Legnano story - note personali
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Una storia di migranti
 
Prologo
È l’autunno del 376 dopo Cristo. Le rive dell’Ister, il Danubio, sono affollate. Si vedono uomini biondi di alta statura. Hanno i capelli lunghi, sono armati. Dietro di loro si muovono donne e bambini e decine di carri trainati da buoi o da cavalli. I Romani li chiamano “ barbari”, loro si definiscono Goti. Tervingi, per la precisione.  Fuggono dalla guerra come i migranti dei nostri giorni e cercano protezione.
L’accoglienza.
L’impero romano accoglieva volentieri i migranti provenienti dalle regioni poste oltre il limes. C’era bisogno di manodopera e c’era bisogno di soldati. I migranti trovavano lavoro nei campi dei latifondisti (non come schiavi, ma come salariati) o entravano a far parte dei ranghi delle legioni. Accogliendo i migranti, lo stato si trovava a disposizione  una considerevole forza lavoro e un serbatoio dal quale attingere soldati per sorvegliare i confini e condurre le guerre.
Il processo era cominciato, grosso modo, ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio( 121-180 d.c.). Col tempo, i migranti si erano integrati ed erano stati accettati; alcuni avevano fatto carriera, altri si erano arricchiti. Pagavano le tasse, partecipavano alla vita pubblica, prestavano servizio militare. I più eminenti anteponevano al proprio nome barbarico il “prenomen” Flavius.  Insomma, non erano un corpo estraneo né una potenziale causa di disordini e di discriminazioni. Erano entrati nell’impero poco alla volta nel corso dei secoli e ora ne facevano parte a tutti gli effetti, anche se non ne erano cittadini. Ci si era abituati  a loro e la loro presenza era considerata perfettamente normale.
L’attesa.
La comparsa dei Goti Tervingi [1]lungo il limes danubiano, però, non era “normale”. Questa volta non  si erano spostati gruppi relativamente ridotti di uomini: questa volta si era spostato un popolo intero con  i guerrieri, i carri, le donne, i vecchi e i bambini. Premuti dagli Unni, i Goti avevano lasciato le loro terre e raggiunto il  Danubio. Una volta arrivati, avevano chiesto di essere accolti entro i confini dell’impero.
Non si era mai vista tanta gente in una volta sola. Era una situazione eccezionale e richiedeva una decisione eccezionale. I funzionari locali non potevano – e forse neppure volevano- prenderla. Toccava all’imperatore d’Oriente decidere. Ma l’imperatore Valente si trovava altrove. A duemila chilometri di distanza, ai confini dell’odierno Iran, stava preparando la guerra contro i Parti Sasanidi. Ci sarebbe voluto tempo, molto tempo, per raggiungerlo e per riportare la sua decisione. Così in attesa del responso imperiale, i Goti si accamparono sulla riva orientale del grande fiume con il terrore di vedersi arrivare alle spalle, da un momento all’altro, i ferocissimi Unni.  Erano, comprensibilmente, tesi e nervosi. E tesi e nervosi erano anche i funzionari e gli ufficiali romani  a causa dell’eccezionalità di quella situazione.
Una decisione controversa.
Stando ai cronisti antichi, Valente non era un fulmine di guerra e neppure un genio.  Grasso, mezzo orbo da un occhio, irresoluto, forse anche ignorante, doveva la sua posizione e il suo incarico al fratello Valentiniano, lui sì deciso, energico e determinato( anche se altrettanto ignorante)[2]. A Costantinopoli Valente non godeva di molta popolarità ed era inoltre malvisto dai cristiani cattolici perché cristiano ariano.[3]
Valente dunque viene informato dell’arrivo dei Goti, riunisce il concistoro ( una specie di Consiglio dei Ministri), ne ascolta i pareri e comunica la propria decisione: i Goti potranno entrare nei confini dell’impero a patto di consegnare le armi, un certo numero di ostaggi e di rispettare la legge romana. Niente di nuovo, dunque: si fa come si è sempre fatto. I nuovi migranti saranno accolti nei confini dell’impero, saranno distribuiti nelle zone dove c’è bisogno di manodopera, l’esercito avrà presto nuove reclute, l’erario incamererà i proventi di nuove tasse. I migranti come risorsa, in altre parole. O come“ affare”.
Ma questo non è un affare come gli altri. La novità, in questo caso, è rappresentata dalle dimensioni dei richiedenti asilo. Quella massa enorme di persone deve essere rifocillata, nutrita,  assistita, censita, avviata verso le zone di insediamento. E sorvegliata. A molti quella decisione non piace affatto: tutti quegli uomini possono trasformarsi in un grave pericolo per l’impero. Ammiano Marcellino scrive: ci siamo dati la zappa sui piedi. Prima eravamo protetti dal Danubio, dopo la decisione di Valente non più. Ma c’è anche chi sottolinea l’aspetto “ umanitario” della decisione dell’imperatore. Temistio – intellettuale e alto funzionario imperiale-  scrive: ci preoccupiamo di salvare dall’estinzione leoni, elefanti e ippopotami. “Rallegriamoci, dunque, che per decisione di Valente sia stato salvato dallo sterminio un intero popolo di uomini,  magari  barbari, come dirà qualcuno, ma sempre uomini.”
Nei centri di accoglienza.
Per quel “ popolo di uomini”, attraversare il Danubio – impetuoso e gonfio per le piogge- è impresa ardua. Il ponte fatto erigere dall’imperatore Costantino cinquant’anni prima è crollato e non è stato mai più ricostruito. I Goti attraversano il fiume sulle imbarcazioni messe a disposizione dai Romani, ma anche su zattere, persino su tronchi d’albero.  È una traversata caotica e i morti affogati non si contano. Eppure il peggio deve ancora venire.
Una volta raggiunta la sponda occidentale, i superstiti vengono sistemati alla bell’e meglio in campi improvvisati. Radunare e smistare tutte quelle persone verso le zone meno popolate della Mesia perché si trasformino in agricoltori richiede tempo. Quasi nessuno, poi, consegna le armi. Lontano dagli occhi di Valente, i funzionari romani preferiscono, infatti, intascare bustarelle anziché requisire spade o lance.
C’è poco da mangiare, il malcontento aumenta. E il flusso dei migranti non si arresta. Si è sparsa la voce circa l’apertura delle frontiere e sulla sponda orientale del Danubio sempre più guerrieri Alani o Goti Greutungi[4] , donne e bambini si affollano in attesa di passare sulla sponda opposta.
Secondo gli accordi, in attesa di raggiungere le zone loro assegnate, i Goti avrebbero dovuto essere nutriti con razioni militari. I corrotti funzionari locali- in particolare il comes ( conte) Lupicino e il dux (duca) Massimo- si fanno pagare le razioni o vendono ai Goti carne di cane o carne avariata.  Ben presto i soldi finiscono, ma la fame non diminuisce. Per sopravvivere, i Goti sono costretti a vendere i propri figli e a prostituire le proprie donne. Al campo arrivano, sempre più numerosi, i mercanti di schiavi: hanno fiutato l’affare e non vogliono lasciarselo sfuggire.
Il malcontento sale, gli uomini rumoreggiano e minacciano una rivolta. Lupicino e Massimo si rendono conto di aver tirato troppo la corda e di aver contribuito a creare una situazione esplosiva. Decidono allora di far muovere i Goti verso l’interno. Avrebbero dovuto farlo subito, ma, come si dice, meglio tardi che mai. Una lunga colonna di uomini, donne, bambini, carri e carriaggi prende la direzione della città murata di Marcianopoli ( l’odierna Devnja, in Bulgaria). L’intera guarnigione di confine è impegnata a scortarli. Sulla riva romana del Danubio sono rimasti solo pochi soldati. Chi si trova dall’altra parte – bande di Alani, persino gruppi di Unni- ne approfitta immediatamente e attraversa il fiume.
Raggiunta Marcianopoli, Lupicino invita i capi Goti a banchetto. Perché lo fa? Per assicurarsi la loro collaborazione nella gestione di quell’affare complicato o piuttosto per eliminarli? I capi entrano in città, ma tutti gli altri restano fuori. La popolazione locale non vuole quella massa di migranti e le porte della città rimangono chiuse. La rabbia esplode, scoppiano tafferugli e disordini, numerosi soldati romani vengono uccisi. Lupicino, informato di quanto sta succedendo all’esterno,  forza allora la mano e cerca di togliere di mezzo i capi goti presenti al banchetto. Confida che gli altri, là fuori, senza nessuno a guidarli, si sbanderanno e potranno essere controllati più facilmente. La scorta di Fritigerno e di Alavivo ( i due più prestigiosi capi goti) viene eliminata, ma Fritigerno riesce a convincere Lupicino a lasciarlo andare. Una volta tornato dai suoi farà cessare i disordini, assicura.
Lupicino gli crede e lo lascia andare. È un errore colossale. Una volta fuori dalle mura di Marcianopoli, infatti, Fritigerno dichiara rotto il patto stipulato con i Romani. La zona intorno alla città viene corsa in lungo e in largo. I Goti bruciano fattorie, razziano il bestiame, catturano giovani e giovinette da vendere come schiavi, si impossessano di depositi di viveri, spargono il terrore ovunque. È la guerra.
“Con le mura conviene stare in pace.”
Lupicino ha due alternative: chiedere aiuto a Valente ( pericoloso ai fini della carriera) o sbrigarsela da solo[5]. Sceglie di fare da solo. Mette insieme un piccolo esercito ( circa seimila uomini) e muove contro i Goti. Le sue sono truppe scelte. Appartengono alle legiones comitatenses, gruppi mobili pronti a intervenire nei punti di maggior pericolo. Lupicino però può fare affidamento solo sulle unità di stanza a Marcianopoli: le altre legioni sono dislocate in zone troppo distanti dalla città e non ce la farebbero ad arrivare in tempi brevi.
Rispetto al passato le legioni sono cambiate. Ognuna di esse conta millecinquecento, milleseicento uomini anziché cinquemila come ai tempi di Giulio Cesare. Sono aumentati i sagittarii, gli arcieri: a loro è affidato il compito di colpire da lontano, una volta prerogativa dei velites armati di giavellotto. Unità di cavalleria corazzata e di cavalleria leggera accompagnano la fanteria.  Anche l’armamento individuale è cambiato. Lo scudo di legionari è diventato più piccolo, il gladius è stato sostituito dalla più lunga spatha, il pilum dalla lancia. La disciplina e l’addestramento, però, sono sempre gli stessi e, in campo aperto, le formazioni militari romane restano formazioni temibili.
Non in questa occasione. In questa occasione le truppe di Lupicino si disuniscono sotto l’impeto e l’incalzare dei Goti – più numerosi- e vengono massacrate. Vista la mala parata, Lupicino abbandona il campo di battaglia e si rifugia nella più sicura Marcianopoli.
Sulle ali dell’entusiasmo per la vittoria ottenuta, i Goti, armatisi con le armi tolte ai Romani caduti, si spingono fin sotto le mura di Adrianopoli (oggi Edirne, in Turchia). Sono aumentati di numero, giacché grazie all’insipienza e alla stupidità dei funzionari romani, alcune unità di mercenari goti hanno disertato e si sono unite a Fritigerno.
Le città murate, tuttavia, sono un ostacolo insormontabile per i Goti. Non hanno macchine da assedio né sanno costruirle. Fritigerno ci mette poco a capirlo, rinuncia ad assediare Adrianopoli asserendo che “ con le mura conviene stare in pace”o qualcosa del genere e riprende a razziare le campagne.
Verso Nord.
Informato di quanto sta accadendo lungo il Danubio, Valente si preoccupa. Avvia in fretta e furia colloqui di pace con i Persiani e manda alcune unità di truppe scelte, magnis itineribus, a marce forzate, verso la Tracia. Sono comandate da due generali “ cortigiani”, cioè più adatti agli intrallazzi di corte che ai fragori di una battaglia: Traiano e Profuturo.I due ripetono l’errore di Lupicino: anziché adottare tattiche di controguerriglia, cercano lo scontro  in campo aperto; anziché effettuare rastrellamenti, isolare un gruppo di razziatori alla volta ed eliminarlo, si dirigono verso l’accampamento dove è raccolto il grosso del nemico.
Questa volta, però, i Goti non aspettano i Romani per dare battaglia. Affrontare Lupicino e il suo esiguo contingente è un conto; combattere contro truppe esperte e numerose , un altro. Fritigerno e i suoi tolgono allora il campo e lentamente si dirigono verso le montagne della Tracia, ne attraversano i valichi e puntano a nord, verso il delta del Danubio. Sembra una ritirata in piena regola. E forse lo è. Forse i Goti ne hanno abbastanza e vogliono rientrare nei territori d’origine portandosi dietro il bottino e i prigionieri.
Nella loro lenta marcia verso nord, i Goti si accampano non lontano da una località denominata ad Salices ( “verso i salici”, “in direzione dei salici”). I Romani non hanno smesso di tallonarli. La battaglia è inevitabile ed entrambi i contendenti ne sono consapevoli. I Goti hanno disposto i loro carri in cerchio come fanno di solito quando pongono il campo e hanno fatto rientrare le bande mandate a razziare nei dintorni. Traiano e Profuturo sono stati raggiunti da Ricomere, un alto ufficiale dell’imperatore d’Occidente – e nipote di Valente- Graziano, alla testa di un contingente di soldati. I legionari di Ricomere non sono molto numerosi, tuttavia la loro presenza ha un forte connotato simbolico: Graziano è  della partita, si è reso conto del pericolo ed è pronto ad aiutare lo zio. Ora e in futuro.
Nelle battaglie raccontate nei film storici i soldati corrono come centometristi e, armati di tutto punto, si scagliano gli uni contro gli altri. In realtà non andava affatto così. E infatti lì, ad Salices, nessuno corre. All’inizio, almeno. I Romani si muovono in assetto di battaglia; i Goti lasciano il cerchio dei carri  e avanzano a loro volta. Poi le due masse di soldati si fermano, l’una di fronte all’altra. I Romani intonano il barritus, il loro grido  di guerra. È una specie di muggito, modulato su un’unica nota all’inizio bassa, poi sempre più alta  e da ultimo assordante; i guerrieri goti , a turno, escono dalle file e occupano lo spazio intermedio ricordando le glorie dei propri antenati e giurando fedeltà ai capi.
L’attesa dura a lungo. A un certo punto volano le prime frecce; le due masse avanzano e cozzano l’una contro l’altra. Entrambi i contendenti spingono con gli scudi, colpiscono con le lance nel tentativo di rompere la compattezza dello schieramento avversario.
Si combatte per gran parte della giornata. Sul far della sera il contatto viene rotto. Lentamente, i Goti ritornano all’interno del cerchio di carri e i Romani si dirigono verso il proprio accampamento. Non ci sono né vinti né vincitori né perdite elevate. Per i Romani, tuttavia, c’è più di un motivo per preoccuparsi. I “ barbari” non se la sono data a gambe davanti alle legioni, anzi. Hanno combattuto con vigore e coraggio, hanno tenuto testa ai veterani d’Oriente, hanno anche sfondato in alcuni punti dello schieramento prima di essere stoppati dalle riserve immediatamente impiegate da Ricomere. Insomma, prenderli sottogamba è stato un clamoroso errore, continuare a farlo sarebbe gravissimo.
Si alzano i muri.
Dopo la battaglia dei Salici, i Romani cambiano tattica. La zona viene evacuata, i viveri vengono ammassati in appositi depositi nelle città presidiate dalle legioni. C’è poco o niente da razziare. I Goti allora cercano di scendere di nuovo verso sud, ma per farlo devono riattraversare le montagne. I Romani bloccano i valichi erigendo terrapieni,  costruendo sbarramenti in muratura , scavando trincee. I Goti provano a forzare i passaggi, ma, per quanto impeto ci mettano, non ce la fanno.
Sembrano in trappola. Il cibo scarseggia o manca del tutto, l’inverno si sta avvicinando, i valichi verso sud e la pianura sono bloccati. Ma verso nord la strada è aperta. E allora i Goti ne approfittano per mettersi in contatto con bande di Alani e di Unni passate al di qua del Danubio. Sono predoni, si muovono a cavallo, sono attirati dalla prospettiva di fare bottino. È un bel guaio per i Romani. Perché  un conto è bloccare il lento convoglio dei Goti di Fritigerno, un altro conto è tenere a bada gruppi mobilissimi di cavalieri in grado di spostarsi con estrema rapidità da una zona all’altra. Il comandante romano, Saturnino, preoccupato della nuova minaccia e spaventato( forse non del tutto a torto) dall’idea di vedersi spuntare alle spalle gli Unni e gli Alani , toglie il blocco e scende in pianura. Tanto, pensa, l’inverno è ormai alle porte e i Goti si muovono molto lentamente. Ci penseranno la neve e il gelo a bloccarli. E invece i Goti, informati da spie e da disertori, non perdono tempo, superano i valichi sguarniti, scendono di nuovo in pianura e di nuovo riprendono a correre il paese in lungo e in largo. Sorprendono un’unità romana ancora fuori dalle mura della città verso la quale si sta dirigendo e la distruggono. Ma quando tentano il colpo con un’altra unità comandata da Frigerido –romano nonostante il nome “barbarico”- hanno la peggio. I Goti superstiti  di quello scontro vengono inviati verso l’interno dove c’è bisogno di manodopera. Alcuni di essi arriveranno fino a Parma e  a Modena, in Pianura Padana.
Una questione di sicurezza,
Per quanto sanguinosi siano, quegli scontri non sono decisivi . Valente allora decide di metterci la faccia e di occuparsi personalmente della questione. Lascia Antiochia e raggiunge Costantinopoli, dove non si fa vedere da anni. In città tira una brutta aria. Quando si presenta ad assistere ai giochi nel circo , Valente si becca un uragano di fischi. Eppure, grazie a lui, Costantinopoli è una città-cantiere, si stanno realizzando opere pubbliche, un grande acquedotto. La popolazione dovrebbe essergli grata. Ma la popolazione  non bada a tutto questo: le interessa la sicurezza, la pretende: è ora che i barbari la smettano di spargere il terrore in lungo e in largo.
I fischi di Costantinopoli svegliano l’imperatore. Dalla sua villa suburbana a Melanthias dove prudentemente e sdegnosamente si è ritirato, Valente prepara il suo piano di guerra. Richiama dalla pensione un generale tutto d’un pezzo, incorruttibile, valoroso, popolare fra i soldati e gli affida il comando di un reparto – duemila uomini- con il quale condurre azioni di controguerriglia. Sebastiano- questo è il nome del generale- ci sa fare e ottiene rapidamente successi significativi. Non cerca lo scontro frontale. Dà la caccia ai razziatori, un gruppo alla volta, attaccandoli quando meno se lo aspettano. Anche di notte.
Fritigerno si rende conto appieno il pericolo. Sospende momentaneamente il saccheggio e riunisce tutte le bande in una località chiamata Cabyle. Si tratta di una località assai importante dal punto di vista strategico, a cavallo di importanti vie di comunicazione. In questa zona il terreno è aperto e i Goti non corrono il rischio di essere circondati. Fritigerno lo sa: presto Graziano e Valente riuniranno le proprie forze e marceranno contro di lui. Per questo ha bisogno di avere tutti i suoi uomini uniti.
Graziano, in effetti, sta scendendo con le sue truppe lungo il Danubio. Bande di Alani non gli danno tregua, tendono imboscate e causano perdite. La marcia tuttavia non si arresta. Nonostante i guai incontrati lungo il cammino, nonostante il giovane imperatore non stia bene di salute, le truppe d’Occidente raggiungono presto “Campo di Marte”, una fortezza di frontiera vicino all’odierna Kula , al confine serbo-bulgaro.
Anche Valente ha radunato il proprio esercito. Quindici -ventimila uomini, con una consistente presenza di veterani. La sua idea è di muovere lungo la valle del fiume Maritza ( che i Romani chiamano Hebrus), dirigersi a ovest, lasciarsi alle spalle Adrianopoli e intercettare i Goti nella zona fra Beroea e Cabyle. Graziano nel frattempo avrebbe dovuto superare il passo di Succi, raggiungere Filippopoli( l’odierna Plodviv in Bulgaria) e percorre in senso inverso la valle del Maritza per congiungersi con le forze dello zio e stringere i Goti in una morsa.
 
Fritigerno però gioca d’anticipo. Con una mossa a sorpresa scende a sud lungo la valle del fiume Tundza e si dirige verso Adrianopoli, intenzionato a portarsi alle spalle di Valente e a tagliargli la via dei rifornimenti. Sulle prime l’imperatore crede si tratti di una diversione. Manda alcune unità a cavallo e a piedi a controllare i passi montani lungo il tragitto seguito dai Goti e aspetta. Ma ben presto deve ricredersi. Le informazioni raccolte dai suoi esploratori non lasciano dubbi: non si tratta di una diversione, ma della manovra principale.
Valente allora ritorna con i suoi verso Adrianopoli, fa allestire come consuetudine il campo fortificato e convoca il proprio consiglio di guerra. La questione è: attaccare subito o aspettare Graziano e attaccare insieme? Valente non nutre simpatia per il nipote, dal quale ha appena ricevuto alcune lettere personali. Gliele ha portate Ricomere, il comandante sfortunato della battaglia dei Salici. Graziano scrive: non lanciarti in azioni temerarie, aspettami e uniti avremo la vittoria. Ma come aspettare se gli esploratori parlano di non più di diecimila guerrieri goti? Se Sebastiano, l’invitto Sebastiano, preme perché si attacchi subito? E poi, perché dividere la gloria della vittoria con quello sbarbatello di Graziano, sempre pronto a vantare le proprie imprese? E che ne sarà della popolazione abbandonata a se stessa in attesa dell’arrivo delle truppe d’Occidente? A nulla vale la prudenza invocata dal comandante della cavalleria , il sarmata Vittore: Valente ha deciso: non aspetterà Graziano, attaccherà subito e avrà la gloria della vittoria tutta per sé.
La trattativa.
Appena presa la decisione, nel campo risuonano gli ordini, i reparti si raggruppano, raggiungono la posizione loro assegnata e si preparano a uscire contro il nemico. Ma Fritigerno ha in serbo un’altra mossa. Manda al campo romano un suo uomo fidato – un prete cristiano- con due lettere per Valente. Scrive: mantieni quanto hai promesso due anni fa e noi non combatteremo. Dacci la terra da coltivare, un territorio dove risiedere e noi deporremo le armi. E aggiunge: io personalmente desidero la pace. Sono i miei guerrieri a essere irruenti. Esci con il tuo esercito, schierati davanti a loro, mostra i muscoli e anche i più riottosi cederanno. Valente non si lascia convincere. Forse non si fida dei “barbari”, forse teme un tranello, forse è sicuro di spazzarli via in quattro e quattr’otto e non è disposto a fare concessioni.
Ma perché quella mossa da parte di Fritigerno? È dettata dalla sincerità o è solo un espediente per prendere tempo? Di certo c’è questo: I Goti si muovono lentamente. Secondo Ammiano Marcellino impiegano più di tre giorni per portarsi nelle vicinanze di Adrianopoli. Sono i carri a rallentarli o aspettano qualcosa o qualcuno?
Si è dibattuto a lungo su quanti fossero. Come abbiamo visto, secondo gli esploratori di Valente non arrivavano a diecimila. Secondo Ammiano Marcellino erano molti di più. Certamente non i duecentomila di cui parlano alcuni storici moderni, ma più di diecimila. Un dato è comunque certo: gran parte della cavalleria era stata mandata in giro a procurarsi viveri e foraggio e non era stata individuata dagli scout. Fritigerno procede lentamente perché ne aspetta il ritorno?
La battaglia.
Adesso i due schieramenti si trovano l’uno di fronte all’altro. I Romani si sono sorbiti una marcia di tredici, quattordici chilometri sotto un sole cocente e su un terreno sconnesso e irregolare. Valente ha lasciato il tesoro imperiale , il bagaglio personale e i consiglieri civili a Adrianopoli e adesso è lì, alla testa dei propri uomini e ne condivide aspettative e disagi. Sono circa le due del pomeriggio del 9 agosto 378 d.c.
I Goti hanno allestito il carrago– il loro cerchio di carri- in una zona leggermente sopraelevata nei pressi dell’odierno villaggio di Muratçali. I Goti non combattevano stando all’interno del carrago, ma vi si schieravano davanti e vi ritornavano per trovarvi riparo nel caso in cui gli avvenimenti avessero preso una brutta piega. Dunque in quella torrida giornata di agosto, i Goti sono schierati davanti ai propri carri e i Romani li fronteggiano intonando il barritus, la fanteria al centro, la cavalleria  alle ali. All’ala destra, i Romani si avvicinano ai nemici. Li provocano spingendo avanti i cavalli e poi rinculando. È un gioco pericoloso al quale i Goti rispondono urlando, agitando le armi e provocando a loro volta.
Tuttavia un contatto vero e proprio ancora non c’è. Fritigerno rigioca la carta della trattativa. Ammiano Marcellino non ha dubbi: è un colossale imbroglio per prendere tempo. Se è così, i Romani gli danno una mano. Respingono la prima ambasceria perché composta da uomini di basso rango e si dichiarano disposti a intavolare trattative con persone più altolocate . E intanto il tempo passa, i soldati romani soffrono terribilmente la sete. Ma non smettono di battere sugli scudi e di intonare il barritus.
Fritigerno accetta: verrò io stesso a trattare, ma voglio garanzie. Mandatemi uno dei vostri uomini più in vista. Lo terrò in ostaggio durante le trattative  e poi lo rilascerò. Valente sceglie uno del proprio entourage, il tribuno Equizio, ma il prescelto non ne vuole neanche sentir parlare. E intanto il tempo corre via inesorabile e i Greutungi e gli Alani, altrettanto inesorabilmente, si stanno avvicinando. Alla fine è Ricomere a offrirsi come ostaggio. Tutto a posto? Nemmeno per sogno. Si perde altro tempo per dotare Ricomere delle credenziali comprovanti il proprio rango. Perché Valente accetta la trattativa? Spera di chiudere la questione senza spargimento di sangue? Vuole guadagnare tempo in  attesa dell’arrivo di Graziano? Crede nella buona fede di Fritigerno? Sia come sia, quei colloqui non si svolgeranno mai.
Ricomere, infatti, è appena partito alla volta del campo dei Goti quando all’ala destra dello schieramento la situazione precipita. I cavalieri romani si avvicinano sempre di più ai Goti, li provocano, li urtano coi cavalli. Parte qualche freccia. A questo punto i Romani non si trattengono più e  caricano il nemico. I comandanti – Bacurio e Cassio- agiscono di propria iniziativa, non su ordine diretto di Valente. La loro è una mossa fatale. I Goti resistono e costringono la cavalleria a ripiegare in disordine. Si tratta ancora di un fatto circoscritto, le fanterie non sono ancora entrate in azione, forse ci sarebbe ancora spazio per la mediazione. Ma questo spazio si chiude immediatamente quando sui Romani in fuga piombano, improvvisi, gli Alani e i Greutungi tornati a rotta di collo dalla loro razzie per sostenere Fritigerno.
Mentre tutto questo succede all’ala destra, nel settore opposto, la cavalleria romana, ricompattatasi dopo il primo attacco nemico, riesce ad avanzare e a spingersi fin quasi all’interno del carrago. Ma nessuno ne sostiene l’azione e così anch’essa viene sopraffatta dai cavalieri Alani e Greutungi. A questo punto, la fanteria romana, priva di qualsiasi protezione sui fianchi, viene circondata e fatta a pezzi. Ammiano Marcellino ricorre a toni drammatici e ci racconta di alte e dense nuvole di polvere attraverso le quali volano, invisibili ai Romani, le mortali frecce nemiche; di un terreno reso viscido dal sangue dei caduti e dei feriti; dell’impossibilità da parte dei Romani di effettuare una ritirata ordinata; di lance spezzate e di scudi resi inservibili; di uomini esausti per la sete, per il caldo e per il  peso dell’armatura. A un certo punto la resistenza cessa e i Romani fuggono in disordine.
Alcuni reparti , tuttavia, fanno eccezione. I Matiarii e i Lanciarii –due reggimenti di èlite- combattono bene e cercano di ritirarsi con ordine in mezzo a quell’enorme confusione. Valente, quasi senza più guardia del corpo, cerca di raggiungerne i ranghi per trovare protezione. Ma la situazione ormai è compromessa: i Batavi si rifiutano di entrare in battaglia a fianco dei Romani;  non ci sono più riserve da impiegare; la cavalleria nemica è inarrestabile. Vista la mala parata, Ricomere e Saturnino tagliano prudentemente la corda, seguiti a ruota da Vittore. Cadono Sebastiano ed Equizio, cadono Traiano e Valeriano; cadono decine di ufficiali superiori. E Valente? Cade anch’egli, ma il suo cadavere non verrà mai trovato. Secondo alcuni, l’imperatore d’Oriente fu colpito da una freccia e morì nel corso della battaglia; secondo altri bruciò vivo all’interno di un casolare dato alle fiamme da un gruppo di Goti del tutto ignari della sua presenza all’interno.
Adrianopoli fu un colpo terribile per l’impero. E non solo per la morte di Valente e neppure per il numero dei caduti( a Canne, a Carre e a Teutoburgo, in passato, ne erano morti di più). Le disciplinate, addestrate e una volta invincibili legioni romane erano state battute in campo aperto da un esercito di “barbari”. Di chi la colpa? Dell’impazienza sconsiderata di Valente? Del volere degli dei? O perché erano stati ignorati gli infausti presagi precedenti la battaglia? Domanda meno oziosa di quanto possa sembrare, quest’ultima, perché se la religione cristiana –ormai religione di stato- relegava nella superstizione le pratiche pagane, in pratica non era così. La maggioranza della popolazione ci credeva, eccome.
Ad ogni modo, per errore umano o per volontà divina i Goti restarono padroni del campo. Provarono anche ad assediare Costantinopoli, dove la popolazione si rifiutò di aprire le porte della città ai soldati romani temendo chissà che cosa. L’assedio non poteva avere successo e in effetti fallì. I Goti ripresero a correre le campagne fino a che un energico generale di origine spagnola, Teodosio, nominato imperatore d’Oriente da Graziano, pose fine al conflitto, giungendo a un accordo con i Goti e accogliendoli come foederati all’interno dell’impero.
Col tempo, Adrianopoli è diventata un simbolo, una specie di spartiacque della storia. Nella sconfitta di Valente, infatti, c’è chi vede l’inizio della fine per l’impero romano d’Occidente. I “barbari” infatti si spingeranno sempre più a ovest ( in questo assecondati dagli imperatori orientali, ben felici di toglierseli dai piedi) fino ad arrivare a Ravenna e a Roma. Per alcuni addirittura il Medioevo comincia lì, nel tardo pomeriggio di quella torrida giornata estiva, in cui la cavalleria dei Goti ebbe la meglio sulla fanteria romana. Le cose non stanno esattamente così. Ci vorrà ancora molto tempo prima di un cambiamento effettivo, ma sicuramente Adrianopoli contribuì ad accelerare il processo.
Epilogo.
Negli anni successivi al riconoscimento da parte di Teodosio, i Goti accolti nell’impero si diressero a occidente in cerca di soldi, a caccia di prebende e di incarichi. Quando erano pagati stavano buoni, combattevano per Roma anche contro altri Goti. Ma quando erano a corto di soldi si agitavano, rumoreggiavano e minacciavano. Gli imperatori d’Occidente dovevano fare i salti mortali per accontentarli. E non sempre ci riuscivano. A volte non volevano, altre volte proprio non c’erano soldi. O terre da distribuire. O cariche da assegnare ai capi. La situazione era perennemente tesa: i Goti minacciavano di fare sfracelli, si quietavano, poi minacciavano di nuovo. Alcuni dei loro capi sedevano in Senato: si toglievano la pelliccia per indossare la toga e , una volta finita la seduta, si rimettevano la pelliccia  e ritornavano quelli di prima. O, almeno, così è stato scritto. La convivenza, insomma, a poco a poco si era fatta meno facile; i “ barbari”- sempre più numerosi nell’esercito- erano in grado di condizionare la politica imperiale.
Nel 410, uno di loro, stanco di dilazioni e di promesse non mantenute mise a sacco Roma. Non veniva da lontano, dalla Germania, dalla Scandinavia o da qualche altra remota parte oltre il limes. Non invase alcunché, perché, con i suoi, si trovava già da un pezzo dentro i confini dell’impero. Parlava latino, si professava cristiano, era un generale dell’esercito. I Romani lo conoscevano come Flavius Alaricus; noi lo conosciamo come Alarico, capo dei Goti.
Da leggere
Alessandro Barbero, 9 agosto 378. Il giorno dei barbari, Laterza, 2012
Guido Cervo, Le mura di Adrianopoli, Piemme, 2009
Alessandro Defilippi, Danubio rosso. L’alba dei barbari, Mondadori, 2012
Simon Macdowall, Howard Gerrard Adrianople AD 378. The Goths crush Rome’s Legions, Osprey, 2011
Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri, liber XXXI, UTET, 2014
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