri, anfore e brocchette per servire i convitati. La riunione era allietata da musici, danzatori e danzatrici, acrobati. Sappiamo che presso i greci, argomento frequente di conversazione durante il simposio era la mitologia; per gli etruschi è logico supporre che essa si adattasse al tipo di riunione: festino, cerimonia funebre, banchetto familiare.
[23131]
Come testimoniano le fonti antiche e le rappresentazioni figurate, gli etruschi davano una grande importanza alla musica, sia vocale sia strumentale. Essa non serviva solo a rallegrare i conviti, a regolare i movimenti della danza, a enfatizzare i riti e le cerimonie sacre o a infiammare gli animi dei combattenti, ma dirigeva anche la caccia, ritmava le gare sportive, scandiva persino le nerbate che venivano inflitte ai servi negligenti; a suon di musica (come si vede in una tomba di Orvieto) veniva impastato il pane e preparati i cibi. Gli strumenti musicali – e di conseguenza il ritmo, l’armonia, il carattere – erano di derivazione greca e tra essi si preferiva il doppio flauto e la cetra; la tromba sembra invece un’invenzione etrusca. Alla musica si univa frequentemente la danza. Nelle figurazioni funerarie appaiono spesso danzatori (isolati, in coppia o a gruppi) i cui atteggiamenti suggeriscono un tipo di danza molto scandita e ritmata (quasi certamente a tre tempi), con movimenti rapidi e decisi della testa e delle mani. Lo stretto rapporto esistente tra musica e gesto ritrovava forse espressione negli spettacoli scenici in cui appariva il mimo (histrio, da cui il nostro ‘‘istrione”) che si esibiva mascherato accompagnato dal flauto.
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Fonti iconografiche dimostrano come la caccia, soprattutto degli animali di grossa mole, fosse molto diffusa fra l’aristocrazia etrusca. Era praticata ‘‘a suon di musica”, con reti e trappole ma anche con giavellotti, archi, spiedi e asce. Per i cervidi si faceva ricorso ai cani che inseguivano e attaccavano la preda, e s’impiegava talvolta un cervo da richiamo, tenuto con una briglia dal cacciatore. Per il cinghiale si organizzavano vere e proprie battute, con appostamento lungo i sentieri più frequentemente percorsi dall’animale. Gli etruschi dei ceti meno abbienti cacciavano animali selvatici più piccoli, utilizzando archi, fionde e trappole. Per la caccia alla lepre, oltre ai cani, si utilizzava un bastone ricurvo, il “legabolo”, per snidare e abbattere l’animale. Anche il pesce ebbe, nell’alimentazione etrusca, un ruolo importante. Ami, arpioni, fiocine, reti, lenze, pesi di vario genere e misura testimoniano sin da epoca molto antica quanto diffusa fosse la pesca nei mari (specie ai tonni), nei fiumi e nei laghi italiani. Rarissime però, a differenza della caccia, sono le raffigurazioni pittoriche, poiché la pesca fu sempre considerata un’attività modesta e poco gloriosa.
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Claudio Eliano (170-235 d.C.), autore di un Trattato sulla natura degli animali in cui riferiva un gran numero di curiosità e stranezze sul loro comportamento, scrisse a proposito della caccia a cinghiali e cervi:
‘‘Si dice frequentemente in Etruria, dove i cinghiali e i cervi vengono catturati come di consueto con l’impiego delle reti, che aiutandosi con la musica il successo è maggiore. Ecco come: si tendono le reti e si piazzano le trappole, quindi viene fuori un flautista di talento che, evitando i toni alti, esagera quelli più dolci che il doppio flauto sa produrre. Nel silenzio più assoluto questa musica arriva fin sulle cime dei monti, nelle vallate e nei boschi e penetra in tutti i covi e i nascondigli degli animali. Questi dapprima rimangono stupiti e terrorizzati, poi il puro e irresistibile piacere della musica s’impadronisce di loro e, affascinati, abbandonano i cuccioli, la tana e i sentieri più nascosti dai quali non amano normalmente allontanarsi. Così gli animali delle foreste tirreniche, trascinati dal potere della melodia e come stregati, s’avvicinano e, vittime della musica, entrano nelle reti”.
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Come per tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche nel caso dei giochi atletici e delle gare sportive le notizie che abbiamo provengono dalle rappresentazioni figurate. Delle manifestazioni sportive testimoniate presso gli etruschi alcune sono documentate contemporaneamente anche in Grecia, altre non hanno invece riscontro nel mondo greco e appartengono alla tradizione locale. Come i greci, gli etruschi si cimentavano nella corsa podistica, nella corsa dei carri, nel salto in lungo, nel lancio del disco e del giavellotto, nel pugilato, nella lotta; tipicamente etruschi sono invece il gioco di Troia e del Phersu. Il primo (ludus Troiae), descritto dagli scrittori classici romani, era un’esibizione di eleganza e di destrezza riservata ai giovani nobili che non superassero i diciassette anni: armati di tutto punto e in sella a un cavallo, compivano evoluzioni seguendo lo schema ideale di un labirinto concentrico. Di tutt’altro genere era il Phersu, di cui abbiamo una rappresentazione nella Tomba degli Aùguri di Tarquinia: un uomo incappucciato, con in mano un bastone, cerca di difendersi dagli assalti di un cane inferocito, tenuto a un lungo guinzaglio e aizzato da un personaggio con copricapo e maschera che un’iscrizione denomina Phersu (è evidente l’accostamento alla parola latina persona, che significa appunto ‘‘maschera”). Il carattere violento e cruento del Phersu richiama i giochi gladiatori che i romani dicevano essere di origine etrusca. Giochi atletici e gare facevano parte delle celebrazioni funebri, ma non ebbero però solo carattere funerario; si svolgevano infatti anche nei santuari in occasioni di feste o di riunioni straordinarie.
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Le vesti etrusche erano realizzate in lana e in lino, diverse per resistenza, morbidezza e protezione dal freddo. Le fibre venivano filate dalle donne, anche di alto lignaggio ma, tra esse, solo alcune si specializzavano nella tessitura, che veniva tramandata di madre in figlia. Nei periodi più antichi le donne indossavano tuniche e mantelli, probabilmente ornati da disegni geometrici e un cinturone ellittico di cuoio con una lamina di bronzo sul davanti. L’abbigliamento maschile non era dissimile da quello femminile e comprendeva anche diversi tipi di perizoma variamente panneggiati che nelle stagioni più calde sostituivano ogni altro indumento; la nudità completa, del resto, non dava scandalo. Dal VI secolo a.C. il capo di vestiario più diffuso per entrambi i sessi divenne il chitone (la tunica di varia lunghezza cucita su un fianco e fissata alle spalle per mezzo di fibule) che poteva presentare pieghettature, fasce colorate all’orlo oppure una decorazione dipinta o ricamata. Sopra, o in alternativa al chitone, erano indossati mantelli di vari tipi, il più comune dei quali era la tabenna semicircolare, portata come uno scialle in modo da lasciare una spalla scoperta, mentre i due lembi si sovrapponevano sull’altra. Le stoffe, come mostrano le pitture, erano colorate con vivaci accostamenti di azzurro, rosso, nero, giallo verde, sia in campiture che in fasce. Anche le calzature (sandali di cuoio, pantofole di panno, stivaletti dalla punta ricurva e con lacci alla caviglia) erano colorate, dorate o ricamate. I copricapi erano molti e vari: tra i più singolari quello ‘‘a sombrero” e il berretto a punta cilindrica usato dagli arùspici. Uomini e donne facevano grande uso di ornamenti in metallo come spilloni, fibule, cinture e di gioielli in genere.
[2321]
L’assetto sociale degli etruschi era basato sulla rigida suddivisione in due strati distinti e contrapposti: da una parte stava la potente e ristretta classe aristocratica, quella che secondo la terminologia latina comprendeva i domini (signori); dall’altra la massa della popolazione subalterna, i servi, che svolgeva attività non specifiche né socialmente caratterizzanti.
[23211]
Sul finire del IX secolo, all’interno della primitiva società villanoviana, cominciò a determinarsi in Etruria la differenziazione sociale che divenne un fatto compiuto tra la metà dell’VIII e quella del VII secolo a.C. Il potere passò allora in mano a famiglie ricche e potenti che in piccoli gruppi (casati) si riconoscevano discendenti da un antenato comune (come le gentes dei romani). La nascita dei gruppi gentilizi trova conferma anche nell’onomastica: abbandonata la vecchia formula del nome individuale seguito dal semplice patronimico (‘‘figlio di”), i nobili adottano l’uso di far seguire al loro nome proprio quello del casato, derivato dal capostipite e passato di padre in figlio. I membri di questa aristocrazia, i domini o signori, non svolgevano alcuna attività produttiva che giudicavano degradante, ma detenevano le leve del potere politico ed economico e le funzioni di guida della comunità. Erano i possessori di terra che mostravano il loro potere, oltre che nella ricchezza dei beni, nell’esercizio delle attività militari. Nel VI secolo, emersero anche le famiglie dei proprietari terrieri appartenenti al ceto medio – che spesso derivavano dai rami cadetti delle famiglie aristocratiche cittadine – le quali finirono con il dar vita a una nuova e più ampia aristocrazia che mise fine al ristretto dominio oligarchico.
[23221]
I servi erano esclusi dalle attività imprenditoriali e dal possesso della terra, non avevano il diritto di esercitare cariche pubbliche, non potevano entrare nell’esercito e tanto meno unirsi in matrimonio con membri dell’aristocrazia. Erano solo dei lavoratori legati da vincoli personali alle casate nobiliari, dalle quali dipendevano completamente. In linea di massima essi si distinguevano nella categoria dei servi domestici (a metà tra il libero e lo schiavo) addetti alla casa e al servizio personale del signore e della sua famiglia, e in quella dei contadini, veri e propri servi ‘‘della gleba”, distribuiti sulle proprietà fondiarie del dominus e perciò fuori dalla città. All’atto pratico questa situazione dovette configurarsi in maniera più sfumata. In alcuni potentati e col passare del tempo, essa si stemperò in una sorta di gerarchismo della classe subalterna e i servi, che non erano schiavi nel senso classico del termine, occuparono livelli diversi di soggezione, godendo quindi di vari stadi di pur relativa libertà, anche con possibilità di concreti miglioramenti. Questo stato di cose è confermato dall’archeologia: nelle necropoli, attorno alle grandi tombe gentilizie, sono spesso presenti tombe minori destinate a famiglie subalterne.
[23231]
Tra il VII e il VI secolo a.C., con il definitivo affermarsi della città e dell’organizzazione urbana, si istituì all’interno della classe subalterna una sorta di gerarchismo. Gli artigiani e i mercanti si arricchirono con le attività produttive o con gli scambi e, pur restando sottoposti all’aristocrazia, seppero conseguire quelle prerogative da cui prima erano esclusi, cioè il possesso di beni e l’uso delle armi che costituivano la ‘‘patente” di cittadino a tutti gli effetti. Inoltre, nella prima metà del IV secolo a.C. cambiò – soprattutto nell’Etruria meridionale – il rapporto tra città e campagna. Per rivitalizzare i centri minori si sviluppò una sorta di ‘‘colonizzazione interna” che portò alla nascita di un numeroso e prospero ceto medio di proprietari terrieri. Più tardi, e soprattutto nell’Etruria settentrionale, i servi della gleba si emanciparono e si trasformarono in coltivatori diretti, proprietari e conduttori di piccoli appezzamenti di terreno, che vivevano dispersi in numerosi insediamenti rurali. Il bipolarismo di fondo della società etrusca venne così temperato da questa nuova e varia classe intermedia, contro la quale la rigida chiusura dell’oligarchia non tarderà a provocare un aperto conflitto, mai completamente risolto (solo attenuato a volte) neppure in età romana.
[2331]
La documentazione diretta per quanto riguarda la vita pubblica e l’assetto istituzionale degli etruschi comincia ad essere soddisfacente solo a partire dal IV secolo a.C. Per i periodi precedenti, accanto alle frammentarie e spesso confuse informazioni degli autori antichi, ci soccorrono per via indiretta le verosimili analogie e i parallelismi col mondo greco e con quello romano.
[23311]
Il formarsi dell’ordinamento gentilizio fece emergere l’autorità di un capo, di un magistrato supremo, che assunse nelle sue mani la sovranità politico-sacrale. Questo ‘‘re” era detto dai romani lucumone, lauxme o lauxume dagli etruschi. Non sappiamo con esattezza se la carica fosse a vita o temporanea, ereditaria o elettiva; accanto al lucumone doveva comunque esistere un senato di aristocratici, forse di anziani delle casate emergenti, e probabilmente un’assemblea costituita da tutti i cittadini che godevano dei diritti politici. Secondo gli scrittori latini, simboli dell’autorità regale dei lucumoni erano la veste di porpora (toga praetetexta o picta), il trono d’avorio (sella curulis), lo scettro, il fascio con la bipenne ed il carro da guerra, tutte insegna di potere rinvenute durante scavi o su raffigurazioni etrusche che risalgono sino al VII secolo a.C. Nella seconda metà del VI secolo a.C., in coincidenza con il definitivo assetto delle città-stato, il regime monarchico deve essere stato in parte modificato: il lucumone passò nelle mani del sacerdote il potere sacro e assunse con la forza (forse anche in contrasto con l’aristocrazia) il pieno potere politico. Sono note in questa fase numerose figure di re storicamente certi, come i Tarquini e Servio Tullio a Roma, Thefarie Velianas a Caere, Porsenna a Chiusi; costoro svolsero una politica personale molto ambiziosa e fortemente connotata in senso militare, alla stessa stregua dei tiranni greci.
[23321]
Tra il VI e il V secolo a.C., come accadde nel mondo greco, in quello latino e in quello fenicio-cartaginese, gli ordinamenti delle città-stato etrusche subirono una crisi sfociata nella costituzione di nuove forme di governo di tipo repubblicano. Si sa che a Roma l’avvento della repubblica fu un’innovazione improvvisa (la cacciata di Tarquinio il Superbo nel 509 a.C.) ma per gli etruschi è più probabile che essa sia stata dovuta a una lenta evoluzione e al progressivo svuotamento dell’istituto monarchico, oppure alla reazione degli aristocratici che non accettavano l’imporsi di singole personalità. Al vertice dello stato repubblicano c’era una magistratura suprema (forse di tipo collegiale e con un presidente) a cui competeva il potere esecutivo e giudiziario. Essa era eletta probabilmente ogni anno tra i membri degli esponenti delle maggiori famiglie aristocratiche che gli autori latini chiamano ‘‘principi” e che nel loro insieme costituivano un’assemblea corrispondente al senato romano. I termini etruschi che indicano i magistrati sono numerosi e non del tutto chiari riguardo le funzioni cui si riferivano: lo zilach indicava forse l’equivalente del praetor latino, ma il titolo era spesso accompagnato da un attributo che ne indicava la particolare funzione; il purth o puthne si pensa equivalesse al pritano dei greci e viene collegato a una qualche attività di capo dello stato; il maru doveva invece svolgere funzioni civili e sacrali. Questa articolazione amministrativa, che facilitò il predominio dell’oligarchia aristocratica, oltre a impedire l’affermazione di potentati personali, arretrò le concessioni nei confronti degli strati sociali più bassi che inutilmente rivendicarono il riconoscimento di un movimento organizzato, come invece ottenne la plebe romana.
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Le città-stato dell’Etruria erano sovrane e indipendenti, ma tutte insieme si riconoscevano in una superiore comunità etnico religiosa ed erano riunite in una istituzione di tipo confederale che comunemente chiamavano ‘‘lega”. Gli autori antichi parlano di una lega di dodici popoli corrispondenti alle più importanti città-stato dell’Etruria, e analoghe federazioni dovettero esistere anche nell’Etruria padana e campana. A capo della lega si trovava probabilmente lo Zilach Mecl Rasnal, ovvero il “pretore dei quindici popoli”, che continuò ad esistere anche quando Roma trasformò la confederazione in una semplice associazione religiosa. I rappresentanti delle città, costituita dal monarca, da un littore e da altri personaggi che davano vita a spettacoli, feste e giochi, si riunivano periodicamente nel santuario di Voltumna a Volsinii per discutere i problemi comuni, politici e militari, della nazione etrusca. Le consultazioni erano dirette da un ‘‘re” comune eletto tra i reggenti delle città. La lega fu sciolta dai romani nel 265 a.C. quando i centri confederati erano diventati quindici.
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La religione etrusca parte dall’idea che la natura dipenda strettamente dalla divinità. Ogni fenomeno naturale non è altro che l’espressione della volontà divina, un segnale che essa invia all’uomo. E all’uomo, destinatario di quel segnale, spetta il compito di scoprirne il significato. Dice Senaca ‘‘Noi romani riteniamo che i fulmini scocchino quando c’è stato uno scontro di nuvole; gli etruschi credono invece che le nuvole si scontrino per far scoccare i fulmini. Dal momento che attribuiscono ogni cosa alla divinità, essi sono convinti che le cose avvengono perché debbono avere un significato”.
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Gli autori latini erano concordi nel definire gli etruschi un popolo religiosissimo esperto nell’arte divinatoria. Ebbero infatti un’articolata letteratura religiosa, oggi purtroppo irrimediabilmente perduta. Esistevano una serie di rigide regole che determinavano il rapporto tra gli dèi e gli uomini (quella che costituiva la ‘‘disciplina etrusca”, ossia scienza etrusca), quindi sul rito e sull’interpretazione della volontà divina. Di queste norme possiamo farci solo un’idea attraverso alcuni passi di Cicerone, Plinio il Vecchio, Livio o Seneca (che si rifacevano a traduzioni che non ci sono pervenute) e tramite rarissimi documenti etruschi come la “mummia di Zagabria” o il “fegato di Piacenza”. Sappiamo inoltre che quella etrusca fu una religione rivelata attraverso le profezie di esseri superiori come il fanciullo Tagete e la ninfa Vegoe o Vegonia. Fra gli etruschi delle origini la divinità appare sempre in modo molto impreciso, sia nell’aspetto che nelle mansioni ed è ragionevole pensare che in principio vi fosse un’unica entità divina che si manifestava in molteplici modi, assumendo connotati diversi. Tra l’VIII e il VI secolo a.C. si assiste alla trasformazione della religione etrusca. Dalla Grecia vennero importate in Etruria nuove divinità; quelle indigene assunsero figura umana e col tempo ereditarono le caratteristiche e le mansioni degli dèi dell’Olimpo classico.
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Le più antichità divinità degli etruschi rappresentavano le forze della natura, distruttrici e creatrici al tempo stesso: Tarkun⁄Tarconte era il dio della tempesta, distruttore ma anche dispensatore di benefica pioggia; Velka era il dio del fuoco e, insieme, della vegetazione. Sommo dio dell’Etruria – dice Varrone – era Velthune (in latino Vertumnus o Voltumna), il Multiforme, che rappresentava l’eterno mutare della stagioni ed era adorato nel santuario federale di Volsinii. All’antico pantheon appartenevano anche gli dèi Selvans (Silvano) e Ani (poi Giano) e la dea Northia, divinità probabilmente del fato. Dal VII secolo a.C. molte divinità di fondo originariamente etrusco vennero assimilate agli dèi olimpici: la divinità superiore Tinia (o Tin), rappresentata sempre col fulmine, fu l’equivalente di Zeus ossia Juppiter (Giove); lo stesso avvenne con Uni, compagna di Tinia, che divenne Hera, ossia la Iuno latina (Giunone). Turan, la dea dell’amore, fu assimilata ad Afrodite e quindi alla Venus (Venere) latina; Menerva ad Athena (Minerva); Maris ad Ares (Marte); Nethuns a Poseidon (Nettuno); Turms a Hermes (Mercurio). Ci furono anche dèi nuovi, importati direttamente dal mondo greco, che conservarono il loro nome appena etruschizzato: Artemis (ossia Diana) divenne Aritimi, Apollon (Apollo) fu chiamato Apulu, Heracles (Ercole) cambiò in Hercle. Controversa è l’origine etrusca delle ‘‘triadi” che conosciamo con certezza soltanto nel mondo romano: non è chiaro se la triade capitolina Giove-Giunone-Minerva corrisponda a Tinia-Uni-Menerva. Di sicura origine greca sono invece le coppie (‘‘diadi”), come quella degli dèi infernali Ade e Persefone (in etrusco Aita e Phersipnai).
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Secondo gli etruschi gli dèi condizionavano il mondo e ogni azione umana: occorreva quindi ‘‘tradurre” la loro volontà andando in cerca dei segni attraverso i quali essa si manifestava. Perciò era necessario avere a disposizione un codice che interpretasse quei segni e un prontuario di norme precise e costanti che per ogni segno indicasse il conseguente comportamento atto a soddisfare (e quindi a seguire) la volontà degli dèi. Questo complesso di conoscenze fu chiamato dai romani ‘‘disciplina etrusca” i cui principi ispiratori erano fatti risalire dagli etruschi all’intervento rivelatore della stessa divinità. Essa si sarebbe servita di esseri mitici o semidei (come il fanciullo Tagete o la ninfa Vegoe) i quali avrebbero ‘‘dettato” le verità soprannaturali e insegnato agli uomini l’arte di avvicinarsi ad esse: in pratica la divinazione. Appositi collegi sacerdotali, che si tramandavano la professione di padre in figlio, erano preposti all’interpretazione dei segni della volontà divine: i fulguratores osservavano le traiettorie dei fulmini, gli àuguri interpretavano i voli degli uccelli, gli arùspici leggevano il fegato delle pecore e di altri animali sacrificati. Le dottrine divinatorie, e tutte le altre che formavano il corpus minuzioso e vastissimo dei riti etruschi, erano tramandati nei testi della cosiddetta ‘‘disciplina etrusca”: i Libri Haruspicini, svelati dal fanciullo Tagete, trattavano la consultazione delle viscere degli animali; i Libri Fulguratores, il cui contenuto era stato manifestato dalla ninfa Vegoe, riguardavano la scienza dei fulmini; i Libri Rituales, svelati anch’essi dalla ninfa Vegoe, trattavano della suddivisione della volta celeste, della gromatica (ripartizione dei campi), dei riti e delle modalità per la fondazione delle città e per la consacrazione dei santuari, e infine degli ordinamenti civili e militari. Esistevano poi i Libri Acherontici, svelati da Tagete, che esponevano le credenze nell’oltretomba e dettavano le norme per i riti di salvazione. Infine v’erano i Libri Fatales, nei quali si trattava dei dieci secoli di vita assegnati dal Fato alla nazione etrusca, e i Libri Ostentaria che trattavano dell’interpretazione dei prodigi e dei fenomeni naturali.
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Usando come fonti Aulo Cecina, Nigidio Figulo e altri traduttori del I secolo a.C. che si occuparono della ‘‘disciplina etrusca” Cicerone (106-43 a.C.) scrive nel suo De divinatione (Sulla divinazione) a proposito delle profezie di Tagete:
‘‘Si racconta che Tagete sia spuntato improvvisamente dalla terra nel territorio di Tarquinia mentre si arava e si era fatto un solco molto profondo, e abbia parlato all’aratore. Si dice anche che Tagete, stando alle testimonianze dei libri sacri etruschi, avesse l’aspetto di bambino e la saggezza di un anziano. Alla sua vista il bifolco si stupì e mandò un grido di meraviglia, ci fu un accorrere di gente e in breve tempo si raccolsero colà tutti gli etruschi; allora Tagete parlò di parecchi argomenti alla gran folla in modo che le sue parole fossero recepite e messe per iscritto. Il suo discorso conteneva i precetti dell’aruspicina la quale, col passare del tempo si accrebbe di altre nozioni che comunque s’ispirarono agli stessi principi insegnati da Tagete”.
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Alla ninfa Vegoe (Vecu, in etrusco) è attribuita una profezia che riguarda il rispetto della proprietà dei campi tramandata da un testo latino di autore ignoto.
‘‘Chi toccherà o smuoverà queste pietre (di confine) per aumentare i propri possessi e diminuire quelli degli altri, sarà punito dagli dèi per tale delitto. Se lo faranno gli schiavi, peggioreranno la loro condizione servile. Se poi il delitto sarà fatto con la complicità del padrone, entro breve tempo la sua casa sarà distrutta e la sua gente perirà. Gli esecutori materiali del delitto saranno colpiti da gravissime malattie e da ferite e rimarranno paralizzati nel corpo. Anche la terra sarà sconvolta da tempeste e da turbini e da distruzione. I frutti saranno colpiti e cadranno per la pioggia e la grandine, marciranno per il caldo eccessivo e cascheranno per malattia. Ci saranno anche discordie civili. Sappiate che queste disgrazie avverranno quando saranno commessi delitti come quelli detti ora.”
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Il segno più importante, la ‘‘voce” più potente della divinità era il fulmine, che proveniva direttamente dal dio supremo Tinia; l’ars fulguratoria, cioè quella di trarre dalla sua osservazione tutte le informazioni possibili, era quindi al primo posto nella divinazione etrusca. Era regolata da una casistica alquanto complessa che teneva conto della parte del cielo in cui il fulmine appariva (la volta celeste era divisa in sedici parti, abitata ognuna da una divinità), della forma, del colore, degli effetti provocati e del giorno della caduta. Oltre all’osservazione dei fulmini (cheraunoscopia) c’era un’altra forma di divinazione molto generalizzata alla quale era possibile ricorrere ogni volta che fosse ritenuto utile o necessario senza dover attendere altre forme di prodigi dipendenti invece dal caso, come appunto il fulmine. Era l’epatoscopia, o lettura del fegato degli animali sacrificati, che i romani chiamavano haruspicina. Il fegato, la cui immagine si riteneva fosse proiettata la divisione della volta celeste, veniva strappato ancora palpitante dal corpo dell’animale (pecora, bue, cavallo) e se ne osservavano le regolarità e irregolarità a ognuna delle quali era attribuito un messaggio. Per questo venivano usati degli appositi modelli in bronzo o in terracotta sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi delle divinità. Fra i modelli giunti sino a noi il più celebre è il ‘‘Fegato di Piacenza”. Oltre al fegato gli arùspici leggevano anche altre viscere come il cuore, i polmoni, la milza.
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È il modellino schematico in bronzo, di 12,4 per 6,6 centimetri, datato II-I secolo a.C., del fegato di una pecora, rinvenuto presso Piacenza nel 1877, ma di probabile origine cortonese. La superficie convessa è divisa da una linea in due sezioni dedicate al sole (usils) e probabilmente alla luna (tivs); la superficie concava è divisa complessivamente in quaranta caselle triangolari o rettangolari, ciascuna delle quali è dedicata a una (o a più di una) divinità. Le sedici caselle rettangolari disposte lungo l’orlo del modellino rappresentano le sedici regioni in cui è diviso il cielo secondo le credenze etrusche. Il manufatto aveva forse funzione didattica o, più probabilmente, serviva come guida per le osservazioni del fegato degli animali sacrificati.
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Dopo che i sacerdoti avevano ottenuto attraverso la divinazione la conoscenza del volere divino, si dava attuazione a tutto ciò che ne derivava dal punto di vista del comportamento, sulla base delle norme che facevano anch’esse parte della ‘‘disciplina etrusca” ed erano oggetto di trattazione nei Libri Rituales. Queste norme si traducevano (e si esaurivano) in una serie impressionante di pratiche, cerimonie e riti rigidamente codificati e ripetuti meccanicamente fino a diventare puro e semplice formalismo. Essi toccavano sia gli aspetti religiosi della vita degli etruschi sia quelli civili, secondo il principio che ‘‘ogni azione umana doveva essere compiuta in conformità della disciplina”. E per ogni rito, cerimonia di culto o servizio divino doveva essere stabilito con precisione il luogo, il tempo, il modo, lo scopo, la persona preposta e, naturalmente, la divinità che veniva chiamata in causa. Le funzioni sacre si svolgevano perciò in luoghi rigidamente circoscritti e consacrati (templi, santuari, altari) e il loro svolgimento era codificato fin nei minimi particolari tanto che, se veniva sbagliato od omesso anche un solo gesto, tutta l’azione doveva essere ripetuta da capo. Musica e danza vi trovavano ampio spazio. Oltre all’uso di sacrificare bovini, ovini e volatili, particolarmente diffuso era quello dei doni votivi che potevano andare dagli ex voto (statue e statuine di divinità e di offerenti), alle prede di guerra (armi, carri), agli stessi edifici sacri (dedicazione di un tempio o di un sacello).
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Tra le pratiche di carattere religioso quelle destinate ai defunti avevano presso gli etruschi un carattere tutto particolare. Esse erano legate alla concezione (del resto diffusa in altre civiltà del Mediterraneo) che l’attività vitale del defunto, la sua ‘‘individualità” continuasse anche dopo la morte e che questa sopravvivenza avesse luogo nella tomba. Spettava però ai vivi, ai familiari e dei parenti, garantire la sopravvivenza dell’entità vitale del defunto al quale doveva essere data una tomba, cioè una nuova casa, e un corredo di abiti, oggetti d’uso personali, cibi, di cui si serviva simbolicamente o magicamente. Per la stessa ragione vitalità e forza venivano trasmesse al defunto con giochi e gare atletiche che si svolgevano in occasione dei funerali o delle ricorrenze anniversarie della morte. Quanto alle pratiche proprie dei funerali, la prassi non era dissimile da quella che avveniva altrove: esposizione del cadavere al compianto pubblico e alle lamentazioni di donne appositamente pagate (prefiche), corteo funebre e banchetto presso la tomba. Il culto della ‘‘sopravvivenza” nel sepolcro era ulteriormente sviluppato nel culto degli antenati e in particolar modo del capostipite, specie delle famiglie gentilizie. Tra il V e il IV secolo a.C., però, la fede della sopravvivenza del morto nella tomba cambiò sotto l’effetto delle suggestioni provenienti dalla civiltà greca. Ad essa si sostituì la concezione di un ‘‘mondo dei morti” (simile all’Averno o all’Ade) dove le ‘‘ombre” soggiornavano. Ai defunti vennero allora dedicati particolari riti di suffragio, stabiliti dai Libri Acherontici, e offerte alle divinità infere (in particolare il sangue di alcuni animali) che potevano consentire alle anime il conseguimento di uno speciale stato di beatitudine.
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Fra i dettami della disciplina etrusca famoso in tutta l’antichità era quello della fondazione di città per il quale erano previste meticolosissime disposizioni. Gli aùguri cominciavano col delimitare una porzione di cielo consacrata proprio in funzione del rito (e definita con il termine significativo di templum) all’interno della quale trarre gli auspici dedotti dal volo degli uccelli che la attraversavano, dai fenomeni meteorologici che in quel perimetro potevano verificarsi, o da altre manifestazione considerate provenienti dalle divinità. Erano poi individuati il centro della città stessa e delle principali direttrici viarie scavando fosse in cui venivano deposte offerte e sovrapposti cippi che fungevano sia da punti di riferimento sia da luoghi sacrali. Veniva poi tracciato con un aratro dal vomere di bronzo un solco continuo che disegnava il perimetro delle mura, interrotto solo là dove si sarebbero aperte le porte delle città; il solco diventava subito linea inviolabile per tutti gli uomini e attraversarlo equivaleva ad attaccare la città. Lungo tutto il perimetro delle mura correva inoltre, tanto all’esterno quanto all’interno, un’ampia fascia di terreno (il pomerium) che non doveva essere né coltivata né edificata e che era dedicata alla divinità. Una solenne cerimonia di sacrificio inaugurava la città così prefigurata. La fondazione di Roma a opera di Romolo e Remo così come ce l’hanno tramandata le leggende è un’applicazione puntuale del rito etrusco: i gemelli che osservano il volo degli uccelli per decidere chi dei due dovesse dare il nome alla città, il solco tracciato da Romolo, l’uccisione di Remo che, saltando all’interno del perimetro, profana i sacri confini e ‘‘invade” la nuova fondazione.
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La prosperità dell’Etruria era assicurata da una salda e articolata struttura economica, in cui l’agricoltura, già di per sé florida, era integrata in modo decisivo dalle attività industriali - basate soprattutto sullo sfruttamento delle risorse minerarie - e da quelle commerciali che misero in contatto gli etruschi con larga parte del bacino del Mediterraneo.
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L’agricoltura fu una delle principali risorse economiche dell’Etruria antica e gli autori latini (Livio, Ovidio, Columella ecc.) lodano spesso i miracolosi raccolti dei suoi fertili campi. I terreni progressivamente disboscati erano, in alcuni casi, bonificati attraverso complesse opere idrauliche che davano, secondo Varrone, una resa pari a quindici volte il seminato. Frumento, cereali (ceci), olio e vino furono prodotti in abbondanza tale da poter essere esportati in vari centri dell’Italia antica e talvolta, come per il vino, oltremare, in alcuni porti del Mediterraneo settentrionale. Per il III secolo a.C. si può avere una precisa idea delle risorse agricole di alcuni centri etruschi grazie all’elenco degli aiuti forniti a Scipione l’Africano per la sua spedizione contro Cartagine (205 a.C.). L’allevamento invece non fu per gli etruschi particolarmente importante come per altre civiltà del Mediterraneo, ma venne praticato per lo più a livello familiare, sfruttando i verdi pascoli del litorale e delle aree boschive. Oltre a bovini, asini e muli, indispensabili al lavoro dei campi e al trasporto dei carri, si allevavano ovini e suini. A questo proposito lo storico greco Polibio (I secolo a.C.) ricorda gigantesche forme di pecorino del peso di 1000 libbre (327 kg.) e una moltitudine di maiali trascinata da un porcaro sulle rive del Tirreno a suon di musica.
[23521]
L’artigianato fiorì in Etruria quando, superata la fase dell’economia di famiglia e di villaggio, le città offrirono una differenziazione più specifica delle attività lavorative. Il primo posto in questo senso spettò alla ceramica che, grazie alle ‘‘novità” apprese dai coloni greci, iniziò una produzione industriale. Dai greci infatti, nella seconda metà dell’VIII secolo, gli etruschi appresero l’uso della ruota da vasaio (tornio), il modo di raffinare l’argilla e di rendere i vasi impermeabili, il gusto per le decorazioni dipinte; nel VII e VI secolo a.C., ceramisti greci immigrati aprirono le loro botteghe in varie città dell’Etruria. Dalle stesse botteghe dei ceramisti uscivano le terrecotte, prodotte in serie con l’impiego di stampi, destinate al rivestimento degli edifici o che costituivano le schiere delle statuette votive. Altra attività artigianale di primaria importanza fu la metallurgia e, in particolare, della lavorazione dei bronzi lavorati con varie tecniche. Connessa a questa attività era la lavorazione dei metalli preziosi che soddisfaceva le richieste dell’élite, specialmente dalla metà del VII agli inizi del V secolo a.C. Va tenuto inoltre conto dell’artigianato del legno e del cuoio, delle stoffe e delle fibre vegetali, del quale però quasi tutto è andato perduto.
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Il commercio etrusco, soprattutto nel VII-VI secolo a.C., fu essenzialmente basato sull’importazione, come è chiaramente dimostrato dalla sproporzione tra i pochi oggetti etruschi rinvenuti in altri paesi rispetto all’enorme quantità di beni stranieri affluiti in Etruria. Gli etruschi esportavano principalmente metalli grezzi (rame, piombo e ferro) estratti in gran quantità dalle miniere dell’alto Lazio e dell’Isola d’Elba. Altri beni di esportazione furono il legname, il sale prodotto nei centri costieri del Tirreno, l’olio e soprattutto il vino. Una gran quantità di anfore vinarie è stata infatti recuperata in numerosi relitti di navi. Al commercio del vino era in parte legato anche quello del bucchero, piccoli recipienti di tipica fattura etrusca adoperati per attingere o bere, rinvenuti in tutto il bacino del Mediterraneo. Con la battaglia di Cuma (474 a.C.) gli etruschi sconfitti dai siracusani persero definitivamente il controllo del Tirreno, ma alla crisi dei commerci marittimi corrispose un incremento dei traffici lungo le vie dell’interno, con il susseguente affermarsi di alcune città che, come Vulci, esportarono i loro prodotti verso la pianura padana, l’Europa centrale e gli altri centri dell’Etruria antica.
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All’interno della civiltà etrusca l’attività militare aveva valore di distinzione sociale. Essa fu dapprima appannaggio degli aristocratici - i soli in grado di potersi permettere armi ed equipaggiamento - quindi dei ceti emergenti che, una volta progrediti sul piano economico, si mossero alla ricerca di una emancipazione sociale e politica. Durante il periodo ellenistico l’attività militare fu aperta anche agli strati più bassi.
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L’attività militare nel periodo villanoviano era riservata agli individui di ceto sociale più elevato, i quali avevano una disponibilità di beni tale da consentire loro l’acquisto ed il mantenimento di armi (per l’offesa e la difesa personale), carri e di animali (cavalli) da impiegare per scopi bellici. Tra il VI e il V secolo a.C. vennero poi progressivamente ammessi nell’esercito mercenari di professione e uomini provenienti dalle classi meno agiate. La tattica militare consisteva per lo più nel combattimento corpo a corpo con armi adatte agli scontri ravvicinati. Allo scontro individuale si sostituì in età arcaica l’azione della fanteria pesante nella formazione serrata della falange oplitica e le manovre di guerra divennero via via più complesse e organizzate. La cavalleria e i carri, che esercitavano un’azione di disturbo sugli avversari rimasti isolati in battaglia, divennero, con il passare del tempo, sempre più importanti.
[23621]
Le armi hanno conosciuto varie fasi all’interno della società etrusca, in stretta relazione con lo sviluppo tecnologico, ma anche politico e sociale.
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- Per il periodo villanoviano (IX-VIII secolo a.C.) sono documentati vari tipi di elmi. Quelli a calotta in semplice lamina bronzea decorata, a sbalzo con imbottitura interna e quelli crestati o con appendice superiore.
- In età orientalizzante alla semplice calotta si aggiunse una costolatura superiore e una tesa inferiore per meglio proteggere la testa dai fendenti portati dall’alto. Si diffuse inoltre l’elmo corinzio che tramite un’apertura a T lasciava scoperti solo gli occhi e la bocca.
- Dall’età arcaica (VI secolo a.C.) si ebbe in tutta l’Etruria l’elmo a calotta allungata e cimiero, talvolta con paraguancia mobili.
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- In età villanoviana (IX-VIII secolo a.C.) gli scudi più diffusi erano tondi, in cuoio, rivestiti da una lamina in bronzo sbalzata. All’interno, oltre alla maniglia, una lunga cinghia ne consentiva il trasporto sulle spalle dopo il combattimento.
- In età arcaica la forma dello scudo circolare divenne convessa, e il suo diametro aumentò fino a circa 1 m, per consentire ai soldati posti in linea di ripararsi grazie alla protezione del compagno. Vi erano anche scudi ellittici o quadrati.
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- In età villanoviana la lunghezza delle lance era di circa 1,20 m. La punta in bronzo a forma di foglia era dotata di un innesto e di un foro per il fissaggio sull’asta lignea.
- Dal VII secolo a.C. la loro lunghezza aumentò a circa 2 m. Vi erano poi giavellotti più leggeri.
[236241]
- In età villanoviana (IX-VIII secolo a.C.) venivano adoperate spade prive di guardiamano, con lame in bronzo o in ferro con nervature longitudinali che ne aumentavano la resistenza.
- Nel VII secolo a.C. le spade, per lo più in ferro, furono più resistenti, la lama da triangolare divenne rettilinea per facilitare i colpi di taglio; l’elsa era spesso riccamente decorata.
- Tra il VI e il V secolo a.C. è attestato l’uso della sciabola ricurva (la machaira). Lunga circa 90 cm, era più larga verso la punta in modo da conferire maggior peso al colpo sferrato dall’alto.
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- Le corazze furono in origine di tela di lino con borchie quadrangolari o rotonde di metallo laminato. In età ellenistica si adottarono corazze di bronzo a più pezzi o ad un solo elemento riproducente a sbalzo la muscolatura del tronco virile.
[236261]
- La loro comparsa intorno al VII secolo a.C. rispondeva all’esigenza di proteggere gli stinchi e i polpacci. In un secondo tempo si affermò anche l’uso dei cosciali formati da due valve in bronzo tenute serrate da cinghie.
[23631]
In età villanoviana le difese dei villaggi, in aggiunta alla naturale conformazione delle alture prescelte per l’insediamento, erano sommarie: semplici palizzate, fossati e recinti di terra. Con la nascita della città comparvero le ampie cinte murarie curvilinee, realizzate dapprima in mattoni crudi, poi da un paramento in blocchi di pietra poligonale riempito all’interno da terra e scaglie. Queste cinte avevano talora delle porte ‘‘scee”, dotate alla destra di chi usciva di un prolungamento di muraglia che proteggeva, in caso di sortita, il fianco indifeso dei soldati; le porte potevano avere anche una passerella balaustrata in legno, forse coperta. Le strutture difensive vennero poi perfezionate con l’uso di torri con feritoie e di porte ad arco, come quella di Volterra o quella di Perugia dotata di sovrastruttura. Le mura cittadine circondavano un’area maggiore di quella effettivamente abitata, allo scopo di accogliere, in caso di pericolo, gli uomini e il bestiame del territorio. Norme religiose impedivano invece l’utilizzo del pomerium.
[23641]
Le prime imbarcazioni etrusche, note sin dal IX secolo a.C., erano di piccola stazza, ma già dotate di chiglia arrotondata. Il dominio etrusco sui mari, giunse al suo massimo sviluppo tra il VII e il VI secolo a.C., ed è testimoniato, oltre che dalle vicende storiche e dai dati dell’archeologia, anche delle fonti letterarie più antiche: già nell’Inno omerico a Diòniso, si citano i pirati ‘‘tirreni” che rapirono il dio e che da lui furono trasformati in delfini. Le navi da guerra presentavano forma allungata con la chiglia carenata. La prua era dotata di un rostro che aveva il duplice scopo di mantenere stabile l’imbarcazione e di speronare le navi nemiche. Questa fu, secondo Plinio il Vecchio, un’invenzione tipicamente etrusca. Una stretta passerella longitudinale univa il ponte di prua a quello di poppa, dove il timoniere manovrava le due pagaie che servivano da timone. Oltre alla vela rettangolare issata ad un pennone pendente dall’albero centrale, la nave veniva mossa da due file di rematori disposti ai lati della passerella centrale. I due grandi mari italiani, il Tirreno e l’Adriatico, derivano il proprio nome dal popolo degli etruschi e da Adria (città portuale veneto-etrusca).
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L’arte etrusca, salvo poche eccezioni, non ha finalità estetiche (l’arte per l’arte), ma nasce piuttosto dalle esigenze della vita quotidiana; essa ha quindi caratteristiche pratiche e utilitaristiche che ne fanno una produzione artigianale, anche se di notevole pregio. Tutte le manifestazioni artistiche degli etruschi sono strettamente legate alla struttura del loro mondo sociale e alla sfera del loro mondo religioso. Non a caso le testimonianze che sono giunte fino a noi provengono, quasi esclusivamente, dai santuari e dalle necropoli. Schemi, tipi, temi compositivi e canoni stilistici dell’arte etrusca hanno come modello prima quelli del mondo orientale (VIII-VII secolo a.C.) poi, più specificatamente, quelli del mondo greco nelle varie fasi della sua evoluzione stilistica (dall’arcaismo, al classicismo, all’ellenismo) che gli artisti etruschi a volte imitarono pedissequamente ma che più spesso rielaborarono per adattarli alle loro esigenze espressive. Dei greci essi trascurarono le forme di espressione artistica ‘‘monumentale” (come l’architettura o la statuaria) mentre ne privilegiarono altre come la coroplastica (l’arte della terracotta), la bronzistica e le cosiddette arti minori (ceramica, oreficeria, lavorazione dei metalli) nelle quali raggiunsero risultati di notevole perfezione tecnica e di elevato valore formale.
[2411]
A parte le mura fortificate cittadine, elevate con tecniche diverse, e le porte che in esse si aprivano, l’architettura degli etruschi può essere ricondotta a un’unica tipologia di edifico che è quello della ‘‘casa”: le abitazioni domestiche (le case degli uomini), i templi (le case degli dèi), le tombe (le case dei morti). Ma non si deve dimenticare che la storia della ‘‘nazione” etrusca ha percorso sette secoli di storia, con tutti i mutamenti e le evoluzioni che un tempo tanto lungo impose.
[24111]
Nell’età del Ferro le abitazioni erano costituite da grandi capanne a pianta circolare o ellittica, con strutture di pali in legno infissi direttamente nel terreno lungo il perimetro dell’edificio; questi sorreggevano una copertura in stoppie a doppio spiovente il cui trave centrale era sostenuto da un robusto montante posto al centro della capanna stessa. Le pareti erano di fango pressato con una struttura interna di canne intrecciate, mentre davanti all’unico ingresso stava una tettoia sorretta da due pali verticali che proteggeva un piccolo portico. All’interno c’era un unico ambiente che riceveva luce da due finestre ad abbaino aperte al culmine della copertura. L’esterno della costruzione era decorato dalla sagomatura a forma di testa di animale delle terminazioni dei travicelli sporgenti oltre il colmo del tetto e da ornamenti di bronzo appesi alla gronda che tintinnavano al vento. Successivamente, nella fase arcaica, le case assunsero la pianta rettangolare, spesso divisa in due o più ambienti, con pareti in muratura di mattoni crudi o in ‘‘pani” di fango seccati al sole, intonacate e innalzate su fondamenta di pietra. Il tetto mantenne la forma a doppio spiovente ma venne coperto con tegole in terracotta e decorato sul colmo da figure apotropaiche, di fiere fantastiche o di antenati divinizzati. La linea di gronda si coprì dal merletto delle antefisse (decorazione applicate alle tegole curve terminali di ogni filare) che dal semplice ‘‘diaframma” con una palmetta dipinta si mutarono presto in teste in rilievo, libere o circondate da un ‘‘nimbo” a conchiglia. La policromia di gialli, rossi neri, azzurri, verdi, dava a tutti gli edifici un aspetto sgargiante e festoso. Nel periodo ellenizzante apparve un tipo più complesso di abitazione, con ‘‘atrio tuscanico” (teorizzato anche da Vitruvio, il grande architetto di età augustea) attorno al quale si articolavano alcuni vani; si trattava di un ambiente assai semplice, con un tetto spiovente a quattro falde verso l’interno del cortiletto e sorretto da travi di legno incastrate nelle pareti senza appoggi a terra.
[24121]
Le tombe sono una sorta di specchio dell’edilizia abitativa e i vasti complessi cimiteriali, con strade, marciapiedi, incroci, piazze e migliaia e migliaia di tombe, costituiscono delle vere e proprie città dei morti. Parallelamente alle abitazioni civili, le tombe conobbero una loro complessa articolazione e cronologia: così dalle semplici tombe villanoviane a pozzetto si passò presto a cassoni di lastre contenenti l’urna o l’orcio con corredo; contemporanee furono le tombe a fossa, dapprima semplici poi con rivestimenti interni o nicchie e vani laterali, nonché gli spazi lastricati e circoli di pietre per indicare l’area di rispetto. Da queste più primitive sepolture derivarono le tombe del tipo a tumulo e a camera sotterranea (alla quale si accedeva tramite un corridoio, dromos) destinate dapprima ai ceti gentilizi: lo spazio sepolcrale divenne più ampio sino a comprendere un gruppo di vani scavati nel tufo (secondo la consuetudine dell’Etruria meridionale) o costruiti con pietrame (secondo il costume delle zone settentrionali). Caratteristiche di questa fase sono le strutture (con copertura a falsa volta e a pseudocupola (cioè con filari di pietre progressivamente aggettanti) di influsso orientale. La somiglianza dell’interno delle tombe con quello delle abitazioni è evidente sia nella ripartizione dei vani e nei relativi accessi, sia nell’imitazione delle travature del tetto e dell’arredo. L’esterno era coperto da tumuli artificiali talvolta anche imponenti. I tipi costruttivi di tombe variarono localmente a seconda della geologia delle diverse parti dell’Etruria. Là dove il tufo formava un alto zoccolo con pareti scoscese le tombe erano interamente intagliate nella roccia viva per ricavarne veri e propri edifici a forma di dado decorati con modanature, false porte rastremate (cioè assottigliate verso l’alto) e addirittura interi porticati. Più tardi, le tombe rupestri riprodussero la facciata o buona parte della struttura di un tempio ellenizzante. Va inoltre ricordato che non mancano esempi di necropoli realizzate secondo una precisa pianificazione preordinata e con criteri sostanzialmente urbanistici.
[24131]
Il tempio è certamente uno dei monumenti più originali ed interessanti dell’architettura etrusca. Rispetto a quello greco, a cui è stato sempre attribuito primato quanto a bellezza ideale e armonia, il tempio etrusco presentava profonde differenze di forme, rapporti e spazi. Sua caratteristica peculiare e costante era quella di essere realizzato con strutture in legno, rivestite e colorate in vivacissime policromie, accostate ai mattoni e alle terrecotte decorative. Anche le proporzioni si discostavano da quelle greche: il tetto amplissimo e aggettante, sia sulla facciata e sul fronte posteriore, sia lungo i fianchi, schiacciavano l’edificio verso terra; le colonne del pronao, molto intervallate e disposte su più file, occupavano quasi la metà dell’alto podio in pietra, al quale si accedeva da una scalinata centrale. Si accentua così quella netta frontalità dell’edificio che era una delle grandi costanti dell’architettura etrusco-italica. La cella, che occupava la restante parte del podio, poteva essere divisa in tre vani oppure fiancheggiata su due lati da colonne. Il frontone lasciava solitamente vedere le strutture in legno del tetto e la testata della grande trave di colmo (columen). Anche l’orientamento dell’asse principale era diverso: est-ovest per il tempio greco, nord-sud per quello etrusco.
[2421]
La scultura, come del resto tutta la produzione artistica degli etruschi, punta all’immediatezza e all’effetto, mentre è assente la ricerca formale e sono ignorati i canoni espressivi. Ne risulta una scultura meno raffinata di quella greca, ma più vivace, più spontanea, più popolare.
[24211]
A muovere la scultura etrusca fu soprattutto la sfera del mondo sacrale e di quello funerario; mancò del tutto invece la produzione ‘‘profana”, come la cronaca o l’esaltazione di eventi storici (che tanto piacevano agli egizi e poi ai romani), le celebrazioni di benemerenze civiche o di doti atletiche (soggetti consueti dei greci), le scene di genere ecc. L’attenzione degli artisti si concentrò tutta nel soggetto (il defunto) e nel suo significato e vennero ignorati, perché non sentiti o non funzionali, i problemi estetici e quelli della finalità artistica. Gli scultori etruschi rimasero estranei al processo razionale attraverso il quale gli artisti greci, invece, arrivarono alla conquista della forma figurativa e alla teorizzazione dei canoni, un fatto dimostrato tra l’altro dallo scarso interesse per l’indagine anatomica e il nudo. La mancanza di vere e proprie concezioni di fondo impedirono in Etruria la nascita di una qualsiasi ‘‘scuola”. Si colgono tuttavia qua e là nella scultura etrusca le conquiste stilistiche conseguite dai greci: con una certa partecipazione nel periodo arcaico, male interpretate e banalizzate nel periodo classico, ridotte a esercitazioni di maniera nella fase ellenistica.
[24221]
Più che scolpire, togliere, ‘‘tirar fuori”, gli artisti etruschi sembrano ‘‘modellare” come si fa con la creta, per cui, anche se nella loro produzione scultorea non sono assenti lavori in pietra, manca la vera e propria statuaria, la scultura per eccellenza. Fu ignorato il marmo – abbondante nei Monti Apuani ai margini dell’Etruria e rimasto inutilizzato fino all’età romana – mentre furono preferiti i tufi, le arenarie, gli alabastri: tutti materiali leggeri e modellabili, che nella resa consentivano effetti propri della lavorazione della creta. Questa mancanza di senso scultoreo, che impedì presso gli etruschi una vera e propria produzione di opere a tutto tondo, condizionò anche quella delle opere in rilievo che per concezione e per esecuzione sono più vicine alle caratteristiche proprie del disegno e della pittura che a quelle della scultura. In età arcaica il rilievo fu infatti concepito con un’esecuzione molto bassa e lineare ma molto descrittiva; in età ellenistica prevalsero le composizioni molto affollate e agitate che denunciano una derivazione da modelli pittorici del mondo greco. Gli effetti pittorici furono poi sempre completati e sottolineati dall’uso di dipingere interamente i rilievi con colori piuttosto vivaci.
[24231]
Migliaia sono le statuette devozionali, raffiguranti fedeli e divinità, che si sono rinvenute nei depositi dei santuari e che assai raramente si elevano al di sopra di una produzione di serie; non possediamo invece più alcun esemplare delle statue di culto che gli scrittori romani ci assicurano numerose e tutte eseguite in terracotta. Alla plastica in terracotta è legato il nome di Vulca – l’unico artista etrusco ricordato nelle fonti – che, verso la fine del VI secolo a.C. raggiunse un prestigio così grande da essere chiamato a Roma da Tarquinio il Superbo per la decorazione fittile del tempio di Giove Capitolino. In Vulca si è voluto riconoscere l’anonimo ‘‘maestro dell’Apollo”, autore delle terrecotte acroteriali del tempio di Portonaccio, tra le quali è universalmente conosciuta quella detta Apollo di Veio, capolavoro non soltanto della scultura ma di tutta l’arte etrusca. Pur denunciando la sua derivazione da modelli greci, l’Apollo di Veio (conservato a Roma nel Museo di Villa Giulia) è un’opera originalissima che va oltre le morbidezze stilistiche della statuaria greca. Lo stile vigoroso, la figura incisiva ed elegante, una certa astrazione che si manifesta nel volto raffinato e ironico lo pongono al di fuori di ogni inquadramento schematico.
[24241]
Proveniente dalla necropoli di Cerveteri, il sarcofago degli Sposi è scolpito a forma di lettino, sul quale una coppia di coniugi è raffigurata distesa, col busto semi eretto, in atto di partecipare ad un banchetto funebre.
Originariamente il sarcofago era rivestito da una vivace policromia, della quale restano oggi soltanto tenui tracce.
Con il braccio sinistro il marito cinge affettuosamente il collo della sposa, il cui sguardo è rivolto verso lo spettatore. I loro occhi hanno una forma allungata, lievemente rialzata ai lati, le labbra sono increspate in un lieve sorriso.
Ogni singolo dettaglio è modellato con un estremo realismo, dai particolari delle acconciature ai cuscini del letto. Qui posano i piedi, scalzi quelli maschili, calzati in affusolate scarpine quelli della compagna.
Le mani si armonizzano tra loro in un gioco di gesti avvolgenti, capaci di catturare lo sguardo dello spettatore, attratto dalla serenità di animo degli sposi.
Da questo sepolcro, destinato ad accogliere le ceneri dei due coniugi, traspaiono un senso di solennità e un’atmosfera di raffinata eleganza.
[24251]
Gli etruschi ebbero nel mondo antico fama di bronzisti, non certo smentita dai numerosissimi ritrovamenti di bronzetti votivi dalla caratteristiche regionali piuttosto marcate (Fiesole, Volterra, Spina) che hanno la plasticità delle terrecotte perché modellati in creta e poi fusi nel bronzo attraverso il passaggio per la fase intermedia della cera. Fortunatamente ci sono giunti anche alcuni grandi bronzi come la Chimera di Arezzo, il cosiddetto Marte di Todi (proveniente da Tuder, che si trovava in territorio umbro, ma attribuibile a una bottega di Volsinii-Orvieto), il lampadario di Cortona, la stessa Lupa Capitolina (senza i gemelli). Sono tutte opere databili tra il V e il IV secolo a.C., il periodo in cui l’Etruria, rimasta estranea al processo creativo dell’arte classica greca, visse una crisi di profondo disorientamento artistico. Le novità stilistiche dei modelli greci furono accolte in queste opere in maniera superficiale o passiva e si giustapposero, senza amalgamarsi, all’istintiva fedeltà alle tradizioni del passato. Più tardi i grandi bronzi etruschi non furono diversi da quelli ellenistici che si limitarono a imitare senza nessun apporto originale, come nel caso del cosiddetto Arringatore (II-I secolo a.C.).
[242511]
La statua di bronzo della chimera, scoperta nel XVI secolo, è una delle opere etrusche più belle e celebrate. La belva, con il corpo leonino, la testa di capra sul dorso e la coda di serpente, è rappresentata ferita dalla lotta contro l’eroe Bellerofonte, secondo l’antico mito. La chimera è in posizione di difesa, ma è pronta all’ultimo assalto con la testa sollevata fieramente verso l’alto, le fauci spalancate e la criniera irta. Sul corpo teso dell’animale affiorano sotto la pelle le costole e le vene turgide; la muscolatura è sapientemente modellata. Contrasta con la feroce aggressività del muso del leone il patetico abbandono della testa della capra, ormai reclinata e morente. La coda è un restauro errato: il serpente non mordeva il corno della capra ma si avventava minacciosamente contro l’avversario. La statua era un dono votivo come dimostra l’iscrizione dedicatoria incisa sulla zampa anteriore destra: tincsvil “al dio Tinia”. Quest’opera, di estrema raffinatezza, coniuga il realismo più aspro alla fantasia, in una ricerca di espressività tipica dell’arte etrusca.
[242521]
La statua, detta l’”Arringatore”, è l’opera più importante della scultura etrusca di epoca tarda. Rappresenta, a grandezza naturale, un uomo maturo, vestito con la toga e con i calzari romani. L’uomo è ritratto nel momento in cui, apprestandosi a parlare in pubblico, alza la mano destra per chiedere il silenzio. Le pieghe della toga, sapientemente modellate in un moto ascensionale, indirizzano l’attenzione sul bel volto intenso. I corti capelli aderiscono alla testa, la fronte è solcata da rughe incavate, sottili incisioni segnano le estremità dei grandi occhi, in origine riempiti di pasta vitrea. Le labbra serrate donano al volto un’espressione sicura e decisa. Un’iscrizione etrusca incisa sul bordo della toga ci informa che il personaggio ritratto si chiamava Aule Meteli. Un etrusco dunque che veste alla maniera romana e si fa ritrarre in un atteggiamento tipicamente romano. Questa statua può essere considerata il simbolo della scomparsa della civiltà etrusca, inesorabilmente assorbita da quella romana.
[2431]
Anche se non mancano indizi di una pittura destinata a decorare interni di edifici sacri e forse anche di abitazioni, la quasi totalità della pittura etrusca che conosciamo proviene dalle necropoli. Essa ha carattere essenzialmente funerario e più precisamente tombale sicché, come nel caso di ogni altra manifestazione del mondo figurativo etrusco, nemmeno per la pittura si può parlare di un’arte fine a se stessa.
[24311]
Le più note tombe dipinte sono quelle della grande necropoli tarquinese di Monterozzi, ma altre sono state rinvenute a Chiusi, Veio, Cerveteri, Vulci, Orvieto. Le pitture tombali non sono semplici decorazioni destinate ad abbellire e a impreziosire l’ultima dimora del defunto, ma rispondono a un preciso significato o esigenza. Fin verso il V secolo a.C. le pitture degli ipogei sepolcrali avevano l’intento di ricreare l’ambiente in cui il defunto aveva vissuto, con rappresentazioni di momenti della vita reale nei suoi aspetti più significativi, più sereni e piacevoli e soprattutto più qualificanti. E poiché i committenti e i destinatari delle tombe appartenevano alla classe gentilizia, predominano nelle pitture scene di caccia, gare atletiche, giochi (tutte espressione di vitalità e di forza) e, soprattutto la rappresentazione del ‘‘simposio”, il banchetto, che evocava, e quindi fissava in perpetuo, il rango sociale del defunto. Infatti il simposio è sempre presente nel repertorio della pittura funeraria ed occupa nella maggior parte dei casi la parete più importante della tomba, che è quella di fondo. Gli stessi elementi secondari della tomba, che potrebbero sembrare semplicemente decorativi (fregi, cornici, zoccolature ecc.) intendono ‘‘ricostruire” l’ambiente domestico, e imitano elementi di tipo architettonico (travature, soffitti, fronti) per fare del sepolcro la ‘‘casa del morto”. Tra il V e il IV secolo a.C. si affievolì però la credenza nella sopravvivenza dell’entità vitale del morto nella tomba e si affermò quella della sua trasmigrazione in un ‘‘regno delle ombre”. Le pitture introdussero allora un elemento nuovo e originale, ossia la rappresentazione del destino dell’uomo al di là della sua esistenza terrena (al di là del ‘‘simposio”) con l’introduzione di elementi tenebrosi e fantastici (divinità infernali, demoni, eroi mitologici) che accompagnano i defunti, circondati da un alone nero, nel loro viaggio agli Inferi oppure al banchetto nell’Averno.
[243111]
Nella piccola tomba di Tarquinia, formata da un’unica camera rettangolare, il fregio assume dimensioni monumentali e occupa quasi l’intera parete. Sul muro di fondo è rappresentata al centro la porta dell’Ade, decorata con borchie metalliche. Ai lati si dispongono simmetricamente due personaggi con una mano sollevata e l’altra posata sulla fronte nella tipica posizione del compianto funebre. Sulla parete contigua un uomo si volge verso la porta dell’Ade con le braccia alzate in segno di saluto. Ai suoi piedi un inserviente vestito di nero piange accoccolato per terra. Segue una figura con un bastone ricurvo in mano; è il giudice della gara che si svolge accanto: due atleti nudi si afferrano per i polsi nella presa iniziale della lotta. Tre lebèti, posti sul terreno sono il premio per il vincitore. L’autore degli affreschi dimostra notevoli capacità pittoriche nelle proporzioni grandiose dei suoi personaggi e nella luminosità diffusa che avvolge i corpi e i panneggi. Pur tuttavia l’uso di riempitivi, come la pianta fra le gambe di uno dei lottatori e l’adozione di artifici rappresentativi, come la doppia linea a indicare la muscolatura del braccio, denotano la convenzionalità di questa produzione artistica.
[24321]
Le realizzazioni pittoriche sono legate a schemi che si generalizzano e a forme espressive che tendono a ripetersi nelle diverse tombe. Le raffigurazioni si dispongono in scene narrative continue che, con il loro accentuato orizzontalismo, tendono a dilatare gli spazi angusti delle camere sepolcrali. Nell’impianto compositivo prevale il gusto per le composizioni binarie in cui le figure simmetriche (per lo più figure umane) si oppongono l’una all’altra. L’ambientazione è solo allusiva e resa con pochi elementi rappresentativi, ma talvolta il pittore indugia su particolari descrittivi, anche di carattere naturalistico, resi con minuzia. Il rendimento delle immagini è basato sul disegno, completato dal colore anche sulla base di criteri convenzionali: durante il periodo arcaico le carni degli uomini sono rese col rosso bruno, con il bianco quelle delle donne; agli elementi di rappresentazione strutturale (mensole, travi, colonne, capitelli) viene dato il rosso scuro o il bruno. L’accoppiamento del disegno con il colore si realizza semplicemente con la coloritura uniforme delle superfici delimitate da una netta e pesante linea di contorno nera, più o meno continua, che disegna le figure. I colori sono piuttosto limitati nelle tonalità e nella gamma (all’inizio rosso, nero, bianco, poi anche giallo, verde e blu), ma in età ellenistica si stemperano nei toni delle mezze tinte diluite e sfumate fino a giungere al chiaroscuro e all’ombreggiatura.
[2441]
Accanto a quella che viene chiamata ‘‘grande arte”, ossia l’architettura, la scultura e la pittura, le varie forme dell’artigianato artistico potrebbero essere definite ‘‘arti minori”, se non altro per le dimensioni. Ma è proprio tra di esse che è possibile trovare le manifestazioni più significative e originali di tutta l’arte etrusca.
[24411]
Alla produzione delle terrecotte destinate ai rivestimenti, soprattutto degli edifici templari, va ricollegata quella della piccola plastica, sia in terracotta che in bronzo. Si tratta di una produzione che non va oltre il fine decorativo o devozionale, ma in essa appaiono più evidenti, rispetto alle opere maggiori, i caratteri di libertà e di vivacità propri dell’arte arcaica e che, specie nelle terrecotte, si mantennero vivi anche in epoche più tarde. I bronzi fusi, più raffinati e portati alla scrupolosità dei particolari, subirono invece maggiormente l’influenza greca classica e ellenistica. Oltre alle statuette, appartiene alla produzione in bronzo il vasto settore degli arredi (candelabri, tripodi, incensieri ecc.) per il quale erano famose nei secoli VI e V a.C. le botteghe di Vulci. Particolarmente importante fu anche la lavorazione del bronzo laminato, con figurazioni ottenute dapprima con la tecnica dello sbalzo (cioè con la martellata a freddo del metallo dal rovescio in modo da far risaltare il disegno in rilievo al diritto), e poi, sempre più spesso, con quella dell’incisione caratterizzata dalla pesante e larga linea di contorno che disegnava le figure. Quest’ultima tecnica venne impiegata specialmente per decorare la superficie di specchi, teche, cofanetti ecc. Non secondaria fu la produzione a intaglio degli avori e degli ossi, particolarmente fiorente e raffinata nel periodo orientalizzante e della quale i punici erano maestri.
[24421]
La ceramica etrusca trovò il suo aspetto più originale e interessante nel bucchero che è considerato alla stregua di una ceramica ‘‘nazionale” dell’Etruria. Prodotto a partire dalla metà del VII secolo a.C., il bucchero imitava il vasellame metallico sia nelle forme e nelle decorazioni sia nel colore nero lucido delle superfici ottenuto attraverso uno speciale modo di cottura dei vasi. Famose erano le fabbriche di Cerveteri, Tarquinia e Vulci che producevano, nella fase più antica, il ‘‘bucchero sottile” in forme riprese dalla ceramica greca. Ma il bucchero assunse un certo margine di originalità a seconda delle tendenze locali o occasionali per prendere spesso forme anche bizzarre, elastiche o ridondanti. Ciò fu più evidente nei primi decenni del V secolo a.C., quando si arrivò alla produzione dei grandi vasi figurati e decorati a rilievo e dalle pareti assai spesse (‘‘bucchero pesante” di Chiusi). Quanto alle decorazioni, esse furono dapprima incise e graffite con semplici motivi ornamentali di tipo geometrico o in figura di animale, ma non mancano quelle applicate e quelle eseguite a stampo, fino ad arrivare alle scene figurate, a rilievo, degli esemplari più tardi. Completamente d’imitazione fu la ceramica dipinta, più o meno fedele a quella greca largamente diffusa in Etruria. Agli inizi dell’età ellenistica grande successo ebbero le singolari ceramiche di Volsinii, rivestite di vernice argentata.
[24431]
All’oreficeria appartengono i prodotti forse più originali e riusciti dell’artigianato etrusco. Sia che si tratti di vasellame, di oggetti d’abbigliamento o di veri e propri gioielli, l’oreficeria etrusca, specialmente nel periodo che andò dal VII alla fine del VI secolo a.C. quando fiorirono le botteghe orafe di Vetulonia e di Vulci, ci dà la misura del gusto, della fantasia e delle capacità tecniche degli artigiani etruschi, oltre, naturalmente, della ricchezza e della prosperità economica dell’Etruria. Predomina il gusto orientale per l’ostentato splendore degli effetti e del sovraccarico; i motivi ornamentali sono quelli geometrici o tratti dalla stilizzazione di elementi antropomorfi, zoomorfi o fitomorfi (palmette, rosette ecc.) con l’impiego, ad altissimo livello, delle diverse tecniche di lavorazione che vanno dall’incisione allo sbalzo, dalla fusione alla filigrana, spesso combinate insieme. Dal Vicino Oriente venivano importati ‘‘gingilli” il pasta di vetro e in ceramica (gli athyrmata). Un ruolo particolare aveva la tecnica della granulazione, anch’essa di provenienza orientale, che consentiva raffinatissimi effetti decorativi. Anche nell’oreficeria gli etruschi tendevano quindi all’espressività.
[251]
L’Etruria meridionale e interna è caratterizzata da terreni vulcanici, con altipiani tufacei facili da difendere, su cui sorgevano grandi città cinte di mura come Veio, Cerveteri, Tarquinia o Orvieto. Nell’Etruria settentrionale le città, sempre fortificate, si distribuirono in modo più razionale, in genere su un agglomerato di collinette separate da depressioni, a controllare una via di comunicazione o di transumanza, il corso di un fiume, la conca di un lago, l’apertura di una valle che garantissero sia il rifornimento alimentare, sia l’esportazione delle eccedenze dei prodotti agricoli o artigianali. Le zone costiere erano invece tutte piuttosto malsane e insicure, fornite dei due soli porti naturali di Talamone e Populonia.
[2511]
Il territorio meridionale dell’Etruria si estende in maniera abbastanza uniforme lungo il corso inferiore del Tevere, per una larghissima fascia fino all’altezza di Orvieto. È l’Alto Lazio, in cui si succedono paesaggi di basse colline tufacee che giungono a lambire il mare presso il massiccio dei Monti della Tolfa, dove il ‘‘paesaggio del tufo” cede a quello della Maremma. La zona vide fiorire tra il IX e l’VIII secolo a.C. importanti città come Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Tuscania, Volsinii e, nelle pianure variamente estese lungo la costa, Roselle, Talamone, Vetulonia e Populonia.
[25111]
L’antica città di Veio (o Veii), sorgeva a soli 15 chilometri da Roma, su di un vasto promontorio tufaceo presso il corso del torrente Cremera. Nata probabilmente dalla fusione di più villaggi in epoca villanoviana (IX secolo. a.C.), Veio raggiunse il suo massimo splendore in età arcaica (VII secolo a.C.). Fu conquistata dai romani dopo un decennale assedio conclusosi nel 396 a.C.
Durante il periodo villanoviano Veio era, insieme a Tarquinia, il centro più importante dell’Etruria meridionale. Posta in posizione strategica sulla riva destra del Tevere controllava, specialmente dal VII secolo a.C. in poi, le rotte commerciali della bassa val Tiberina a cui giungevano i metalli del distretto minerario poco più settentrionale. In questo periodo la città occupava un’area quattro volte maggiore della Roma serviana. Difesa naturalmente, vi si accedeva soltanto da ovest dove l’altipiano tufaceo laziale si collegava al colle della città; questo passaggio fu poi forato con un lungo tunnel per farvi scorrere il torrente Cremera. Nel V-IV secolo a.C. le rupi naturali che circondavano l’altipiano furono sovrastate da mura possenti in pietra vulcanica. Oltre al complesso sacro presso il tempio del Portonaccio, tra le numerose tracce di insediamento risalenti al VI secolo sono tornate alle luce quelle dell’acropoli in località Piazza d’Armi dove le fonti letterarie collocano anche il tempio della dea protettrice della città, Giunone Regina. In più punti della città (Macchiagrande, Quarticcioli) sono state restituite parti di abitazioni che presentano una fondazione in blocchi di tufo squadrati e compressi a secco a formare gruppi di vani quadrati, talora con focolare. Mirabili le opere di ingegneria idraulica: tunnel, cunicoli e cisterne regolavano il flusso delle acque attorno alla collina dove sorgeva la città.
[251111]
Il santuario di Portonaccio, che si trova fuori delle mura, fu probabilmente legato al culto delle acque sulfuree e ferruginose di cui era ricca la zona; il complesso comprendeva infatti anche una piscina e una serie di pozzi e pare fosse dedicato a Minerva Medica. All’interno dell’area sacra circondata da un muro sorgeva il tempio, costruito nel VI secolo a.C. secondo lo schema architettonico etrusco con tre celle ed ampio pronao a quattro colonne disposte su due file. Al tempio sono riferibili alcune statue di terracotta che dovevano originariamente sorgere sul culmine del tetto; per alcune di esse si è ipotizzato come autore Vulca, l’unico artista etrusco di cui si conosca il nome, chiamato anche a Roma dai Tarquini a decorare il tempio di Giove Capitolino. Nelle statue si riconoscono Apollo, Ercole con la cerva e Mercurio; sono inoltre presenti una figura femminile con un bambino in braccio (forse Latona con Apollo), una testa maschile e un torso maschile di color bruno-nero più ampie dimensioni (probabilmente Zeus). Del sacro edificio è oggi visibile solo parte del basamento in blocchi di tufo. Addossata al lato settentrionale del tempio c’è la grande piscina, della capienza di circa 180 metri cubi d’acqua, dove probabilmente si bagnavano i pellegrini. Era realizzata con blocchi di pietra e rivestita da uno strato di terra argillosa per impedire il deflusso.
[251121]
La tomba Campana, scavata nella roccia e risalente alla fine del VII o al principio del VI secolo a.C., prende il nome dal marchese che la scoprì nel 1843 nella necropoli di Monte Michele. Un corridoio con due leoni di tufo (ora privi di testa) e con due camerette laterali immette in una prima camera con due banchine sui lati; una porta sulla parete di fondo dà accesso a una seconda cameretta interna. Su questa parete, tutt’intorno alla porte, vi era una decorazione a denti di lupo e, ai lati della porta, quattro panelli dipinti – due per lato – sormontati da tracce di fiori di loto. Il pannello superiore sinistro raffigura un cavallo con cavaliere ed un felino, quello inferiore tre quadrupedi di diverse proporzioni; il pannello inferiore destro riporta una sfinge, un felino rampante e un altro quadrupede. Il pannello superiore destro si distacca dagli altri per il suo valore narrativo: due uomini, di cui uno armato di bipenne, precedono a piedi un cavallo montato da un minuscolo cavaliere; sotto il cavallo un cane volge in alto il muso. Tutti gli animali sono dipinti in modo piuttosto irreale (manti gialli a punti rossi o rossi a punti gialli). Questa prima camera conteneva sul banco di destra un inumato con corazza ed elmo forato da un colpo di lancia; sul banco di sinistra un altro inumato, un calice a sostegni e grossi recipienti fittili. La camera più interna aveva dipinti sulla parete sei scudi su due file, che simulavano veri scudi in lamina di bronzo con decorazioni a sbalzo. Conteneva tre urnette cinerarie con coperchio a botte, una testina applicata a tutto tondo, un braciere a tre piedi in bronzo e delle ceramiche.
[25121]
A poca distanza dalla costa, tra il lago di Bracciano e il mare, 45 chilometri a nord di Roma, sorgeva la potente città etrusca di Ceisra, chiamata Caere dai romani e Agylla dai greci. Il primo aggregato urbano risale all’epoca villanoviana (IX-VIII secolo. a.C.), mentre il periodo di maggiore splendore si colloca intorno al primo quarto del VII secolo. a.C. Nel 353 si scontrò con Roma e fu sconfitta, ma le fu concessa la cittadinanza.
L’antica Cerveteri si estendeva a poca distanza dal mare su un vasto altipiano tufaceo compreso tra la stretta valle del fosso del Manganello e quella del fosso della Mola; solo il versante nord-est non era ripido e per questo vi fu aperto un profondo fossato che consentiva una più facile difesa. Le mura furono probabilmente edificate in una fase avanzata ed è dubbio se cingessero tutto il centro o sole le zone dove l’altipiano non era sufficientemente ripido da costituire di per sé una difesa naturale. Della città etrusca è rimasto ben poco, anche se si conosce la presenza di un tempio di Era, di cui restano le terrecotte architettoniche e degli ex voto. All’esterno della città vi erano numerose necropoli (Sorbo, Monte Abatone, Banditaccia ecc.) talora realizzate con vie e piazze tracciate secondo un preciso programma urbanistico. Le tombe erano principalmente del tipo a camera, costruite o parzialmente scavate, coperte all’interno con la tecnica dell’aggetto e all’esterno dotate di tumulo contenuto da lastroni o da un alto tamburo. Nel V secolo. a.C. inizia il declino della sua potenza e alla metà del IV secolo. a.C. viene sottomessa da Roma. Ben poco rimane ormai dell’antica città etrusca, mentre meglio conservate sono le estese necropoli con vie e piazze tracciate secondo un preciso programma urbanistico.
[251211]
La tomba Regolini-Galassi della necropoli di Sorbo deve il nome a coloro che la portarono alla luce nel 1836. Si tratta di un tumulo circondato da un alto tamburo il cui accesso dà in un corridoio o vestibolo per metà scavato nel tufo e per metà costruito con la tecnica dell’aggetto; ai due lati si aprono due piccole celle scavate quasi circolari. Un basso tramezzo divide il corridoio dalla camera interna che appare più stretta, anche se posta sullo stesso asse. Nel vestibolo fu trovato un guerriero inumato con un ricco corredo consistente in un letto di bronzo formato da una grata fissata su un telaio; un bruciaprofumi, anch’esso di bronzo, montato su quattro piccole ruote; scudi da parata in lamina di bronzo lavorata a sbalzo; vari calderoni; armi; ceramiche e buccheri, tra cui alcune statuette di donne piangenti. Nella cella, presso un inumato, furono rinvenuti moltissimi gioielli in oro, tra i quali una fibula di 30 centimetri con leoni e anatre, un pettorale ovale con figure reali e fantastiche, due bracciali a nastro in figura femminile, una collana di maglia con pendenti in ambra, anelli, catenelle ecc. Erano presenti in grande quantità anche oggetti d’argento e di bronzo; tra questi ultimi era un trono con poggiapiedi e calderoni con sbalzi. La celletta destra aveva un inumato, quella sinistra i resti di una biga di bronzo smontata.
[251221]
La cosiddetta Tomba degli Scudi e delle Sedie, scavata interamente nel tufo, si trova nella necropoli della Banditaccia ed è datata alla metà del VI secolo a.C. Un corridoio, ai cui lati si aprono due vani con banchine, immette in un ampio vestibolo con tre retrostanti camere più piccole. Ai lati e sulla parete di fondo del vestibolo sono presenti letti intagliati nel tufo. Sulla parete di fondo, fra tre porte dagli stipiti a rilievo, stanno due troni con gli schienali semicircolari e poggiapiedi; su tutte le pareti appaiono scolpiti ampi scudi circolari che imitano quelli di bronzo da parata. Il vestibolo della tomba presenta una falsa travatura a rilievo nel soffitto e due finestrelle che si affacciano sulle cellette laterali. Tutto l’insieme ricalca, nella disposizione dei vani, la casa etrusca più comune nella zona.
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Pyrgi (nei pressi dell’attuale castello di Santa Severa) fu, secondo le fonti antiche, la principale base navale di Caere, da cui distava circa 13 chilometri e alla quale era collegata da una grande strada. Il primo insediamento stabile del sito risale alla fine del VII secolo a.C., ma fu celebre dal V secolo per il suo santuario, uno dei più importanti del Mediterraneo. Dopo l’annessione del litorale ceretano a Roma vi fu fondata una colonia marittima intorno alla metà del III secolo. a.C.
Legata alla politica di Caere, Pyrgi fiorì verso il 500 a.C. quando fu edificato, il tempio dedicato alla dea etrusca Uni, che i greci conoscevano come Leucotea o Ilizia e i fenici come Astarte. L’abitato etrusco, oggi in parte sommerso, si estendeva in origine su di un’area di circa 10 ettari e aveva strade che si incrociavano ad angolo retto e case costruite in mattoni crudi coperte da tegole. L’area sacra sorgeva ai margini dell’abitato, presso la strada principale. Era costituita da un tempio a una sola cella (il cosiddetto Tempio B), colonnato in stile greco e decorazione fittile, e da un tempio più grande (il Tempio A di Uni-Astarte). Questo tempio, databile al 470 a.C. è del tipo a tre celle con ampio pronao. Attualmente rimangono solo le fondazioni in tufo ma in origine l’alzato era decorato sia sulla fronte sia sul retro da lastre fittili con altorilievi policromi. Particolarmente ammirato sembra essere stato il pannello che decorava la testata della trave maestra del tetto, all’interno dello spazio frontale posteriore, che raffigurava la scena dei ‘‘Sette contro Tebe”. Il santuario di Pyrgi venne occupato e depredato nel 384 a.C. da Dionisio di Siracusa.
[251311]
Nel 1964 furono rinvenute nell’area sacra di Pyrgi tre lamine auree di forma rettangolare accuratamente piegate e riposte in un luogo sicuro. In origine erano probabilmente inchiodate agli stipiti o ai battenti del cosiddetto Tempio A. Due di esse recano un’iscrizione in etrusco (16 righe) e una in lingua fenicia (11 righe). Si tratta della dedica del tempio alla dea Uni (corrispondente all’Astarte fenicia) da parte del signore di Caere. Il momento storico è probabilmente quello dell’alleanza tra Caere e Cartagine dopo la battaglia di Alalia. L’iscrizione sembra così traducibile:
‘‘Alla signora Uni questo è il luogo sacro che ha fatto e che ha dedicato Thefarie Velianas, re di Caere, nel mese di z-b-h sh-m-sh (nome di mese di cui non è possibile dare traduzione, così come dell’altro citato più avanti) del sacrificio del sole, come dono al tempio. E l’ho costruito perché Uni ha richiesto ciò a me, nell’anno terzo del mio regno, nel mese di k-r-r, nel giorno del seppellimento della divinità. E gli anni della statua della dea nel suo tempio (siano) tanti come queste stelle”.
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L’insediamento etrusco Suana, l’odierna Sovana, sorgeva sulla riva sinistra del fiume Fiora nell’entroterra della bassa Maremma. Tra il VII e il VI secolo. a.C. la città doveva far parte del territorio di Vulci, ma sul finire del VI secolo. a.C. i suoi interessi probabilmente si spostarono verso l’area romana.
Sovana era situata su un altipiano tufaceo scosceso su tre versanti, mentre sul lato meno protetto possedeva fortificazioni costituite da mura di grossi blocchi di tufo. La città subì un periodo di abbandono tra il V e la prima metà del IV secolo a.C., poi ebbe una ripresa attestata dallo sviluppo delle necropoli rupestri che sorgono tutt’intorno alla città. Le tombe sono caratterizzate da un vestibolo ampio e aperto, sul fondo del quale una porta profilata da cornici conduce a una camera e a più ambienti dal soffitto a cassettoni. Alla prima metà del III secolo a.C. risalgono le tombe ‘‘a dado”, costituite da un edificio cubico intagliato nel bancone roccioso di tufo con porta architravata anteriore. Quando l’edificio è distaccato dalla collina per soli tre lati, la tomba è detta ‘‘a facciata”. In certi casi la porta è falsa e la vera camera funeraria è sottostante, accessibile da un lungo corridoio in discesa. Più tardi appaiono anche tomba a edicola frontonata sia con timpano vuoto sia con ricche decorazioni.
[251411]
La Tomba Ildebranda, che deve il suo nome a Ildebrando di Sovana – pontefice col nome di Gregorio VII – che la tradizione riteneva qui sepolto, è databile intorno alla metà del II secolo. a.C. Scavata interamente nel tufo della collina a cui è addossata la tomba, visibile esternamente su tre lati, era simile a un tempio dal tetto piatto, con sei colonne sulla fronte e tre ai lati. Oggi parzialmente distrutta, doveva avere in origine una ricca decorazione plastica e una vivace policromia. La trabeazione aveva due fregi di diversa altezza decorati da figure di grifi e fogliame; le colonne scanalate erano sormontate da capitelli a volute decorati da figure maschili e femminili. Tutto il monumento era ricoperto di stucco bianco-giallastro su cui spiccavano con grande evidenza gli elementi colorati. Dietro il pronao vi era una falsa cella a pianta quadrata. La camera funeraria era sotterranea e vi si accedeva tramite un corridoio in discesa.
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Sulla riva destra del torrente Fiora ormai quasi prossimo alla foce, Volci (ossia Vulci) fu una delle più grandi città dell’Etruria meridionale, che estendeva la sua influenza su un vasto territorio delimitato a sud dal fiume Arrone e a nord dai monti dell’Uccellina. Nel III secolo a.C. si oppose a Roma e, anche se sconfitta, mantenne un certo livello di autonomia.
Il periodo di maggiore potenza della città si colloca tra il VI e la prima metà del V secolo. a.C. ed è testimoniato dagli sterminati sepolcreti e dai ricchi corredi funerari. Ad un periodo di crisi economica e produttiva seguì nel IV secolo a.C. una brillante ripresa. La fondazione da parte dei Romani della colonia di Cosa (273 a.C.) e la successiva guerra annibalica furono la causa tra il III e il II secolo a.C. della progressiva decadenza della città. Vulci fu un importante centro per la lavorazione e la diffusione di oggetti in bronzo e vi furono inoltre scuole locali di ceramisti che imitavano vasi corinzi, ionici ed attici e producevano vasi etruschi a figure rosse. Pochi resti dell’abitato sono ancora visibili: tratti delle mura, tracce di due porte, qualche edificio di età romana. Dalla cosiddetta Tomba François provengono le celebri pitture del IV secolo a.C. con scene della conquista etrusca di Roma. Degno di nota è anche il grande tumulo funerario della Cuccumella, con ambienti e corridoi sotterranei molto complessi.
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Tarquinia (Tarchuna, in latino Tarquinii), una delle maggiori città del mondo etrusco, sporge a circa 100 chilometri da Roma, sul litorale tirrenico. Di antichissime origini, la leggenda ne attribuiva la fondazione a Tarconte, fratello di quel Tirreno che avrebbe condotto in Italia gli etruschi dalla Lidia. Raggiunse il massimo sviluppo tra il VII e il VI secolo a.C.: fu allora infatti che un suo cittadino, Tarquinio Prisco, divenne il quinto re di Roma.
L’abitato antico era posto sul Colle della Civita, dove sono stati scoperti i resti delle mura e un grande tempio detto Ara della Regina. Tutto intorno si estendeva la vasta necropoli dei Monterozzi ove sono state individuate più di 150 tombe ipogee dipinte, del periodo compreso tra il VI e il II-I secolo a.C. Tra le più importanti e suggestive sono: la Tomba del Guerriero (metà del V secolo a.C.), decorazioni di cerimonie funebri; Tomba del Cacciatore (fine del VI-inizi del V secolo a.C.), scene di caccia; Tomba delle Leonesse (circa 530 a.C.), scene di danza, suonatori e figure di animali; Tomba del Giocolieri (fine del VI secolo a.C.), danze e giochi funebri, equilibristi, danzatori; Tomba dei Festoni (prima metà del III secolo a.C.), fregio con scudi e festoni, demoni, imitazione della travature del tetto; Tomba dei Leopardi (prima metà del V secolo a.C.), banchetto funebre, suonatori; Tomba Cardarelli (fine del VI secolo a.C.), suonatori, danzatori, atleti; Tomba degli Scudi (IV secolo a.C.) personaggi della famiglia Velcha, scudi; ecc. Nel IV secolo a.C. la città fu sottomessa da Roma, ma riuscì ancora a mantenere per qualche tempo una sua parziale autonomia.
[251611]
L’Ara della Regina è il monumento più interessante e più studiato di Tarquinia. Fu rinvenuto a sud dell’abitato ed è databile circa alla seconda metà del IV secolo a.C. Non si conosce il nome della divinità a cui era dedicata, e gli scarsi resti non consentono di ricostruirne con certezza l’aspetto originario. L’ara si innalza su un basamento di grandi dimensioni (77,15x35,55 m) ed era articolata su due livelli: una prima terrazza, dove si svolgevano sacrifici e cerimonie, era situata davanti al tempio; la seconda terrazza, collegata alla prima tramite un piano inclinato e due scale laterali, sosteneva l’edificio templare. Il tempio (39,35x25,35 m) aveva una pianta con cella unica e un pronao con due colonne davanti alla cella stessa. Molte furono le terrecotte architettoniche rinvenute durante gli scavi, tra le quali il superbo gruppo dei cavalli alati, ad altorilievo, che ornava il frontone del tempio, uno dei capolavori della scultura etrusca. Davanti all’intero complesso sacro si apriva una piazza con fontana circolare (I secolo a.C.).
[25171]
Roselle o Rousellae, una delle città della Dodecapoli etrusca, sorgeva su due alture prospicienti la pianura grossetana, occupata anticamente dalla laguna navigabile del Prilio che si estendeva fino a Vetulonia. Era quindi posta a guardia della foce dell’Ombrone, uno dei pochi fiumi che consentissero l’accesso all’Etruria interna. Il periodo del suo massimo splendore si colloca tra il VI e il V secolo a.C., parallelamente al declino della vicina Vetulonia.
Roselle è posta su un colle che si separa al centro formando una sella. La sua posizione le consentiva l’accesso al mare grazie alla laguna del Prilio, mentre l’Ombrone rendeva possibili le comunicazioni con le città della Val d’Orcia (Chiusi) e quindi con l’Etruria interna. Di particolare interesse è la cinta muraria del VI secolo a.C. costruita con grossi massi di pietra locale e il cui perimetro è quasi completamente integro, talvolta conservato fino a 5 metri di altezza. Ha conosciuto due fasi principali: la prima, costituita da grandi blocchi in opera poligonale è databile alla metà del VI secolo a.C.; la seconda, consistente in un rifacimento a piccoli blocchi quasi parallelepipedi, risale al IV secolo a.C. In questa cinta si aprivano sette porte, sei delle quali erano costruite in modo che, entrando, gli attaccanti erano obbligati a scoprire ai difensori il lato non protetto dallo scudo; la settima porta, quella Nord, era del raro tipo a camera interna. Nell’area archeologica sorge un quartiere abitativo di età ellenistica, ma sono visibili anche resti di edifici in mattoni crudi del VI e VI secolo a.C. Dall’inizio del III secolo a.C. Roselle fu sottomessa a Roma e dall’89 a.C. fu municipio. In età augustea la colonia romana abbandonò la collina meridionale per occupare quella settentrionale e la valletta interna dove rimangono i resti dell’anfiteatro e dell’Augusteo, grande sala rettangolare absidata.
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Dopo molte incertezze, l’area dell’etrusca Vetluna, ossia Vetulonia, venne identificata nel secolo scorso in località Poggio Colonna, presso Castiglio della Pescaia, nel Grossetano. Il primo insediamento risale all’epoca villanoviana (IX-VIII secolo a.C.), mentre il periodo di massimo sviluppo politico ed economico si colloca tra il VII e il principio del VI secolo. a.C. In seguito la città subì una rapida e totale decadenza.
Il benessere raggiunto da Vetulonia nel VII secolo a.C. è certamente legato allo sfruttamento dei giacimenti metalliferi (piombo, rame e argento) della non lontana Massa Marittima. Fiorente fu infatti la lavorazione del bronzo da parte di artigiani locali. Della città resta pochissimo; l’acropoli, inglobata nel castello medievale, aveva una propria cinta di mura databile al VI secolo a.C. L’estesa necropoli presenta tombe a incinerazione e a inumazione, riunite in ‘‘circoli continui”, veri e propri tumuli di 20-30 metri di diametro, in terra battuta, delimitati da lastre di pietra poste verticalmente. I corredi mostrano grande ricchezza. Compaiono anche sepolcri monumentali con dromos e camera sepolcrale coperta con finta volta a tholos e pilastro centrale. Tra i più rappresentativi, lungo la via dei Sepolcri, è il Tumulo della Pietrera (VII secolo a.C.) dove furono rinvenuti i primi esempi di statue etrusche in pietra lavorate a tutto tondo.
[25191]
Strabone, storico e geografo greco vissuto tra il 63 a.C. e il 20 d.C. riferisce nella sua Geografia: ‘‘Populonia è situata su un alto promontorio che s’innalza bruscamente sul mare formando una penisola...Adesso, anche se la città è abbandonata, con l’eccezione dei templi e di poche case, la città portuale, che ha un piccolo porto con due moli, ai piedi della montagna, è più popolata. Secondo me questa è l’unica città dei Tirreni che sia situata sul mare stesso”.
L’importante centro di Populonia sorgeva su un’altura dominante la baia di Baratti, di fronte all’isola d’Elba. Fondata forse dai còrsi o forse dagli etruschi di Volterra, Populonia (Pupluna per gli etruschi) fiorì grazie all’industria siderurgica, basata sulle ricche miniere di ferro dell’isola d’Elba, ininterrotta fino in epoca imperiale. La più antica fase villanoviana è testimoniata dalle necropoli a incinerazione di San Cerbone e di Piano e Poggio delle Granate, presso il golfo di Baratti. A partire dalla fine del VII secolo a.C., insieme con l’introduzione del rito funerario dell’inumazione si realizzarono tombe a fossa che nel VI secolo a.C. si erano già trasformate in tomba a camera quadrata entro tumuli monumentali con tamburo. Durante il VI secolo a.C. nell’abitato vennero costruite le mura dell’acropoli e nelle necropoli si innalzarono tombe ‘‘a edicola”, una sorta di tempietto contenente una semplice camera sepolcrale. La floridezza della città nel V secolo è testimoniata dall’emissione di un’eccezionale serie di monete d’argento con figura di Gorgone. Nel periodo successivo fu realizzata una più ampia cerchia di mura, mentre gli scarti dell’attività siderurgica sommersero le necropoli più antiche e le aree cimiteriali si spostarono sulle pendici del colle. Non sappiamo in seguito a quali avvenimenti Populonia sia entrata nell’orbita romana, ma nel 205 a.C. approvvigionava di ferro la missione africana condotta da Scipione contro Cartagine.
[251911]
I forni utilizzati per estrarre dai minerali il metallo parzialmente raffinato erano posti solitamente presso le miniere stesse o nelle loro vicinanze. Molti di essi avevano forma cilindrica o tronco-conica ed erano rivestiti all’interno con materiali refrattari. Da un’imboccatura posta sulla sommità veniva immesso il minerale grezzo, alternato a strati di carbone. Acceso il fuoco nella camera inferiore, il calore si propagava verso l’alto attraverso un piano orizzontale munito di una serie di fori. Il minerale fuso si raccoglieva quindi nella camera inferiore dove, praticando un’apertura ad altezza opportuna, veniva depurato dalle scorie di fusione. Per recuperare il prodotto divenuto solido era necessario smantellare il forno. Successivamente si sottoponeva il metallo ad ulteriori processi di raffinazione. Tra i forni meglio conservati quello del Poggio della Porcareccia e quelli di Val Fucinaia presso la miniera del Temperino.
[25201]
Sull’alto colle di Talamonaccio, in posizione dominante il mare e le colline dell’interno, sorgeva l’antico centro etrusco di Tlamu, probabilmente dipendente da Vulci. Il suo porto ebbe una notevole importanza come scalo commerciale tra le città settentrionali e quelle meridionali dell’Etruria costiera.
Dell’abitato etrusco sull’altura di non sono rimaste tracce per quanto riguarda i secoli VII e VI a.C. mentre erano tornati alla luce molti resti di età ellenistica, tra cui un tempio, quando alla fine dell’Ottocento la collina fu sbancata per la costruzione di un fortilizio militare. Queste strutture non vennero rilevate e le fondazioni di vari edifici (compresa la cinta muraria formata da una doppia cortina di massi) venero smantellate. Solo nel 1962 scavi regolari hanno restituito testimonianze di varie epoche che hanno consentito di ricostruire la disposizione del tempio. Il centro era connesso con il porto sottostante che sfruttava il golfo naturale dove sorge l’odierna città di Talamone. Le necropoli relative all’abitato ellenistico, che sorgono nella piana di Camporegio, hanno restituito vari materiali bronzei, tra cui specchi con scene mitologiche e bruciaprofumi con figure plastiche. Nel III secolo, a seguito dell’espansione romana verso nord, Talamone entrò nell’orbita di Roma, ma decadde insieme a Vulci quando nel 273 a.C. fu fondata a soli 20 chilometri la colonia romana di Cosa.
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Databile alla seconda metà del IV secolo a.C., il Tempio di Talamone si elevava su un basamento in blocchi di tufo alto circa 2 metri. Aveva probabilmente un’unica cella e due ali laterali. Il pronao, forse in origine a due sole colonne, era chiuso ai lati dai prolungamenti delle pareti esterne. Intorno al 150 a.C. subì una radicale trasformazione che interessò soprattutto il prospetto anteriore. L’architrave fu rivestito da lastre con palmette e spirali ‘‘a S” sormontate da baccellature; sugli angoli del tetto vennero posti degli acroteri in forma di cavallo marino, mentre il grande acroterio centrale era costituito da una palmetta traforata. Il frontone fu chiuso da un altorilievo in terracotta raffigurante i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, che si affrontano sotto le mura di Tebe in uno scontro mortale: al centro sta Edipo in ginocchio, sorretto da un aiutante, mentre la sua sposa e madre Giocasta si volge verso Eteocle morente; dall’altro lato Polinice è caduto esanime tra le braccia di un aiutante. Attorno a questa tragedia familiare si svolge la battaglia descritta nel mito dei ‘‘Sette a Tebe”. Per le sue dimensioni, questa movimentata composizione fu tagliata in più pezzi per permetterne la cottura. Il tempio fu distrutto da un incendio intorno al 100 a.C.
[25211]
Orvieto occupa l’area dell’antico abitato etrusco di Velzena che i latini chiamarono Volsinii. La città è posto su un altopiano di tufo rosso alto 40 metri e dominante la media Val Tiberina nei pressi della confluenza tra Paglia e Tevere. L’antica navigabilità di questi due fiumi facilitò i contatti con l’area chiusina, falisca e vulcente.
Frequentato già in epoca villanoviana, raggiunse il suo massimo splendore tra il VI e il V secolo a.C. L’abitato, occupato oggi dalla città medioevale e moderna, ebbe vari edifici sacri tra cui il tempio detto del Belvedere, dedicato forse a Tinia (=Zeus, Giove). Era posto su di un podio modanato, in parete costruito e in parte ricavato nel masso e vi si accedeva con una gradinata; il pronao doveva avere due file di quattro colonne. L’edificio, in mattoni crudi intonacati e decorati con policromie, aveva la copertura di tegole molto inclinata e arricchita da numerose terrecotte decorative. Tra le necropoli rivestono un particolare interesse quella del Crocefisso del Tufo che presenta un impianto regolare di tipo urbano e quella della Cannicella, dove le sepolture si adattano, spesso sovrapponendosi, alla morfologia del terreno. Nel territorio circostante furono rinvenute alcune tombe dipinte e resti di importanti edifici sacri. Nel corso del III secolo a.C. Orvieto venne progressivamente abbandonata.
[252111]
Individuata in parte fin dal 1830, la necropoli del Crocefisso del Tufo è concepita secondo un impianto di tipo urbano a scacchiera. I sepolcri sono infatti disposti in isolati di forma quadrata o rettangolare, delimitati da strade che si incrociano ad angolo retto. Le singole tombe a camera, tra loro uguali, sono costruite con blocchi di tufo squadrati messi in opera a secco. La facciata è decorata da frontoni architettonici e sull’architrave si legge spesso il nome del defunto. All’interno vi è la cella funeraria rettangolare, lunga circa tre metri, con banchine per la deposizione sulle pareti. La copertura è costituita da una falsa cupola; talvolta è presente un vestibolo. Al di sopra delle tombe, coperte da terreno livellato orizzontalmente, sono posti dei cippi funerari di forma sferica, a cipolla o cilindrica. I materiali provenienti dalle tombe (oggetti d’oro lavorati a filigrana e a sbalzo, ceramiche d’importazione attica e di produzione locale) testimoniano una discreta ricchezza.
[2531]
L’Etruria interna corrisponde all’attuale Toscana e al territorio perugino dell’Umbria. Il paesaggio è in larga misura collinare, ma la natura geologica e la morfologia delle colline sono assai varie. I massicci montani determinano variazioni climatiche abbastanza notevoli e le comunicazioni si sviluppano quasi esclusivamente lungo le vallate fluviali interne. Terra della vite e dell’olivo che favorì nel VI secolo a.C. la potenza di città come Perugia, Arezzo, Cortona, Chiusi, Fiesole, Volterra.
[25311]
La fondazione di Perugia è attribuita a Aules, mitico eroe etrusco, padre e fratello di Ocno che a sua volta fondò, secondo Virgilio, Mantova e Felsina. Il nome etrusco della città non è documentato, a differenza di quello latino: Augusta Perusia. Posta all’incrocio di importanti vie di comunicazione verso il Lazio, l’Etruria settentrionale e il versante adriatico, fu potente anche grazie alla sua posizione. Livio la ricorda come una delle città che costituirono la Dodecapoli.
I rilevamenti archeologici relativi al periodo anteriore alla fine del V secolo a.C. sono piuttosto scarsi. L’importanza di Perugia è invece documentata nel IV e III secolo a.C. dalle necropoli e dalla imponente cinta muraria. Quest’ultima, in blocchi regolari di travertino posti in opera a secco, era lunga circa tre chilometri e interrotta da cinque porte; due di esse, Porta Marzia e l’Arco Etrusco (o di Augusto), sormontato da un architrave con scudi rotondi, sono ancora ben conservate. Dell’assetto urbano della città etrusca rimangono solo resti di pavimentazione stradale e terrecotte architettoniche. Perugia fu infatti distrutta e incendiata da Ottaviano nel 42 a.C. e successivamente ricostruita ex novo dai romani. La documentazione più probante ci è offerta dalle necropoli sviluppatesi fuori dalla cinta muraria. Sono prevalentemente costituite da tombe a fossa e a camera con presenza sia del rito inumatorio che incineratorio. La necropoli più antica è quella del Palazzone; di poco più recenti quelle di Castel San Mariano e di San Valentino di Marsciano da cui i noti carri bronzei sbalzati. Di età ellenistica è il nucleo costituito da ben 38 tombe a camera esplorate dopo la scoperta dell’ipogeo dei Volumni al Palazzone riproducente lo schema dell’impianto di una casa.
[253111]
La sua costruzione risale al II secolo a.C. e subì nel tempo vari rimaneggiamenti sino al 1500, quando Antonio da Sangallo ne inserì il prospetto superiore nella Rocca Paolina. Caratteristico è il falso loggiato, con quattro pilastrini scanalati coronati da capitelli ionici, chiuso sulla fronte da una bassa transenna dalla quale si affacciano tre figure maschili (Giove e i Dioscuri) e due protomi equine. Due grossi pilastri inquadravano l’arco e la sovrastante struttura.
[253121]
L’ipogeo dei Volumni, a cinque chilometri da Perugia, fu rinvenuto casualmente nel 1840. È una tomba di famiglia interamente scavata nel tufo, databile tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. Vi si accede da una ripida scalinata di 29 gradini che conduce alla porta con architrave e stipi; su quello a destra, un’iscrizione ricorda come “Arunte Larte Volumnio di Arunia pose, dedicò per la salute gli annuali sacrifici”. Dalla porta si accede a un atrio rettangolare con copertura, alta quattro metri, a doppio spiovente in falsi travi e travicelli; nello spazio frontale sulla parete di fondo vi sono due teste applicate ai lati di un grande scudo con emblema di significato solare. Su ogni parete laterale, tra delle banchine, si aprono tre stanzette (cubicola) con altri piccoli ambienti secondari. Il largo portale sulla parete di fondo immette nel tablino, ai cui lati erano due serpenti fittili e sulla volta una Gorgone; qui sono disposte sei urne in travertino degli agiati componenti della famiglia dei Volumni. Quella del capostipite (Arnth Velimnes Aules), insigne magistrato perugino e fondatore del sepolcro, è un vero e proprio monumento sepolcrale: il defunto è rappresentato sdraiato su un triclinio, mentre due figure femminili di demoni alati sono poste a guardia di una porta (indicante forse l’ingresso dell’Ade) dipinta sulla cassa del monumento.
[25321]
Situata all’incrocio di quattro vallate, la Val di Chiana, la Val Tiberina, il Casentino e la media valle dell’Arno, Arezzo, citata nelle fonti antiche col nome latino di Arretium, fu una delle più importanti città dell’Etruria settentrionale. Abitata già nel VI secolo a.C., ha avuto un’ininterrotta continuità di vita fino ai nostri giorni.
Si suppone che il luogo in cui sorge Arezzo fosse già abitato alla fine del VI secolo a.C. D’altronde esso si trovava sugli itinerari naturali battuti dal movimento di colonizzazione partito dal distretto di Chiusi e volto verso la pianura e padana. Ben poco resta oggi a testimoniare la città etrusca: qualche tratto della cinta muraria in pietra e mattoni, un gruppo di terrecotte architettoniche riferibili ad edifici templari del V secolo a.C. e frammenti di sculture di stile ellenistico probabilmente appartenenti al frontone di un tempio. I tratti della cinta muraria più antica, databile al V secolo a.C., sono costituiti da grandi blocchi di pietra che, insieme a quella più recente del IV-III secolo a.C. in mattoni, segue l’andamento della collina. La necropoli più antica, scavata nel XIX secolo, era ubicata in località di Poggio del Sole; essa comprende tombe a cassa e a fossa che vanno dalla seconda metà del VI al II secolo a.C. Sembra che Arezzo, oltre a essere un importante centro agricolo, sia stato uno dei principali centri industriali dell’Etruria per la lavorazione dei metalli; dalle sue officine uscivano elmi, scudi, armi da getto e strumenti da lavoro, ma anche bronzetti votivi (bovini, ovini, offerenti maschili e femminili, divinità) e statue. Di fattura aretina è la celebre Chimera in bronzo databile ai primi anni del IV secolo a.C.
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La statua di bronzo della chimera, scoperta nel XVI secolo, è una delle opere etrusche più belle e celebrate. La belva, con il corpo leonino, la testa di capra sul dorso e la coda di serpente, è rappresentata ferita dalla lotta contro l’eroe Bellerofonte, secondo l’antico mito. La chimera è in posizione di difesa, ma è pronta all’ultimo assalto con la testa sollevata fieramente verso l’alto, le fauci spalancate e la criniera irta. Sul corpo teso dell’animale affiorano sotto la pelle le costole e le vene turgide; la muscolatura è sapientemente modellata. Contrasta con la feroce aggressività del muso del leone il patetico abbandono della testa della capra, ormai reclinata e morente. La coda è un restauro errato: il serpente non mordeva il corno della capra ma si avventava minacciosamente contro l’avversario. La statua era un dono votivo come dimostra l’iscrizione dedicatoria incisa sulla zampa anteriore destra: tincsvil “al dio Tinia”. Quest’opera, di estrema raffinatezza, coniuga il realismo più aspro alla fantasia, in una ricerca di espressività tipica dell’arte etrusca.
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Le origini dell’etrusca Curtum, al di là del rapporto toponomastico con la greca Crotone, sono fatte risalire da Virgilio a Corythus, padre di Dardano l’edificatore di Troia. L’odierna città occupa lo stesso luogo dell’antica, una collina isolata che domina la Val di Chiana.
Dell’antica Curtum rimangono alcuni tratti della cinta muraria, probabilmente risalente all’età ellenistica, che aveva uno sviluppo perimetrale di oltre 2 chilometri; era realizzata in blocchi parallelepipedi rozzamente squadrati di arenaria calcarea, posti in opera a secco nel V secolo a.C. L’acropoli è stata identificata nell’area del Girifalco, alla sommità dell’altura lungo le cui pendici la città si estendeva per 40 ettari. Nelle necropoli poste ai piedi della collina (Camucia, Sodo) si conservano isolati sepolcri a tumulo chiamati in gergo popolare “meloni”. Si tratta di tombe gentilizie a più camere, con tamburo cilindrico, delle dimensioni anche di 60 metri di diametro. Nel 1726 a Cortona venne fondata l’Accademia Etrusca, il più importante centro di ricerche erudite settecentesche sull’Etruria antica. Nel museo dell’Accademia è conservato lo splendido candelabro bronzeo con ricchissima decorazione figurata che attesta una fiorente attività artistica locale nella lavorazione del bronzo attorno alla metà del V secolo a.C.
A differenza di molti altri centri etruschi, l’abitato di Marzabotto sorse su una piana priva di particolari difese naturali, nella media valle del fiume Reno, a circa 20 chilometri da Bologna. La zona si trovava lungo la via di collegamento che, attraversando l’Appennino, univa l’Etruria settentrionale alla Padania.
Nel corso del VI secolo a.C. si formò sulla spianata detta di Pian di Misano un nucleo organizzato (Marzabotto I) con capanne in materiale deperibile collocate senza ordine preciso nell’area sud orientale. L’abitato comprendeva anche una fonderia e una fornace per la produzione di ceramica. Tra il VI e il V secolo a.C., in seguito al movimento di colonizzazione verso nord intrapreso dalle città etrusche – in particolare da Chiusi – l’abitato di Marzabotto fu spostato nella zona nord occidentale del pianoro e organizzato secondo un piano urbanistico preventivo con impianto a scacchiera. L’acropoli si trovava nell’angolo nord-ovest del sito (Misanello) ed era occupata da diversi edifici sacri, da una vasca rituale e da un altare quadrato al cui centro si apriva un pozzo, profondo circa sei metri, indice forse del culto di divinità infere A questo complesso doveva essere connesso un deposito votivo rinvenuto più a valle nel terzo decennio del XIX secolo che rappresenta il più cospicuo nucleo di ex voto (bronzetti di offerenti e parti bronzee del corpo umano) dell’area padana. Le necropoli tornate alla luce a nord e ad est dell’abitato comprendevano tombe individuali sia a incinerazione che a inumazione; i sepolcri erano costituiti da cassoni di lastre, da pozzetti e da fosse. Nella parte iniziale del IV secolo a.C., contemporaneamente alla massima spinta da nord dei popoli celtici già presenti nell’area cisalpina, Marzabotto decadde finché la città venne abbandonata nella seconda metà del III secolo a.C.
La Marzabotto del VI secolo a.C. rappresenta un documento di eccezionale importanza per la storia dell’urbanistica antica. La città mostra un impianto ortogonale che risulta antecedente agli esempi greci e anche alla formulazione teorica che di essi fece Ippodamo di Mileto nel V secolo a.C. La rete stradale ha larghe vie lastricate che si incrociano ad angolo retto (un cardo di 15 metri di larghezza tagliato da tre decumani), con marciapiedi e canali per la raccolta delle acque piovane. Le abitazioni, in genere ad un solo piano, sono riunite in isolati regolari e presentano suddivisioni interne di tipo diverso. Molte hanno una sola fronte sulla strada ed un cortile interno (atrio) attorno al quale sono disposti vari ambienti. Dalle fondazioni di ciottoli si elevava un alzato di legno e mattoni crudi con elementi in travertino e colonne lignee rivestite di stucco; le coperture fatte con embrici, coppi e talora lucernari recava anche anfisse.
Chiusi, il cui nome moderno deriva dal latino Clusium, è l’etrusca Clevsin, Sorge su un’altura del sistema collinare che domina la valle del fiume Chiana, allora affluente del Tevere, nella posizione più adatta a controllare le importanti vie di comunicazione dell’interno. Fu potente e famosa lucumonia dell’Etruria settentrionale: un suo re, Porsenna, assalì e probabilmente conquistò Roma nel 509 a.C.
L’ininterrotta vita della città di Chiusi sino all’età moderna ha cancellato quasi ogni traccia dell’abitato etrusco che fiorì, tra la fine del VI e il V secolo a.C., in coincidenza con la decadenza delle metropoli costiere. Molte sono invece le necropoli rinvenute sul territorio circostante, che testimoniano l’esistenza di piccoli centri abitati (Chianciano, Cetona, Sarteano, Montepulciano ecc.) gravitanti attorno alla metropoli. Grazie ai vasti territori coltivati a grano che la circondavano, Chiusi godette di grande prosperità e pertanto affiancò all’attività primaria della produzione agricola, quelle artigianali che furono molte e varie. L’aristocrazia locale, raffinata ed aperta ai nuovi messaggi culturali, richiamò a Chiusi, già alla fine del VI secolo a.C., maestranze artistiche (scultori vulcenzi e pittori tarquinesi) e materiali di lusso, a volte eccezionali, come il famoso ‘‘vaso François” proveniente da una tomba ipogea di Dolciano. Caratteristici sono gli ossuari antropomorfi o canopi e i vasi in bucchero con decorazione impressa o a rilievo. Nel III secolo a.C. Chiusi passò sotto il controllo di Roma e nell’82 a.C. Silla vi fondò una colonia per i propri veterani.
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I canopi erano contenitori di forma ovale, di bucchero o di bronzo, nei quali venivano deposte le ceneri del defunto. La loro apparizione risale al VII secolo a.C. e il loro nome deriva da quello dei vasi funerari egizi. Il coperchio aveva aspetto antropomorfo, inizialmente limitato ad alcuni tratti anatomici del volto, riprodotti sommariamente; in un secondo tempo si ebbero raffigurazioni sempre più dettagliate, talvolta con l’aggiunta delle braccia applicate sul corpo del vaso o, come nei canopi femminili, di orecchini ad anello di bronzo o d’oro e, a volte, con la rappresentazione plastica dei seni. Dai canopi di Chiusi derivano le statue in pietra, raffiguranti il defunto, con vano interno per la deposizione delle ceneri.
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La città di Volterra, Velathri in epoca etrusca e Volatarrae quando divenne municipio romano, è situata su un colle di 550 metri da cui domina le valli dell’Era, del Cecina e dell’Elsa, alla confluenza di importanti vie di comunicazione verso il Tirreno e verso la pianura dell’Arno. L’attuale struttura medievale copre solo parzialmente il vastissimo sviluppo urbano raggiunto nell’antichità, quando la cinta muraria etrusca aveva il perimetro di oltre sette chilometri.
I primi insediamenti risalgono all’età villanoviana (IX-VIII secolo a.C.) e sono testimoniati da tombe a pozzetto che custodivano in un vaso le ceneri del defunto. Fino al VI secolo a.C. l’entità dell’abitato volterrano fu abbastanza modesto, con una prima cinta muraria di 1270 metri attorno all’acropoli; nel corso della prima metà del V secolo l’area abitativa era di circa 10 ettari, racchiusa in una seconda cerchia di mura lunga circa due chilometri. Questo sviluppo è collegato allo sfruttamento delle risorse minerarie (rame presente sul territorio in vene superficiali) che si aggiunse alla diffusa attività agricola. Nel corso del IV secolo la floridezza e la dimensione di Volterra aumentarono, come dimostra la costruzione di una nuova grandiosa cinta muraria di cui si conservano ancora due grandi accessi: Porta Diana e Porta all’Arco. Fiorente fu l’artigianato: caratteristiche le stele scolpite arcaiche, i vasi dipinti, le urne cinerarie in alabastro con altorilievi. Le necropoli cittadine di Portone, Badia, Ulimeto, Poggio alle Croci testimoniano un forte incremento della popolazione. Le testimonianza romana più cospicua della città (il teatro di Vallebuona) risale ai primi anni del I secolo d.C.
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La cinta muraria volterrana (la terza dalla fondazione della città) fu costruita nel corso del IV secolo a.C. in blocchi squadrati di pietra locale. Il suo perimetro di 7300 chilometri racchiudeva un’area di 116 ettari, spazio ben più ampio di quello occupato dal successivo abitato medioevale e moderno. Qui, oltre all’abitato in espansione verso le aree già occupate dalle antiche necropoli trovavano rifugio, in caso d’invasione, agli abitanti dei piccoli insediamenti sparsi nel territorio circostante. Si conservano ancora i due grandi accessi di Porta Diana e di Porta all’Arco: prima allacciava il cardo massimo alla via verso la Val d’Elsa e quindi la valle dell’Arno; la seconda, da cui usciva il cardo massimo, si apriva sul versante sud in direzione del mare.
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Sul versante meridionale della cinta muraria del IV secolo a.C. fu aperto originariamente un passaggio con infissi lignei, sostituito nella metà del III secolo a.C. da una porta ad arco. Sulle due fronti della porta si aprono grandi archi di oltre 4 metri, impostati su fianchi formati da blocchi di tufo accuratamente squadrati e connessi a secco; tra essi corre una galleria interna coperta da una volta a botte. Sul fornice esterno sono inserite tre teste in pietra scura, che il tempo ha reso illeggibili ma che forse devono essere identificate con Giove e i Dioscuri.
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Fiesole o Faesulae - al plurale perché si riferiva a numerosi piccoli insediamenti etruschi della zona - sorge su una collina che reca in vetta due alture con una spianata in sella, e domina la piana di Firenze presso il guado sull’Arno. Qui giungevano i percorsi che partivano da Volterra e da Chiusi e che poi procedevano verso l’Appennino e la Padania.
La frequentazione del sito fiesolano è attestata nella tarda età del Rame, ma la prima occupazione del territorio, sull’attuale colle occidentale di San Francesco, risale all’età del Bronzo medio. Il centro urbano vero e proprio nacque nella fase terminale del VII secolo a.C. quando il primo nucleo stanziato sulla collina si estese lungo il versante orientale dell’altura e nella spianata sottostante; tra il IV e III secolo a.C. esso raggiunse anche tutta l’attuale collina orientale di Sant’Apollinare. La rocca era racchiusa in una prima cerchia muraria in blocchi parallelepipedi squadrati, fronteggiata più in basso, sul versante est del colle, da un secondo tratto di mura quasi rettilineo che divideva l’acropoli dalla piana dove sorgeva l’abitato. Esso si accrebbe grazie all’importanza del luogo sulla rotta commerciale da sud e nord e vide la nascita di importanti botteghe ceramiche e di ‘‘pietre fiesolane” (statuette, elementi decorativi, pannelli in bassorilievo, tutti in pietra serena). Attorno alla fine del IV secolo a.C. la città si dotò di un tempio ellenistico situato sul fianco est della collina di San Francesco. Sorgeva su un vasto podio con gradinate di accesso ed aveva sia fondamenta che alzato in pietrame. Al centro della fronte si alzavano due colonne inquadrate dal prolungamento dei muri laterali dell’edificio e recava due vani minori posti ai lati della cella centrale; l’interno era tutto intonacato di rosso. Dagli ex voto ritrovati si suppone che il tempio fosse dedicato a Minerva Medica. Distrutto da un incendio e rimesso in funzione in maniera sommaria, l’edificio venne poi interamente interrato agli inizi del I secolo a.C. e sostituito da un soprastante tempio romano. La necropoli arcaica non è mai stata individuata.
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XIII sec. a.C.
- Arrivo leggendario dei lidi guidati da Tirreno in Etruria.
1000 a.C.
- Età del ferro in Italia.
- Cultura villanoviana dall’Emilia alla Campania.
- Immigrazione di popolazioni indoeuropee: latini, stanziati nel Lazio e nella valle del Tevere; osco-umbri o umbro-sabelli (piceni, sabini, sanniti, equi, ernici, volsci) in Umbria, Lazio e Italia meridionale; illiri, tra cui i veneti, nel Veneto; messapi nelle Puglie.
900-800 a.C.
- Processo di formazione della nazione etrusca sull’area villanoviana.
814 a.C.
- Fondazione di Cartagine in Africa.
800-550 a.C.
- Colonizzazione greca delle coste italiche (Magna Grecia) e della Sicilia.
- Navigazioni etrusche verso il Tirreno meridionale.
- Talassocrazia etrusca.
[92021]
753 a.C.
- Data tradizionale della fondazione di Roma (21 aprile).
750 a.C. ca.
- Accentuato sviluppo della civiltà villanoviana in Etruria.
- Differenziazioni sociali ed emergere di una classe egemonica.
- Fondazione dell’avamposto commerciale greco di Cuma.
725 a.C. ca.
- Primi influssi orientalizzanti nell’Italia tirrenica.
- Introduzione della scrittura alfabetica (euboica) in Etruria.
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700-650 a.C. ca.
- Pieno sviluppo della civiltà orientalizzante con riflessi anche nel Lazio.
- Fioritura della civiltà urbana: prima nell’Etruria meridionale (Caere, Tarquinia, Veio, Vulci, Vetulonia), poi dell’Etruria centrale (Populonia, Roselle, Volsinii, Volterra, Chiusi, Fiesole).
- Si forma la lega delle dodici città etrusche (Dodecapoli) governate da un re.
650 a.C. ca.
- Orientalizzante evoluto.
- Nell’edilizia ha inizio la decorazione architettonica con terrecotte.
630 a.C. ca.
- Fase culminante della talassocrazia e del commercio etrusco.
616-578 a.C.
- Regno di Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, che dà inizio alla dinastia etrusca.
600 a.C. ca.
- Fondazione della colonia focese di Massalia (Marsiglia).
600-500 a.C.
- Espansione degli etruschi verso nord nella pianura padana e verso sud nel Lazio e nella Campania.
- Ripetuti scontri con i greci nel Tirreno meridionale.
[92041]
580 a.C. ca.
- Fioritura di Vulci in Etruria.
578-534 a.C.
- Regno di Servio Tullio (Mastarna), sesto re di Roma.
- Contese sociali e civili nell’Italia centrale.
540 a.C. ca.
- Alleanza tra fenici e cartaginesi.
- Battaglia di Alalia (Aleria): vittoria degli etruschi di Caere e dei cartaginesi sui focesi di Corsica.
- La Corsica cade sotto l’influenza etrusca.
540-500 a.C.
- Le città dell’Etruria settentrionale interna (Volterra, Chiusi, Volsinii) iniziano una vigorosa penetrazione nei territori transalpini della pianura padana.
- Nascita di Felsina (Bologna).
- Nascita di Spina.
534-509 a.C.
- Regno di Tarquinio il Superbo, settimo re di Roma.
525 a.C.
- I greci di Cuma sconfiggono gli etruschi.
509 a.C.
- Cacciata da Roma di re Tarquinio il Superbo.
- Si formano a Roma le istituzioni repubblicane.
- Espansione di Chiusi: il re Lars Porsenna a Roma.
504 a.C.
- Battaglia di Ariccia: Arunte Porsenna è sconfitto da Aristodemo di Cuma alleato con i latini.
- Declino dell’egemonia etrusca nel Lazio.
[92051]
477 a.C.
- Guerra tra Roma e gli etruschi di Veio: sconfitta romana sul Cremera.
474 a.C.
- Battaglia navale di Cuma: Gerone di Siracusa sconfigge la flotta etrusca.
- La potenza etrusca sul mare e in Italia è spezzata.
454-453 a.C.
- Spedizione degli ammiragli siracusani contro i mari e le coste settentrionali dell’Etruria.
- Fallisce il tentativo dei siracusani di insediarsi nell’isola d’Elba.
450-400 a.C.
- Inizio della penetrazione romana in Etruria.
428 ca. a.C.
- Nuova guerra tra Roma e Veio: vi rimane ucciso il re etrusco Lars Tolumnius.
423 a.C.
- Occupazione di Capua da parte dei sanniti e fine del dominio etrusco in Campania.
414 a.C.
- Gli etruschi partecipano con alcune navi alla spedizione di Atene contro Siracusa.
[92061]
396 a.C.
- Presa e distruzione di Veio, dopo 10 anni di assedio, da parte dei romani comandati da M. Furio Camillo.
- Con la sottomissione di Veio a Roma guadagna in importanza Caere.
392 a.C.
- I siracusani riprendono le loro mire nel Tirreno ai danni delle città etrusche.
391 a.C.
- Conquista romana di Volsinii.
390 a.C.
- I galli senoni assediano Chiusi.
387 a.C.
- Sconfitta dei romani a opera dei galli nella battaglia di Allia.
- Sacco di Roma.
- Caere accoglie i profughi romani, i sacerdoti, le vestali e i simboli sacri dell’Urbe saccheggiata dai galli.
386-385 a.C.
- Etruschi, equi, volsci si alleano contro Roma dopo il sacco dei galli.
- Il contrattacco del console Furio Camillo riduce sotto il dominio romano l’Etruria meridionale.
384 a.C.
- Caere è attaccata da una scorreria di galli.
- Dionigi di Siracusa fa saccheggiare il santuario etrusco di Pyrgi, porto di Caere.
- Tarquinia impone la sua supremazia sulla lega etrusca.
- Tentativo fallito dei siracusani di insediarsi nell’isola d’Elba.
358-351
- Guerra di Tarquinia contro Roma condotta da Aulo Spurinna
- Aulo Spurinna abbatte il regime monarchico di Caere divenuta filoromana.
353 a.C.
- Caere diventa municipio romano senza diritto di voto ed esce dalla confederazione delle città etrusche.
351 a.C.
- Tregua di 40 anni tra Roma e Tarquinia.
350-300 a.C. ca.
- L’Etruria padana è travolta dai galli.
311-308 a.C.
- Gli etruschi si alleano con i sanniti per combattere Roma.
307 a.C.
- Tarquinia si sottrae alla lotta contro Roma.
- Tarquinia rinnova con Roma una tregua di 40 anni.
- Cortona, Arezzo, Perugia si arrendono ai Romani accettando condizioni umilianti.
- Volsinii e Vulci sono ridotte all’impotenza dai romani.
306 a.C.
- Gli etruschi forniscono un contingente di 18 navi ad Agatocle, tiranno di Siracusa, per la guerra contro Cartagine.
306 a.C.
- Trattato romano-cartaginese: attribuzione dell’Italia a Roma e della Sicilia a Cartagine.
302 a.C.
- Roma interviene ad Arezzo in favore degli aristocratici.
[92071]
298-290 a.C.
- Gli etruschi si coalizzano con sanniti, galli, umbri e sabini contro Roma (terza guerra sannitica).
295 a.C.
- Gli etruschi sono sconfitti dai romani nella battaglia di Arezzo.
- Il dominio di Roma si estende nell’Italia centrale dal Tirreno all’Adriatico.
285 a.C.
- I galli senoni attaccano Arezzo e sconfiggono i romani accorsi in loro aiuto.
283 a.C.
- Battaglia del lago Vadimone (presso Orte): gli eserciti etruschi, rinforzati da contingenti galli, soccombono ai romani.
- Conquista romana di Roselle.
281 a.C.
- Vulci e Volsinii si arrendono ai romani.
273 a.C.
- Inizia la fondazione di colonie romane (Cosa, Fregene, Graviscae ecc.) in territorio etrusco.
265 a.C.
- Rivoluzione popolare di Volsinii che è distrutta dai romani.
- La popolazione di Volsinii viene deportata a Bolsena.
246 a.C.
- I romani occupano la Corsica, antica meta dell’espansionismo etrusco.
241 a.C.
- Distruzione di Falerii e deportazione dei suoi cittadini.
225 a.C.
- Gli etruschi sono sconfitti dai galli presso Chiusi.
- I romani intervengono in aiuto degli etruschi.
- I galli sono sconfitti dai romani a Talamone.
205 a.C.
- Le città etrusche equipaggiano la spedizione di Scipione contro Cartagine.
[92081]
196 a.C.
- Rivolta servile in Etruria.
123-121 a.C.
- Proposta della concessione della cittadinanza anche a favore degli alleati italici e morte di Gaio Gracco.
[92091]
91 a.C.
- Gli etruschi, insieme ai latini e agli umbri, si astengono dalla guerra sociale contro Roma e ottengono la cittadinanza.
- L’equiparazione dei diritti provoca il crollo dei regimi conservatori e l’avvento al potere dei partiti popolari.
82 a.C.
- Silla confisca parte del territorio di Chiusi, Arezzo, Fiesole e Volterra per insediarvi i propri veterani come coloni.
78 a.C.
- La morte di Silla provoca il massacro dei coloni sillani (Fiesole).
62 a.C.
- Le città etrusche appoggiano il tentativo di insurrezione antisenatoria di Catilina.
- Sconfitta di Catilina a Pistoia.
42 a.C.
- Perugia, dove si sono rifugiati i partigiani di Marco Antonio, viene assediata e distrutta da Ottaviano.
27 a.C.
- Con la riforma territoriale di Augusto l’Etruria diventa la VII Regione dell’Italia romana.