Quando arrivò la Fine del Mondo
Si dice che ciascun essere umano sia collegato, tramite conoscenze comuni,
a qualsiasi altro essere umano attraverso non più di sei passaggi...
eppure qualche eccezione deve esserci
Quando arrivò la Fine del Mondo – del tutto inattesa – Giovanni si trovava nella Capitale. Non fu come la immaginavano i Testimoni di Geova o qualche altra setta apocalittica. Non ci furono né terremoti né tsunami né asteroidi né alieni né catastrofi nucleari né cambiamenti climatici e neppure epidemie globali. Non fu neanche una cosa tanto clamorosa come ci si poteva aspettare.
Era estate, una giornata di sole, iniziata come tante altre. Giovanni stava camminando per le strade deserte chiedendosi che fine avesse fatto l’Umanità, dal momento che stava già camminando da due ore senza incontrare anima viva.
Tutto appariva intatto; edifici, strade, automobili vuote, ecc. Era come se tutta la gente se ne fosse improvvisamente andata mollando quello che stava facendo. Qualche macchina giaceva in effetti cappottata in mezzo alla via e molti automezzi ingombravano le strade senza più nessuno al volante. Camminando notava via via nuovi strani particolari. Da qualche finestra giungeva un fumo sospetto – tornando indietro non si sarebbe stupito di trovare un incendio. Da altre finestre giungeva della musica: forse radio o televisori lasciati accesi. Si era anche affacciato ad una finestra di un piano terra e aveva chiesto, un po’ timidamente, se c’era qualcuno. Nessuno aveva risposto. Dal salotto in penombra giungeva solo lo sfrigolio della tv. Sullo schermo si vedevano solo interferenze.
Il sole saliva senza fretta in un cielo senza nubi, illuminando i palazzi più alti. Cominciava a fare caldo sul serio. Giovanni entrò in un bar in cerca di ombra e di qualcosa da bere. Di solito veniva cacciato in malo modo, persino quando chiedeva acqua di rubinetto – “acqua del sindaco” come la chiamava lui – ma stavolta nessuno gli lanciò sguardi ostili o sospettosi. Il locale era vuoto. Anche lì c’era qualcosa di strano. Le luci erano accese, come se il proprietario si fosse assentato un attimo per andare al bagno. Sui tavolini cartacce, tazze e bicchieri sporchi e lattine vuote. Dal rubinetto lasciato aperto veniva giù un bel getto d’acqua rinfrescante dove Giovanni immerse le mani e poi la testa. Prese un bicchiere dal banco e si servì una bottiglia di ottimo vino rosso che mandò giù con un rutto soddisfatto. Cercò poi qualcosa da mangiare. Erano giorni che non gli capitava di mangiare a sazietà. Qualunque cosa fosse successo, era bene approfittarne.
Lasciato il bar continuò a camminare nel largo viale che conduceva in centro. La capitale era enorme, gigantesca da percorrere a piedi, ma lui non aveva fretta e aveva buone gambe. Era sparita anche la “concorrenza” che elemosinava da quelle parti. Non conosceva i nomi degli sguardi che incrociava talvolta quando passava di là, fuori dalla sua zona, ma in effetti non conosceva nessuno nemmeno nella sua zona. Era da molto tempo ormai che aveva tagliato tutti i ponti col mondo. Talvolta gli capitava di fare pensieri strani. Si vedeva disteso su qualche marciapiede o in qualche angolo della metro, privo di vita, tra l’indifferenza dei passanti. Qualcuno infine si fermava e chiamava le autorità. Nessuno riusciva ad identificarlo. Da tempo non aveva più documenti e chi conosceva il suo nome – al tempo in cui aveva ancora un nome che qualcuno pronunciava o soltanto pensava – era scomparso da tempo dal pianeta.
Quella mattina d’estate era una mattina in cui si presentava improvvisa quella fantasticheria. Non era però solo fantasia, c’era del vero: se fosse morto nessuno si sarebbe certo presentato a riconoscere il suo cadavere. Sarebbe stato buttato in qualche fossa e amen. Ma se non ci fosse stato nessuno che si fosse preso la briga di seppellirlo…
Uno sbatter d’ali improvviso lo distolse dai suoi pensieri. Un piccione era volato a pochi millimetri dal suo orecchio. D’istinto si abbassò e chiuse gli occhi. Quando li riaprì si trovò di nuovo quell’assurda realtà priva di persone. Pensò che era proprio la fine. Gli tornò alla mente un sermone di un prete che aveva sentito una volta, o forse era il testo di una canzone – a volte si confondeva, ma era certo che parlasse della Fine del Mondo, della Conclusione, che giungeva improvvisa, senza drammi, senza la Voce di Dio, senza una lacrima. Ecco com’era. Era arrivata infine la Conclusione – pensò Giovanni – e forse nessun altro se n’era accorto.
* * *
Non potevamo immaginare cosa avremmo trovato nel Futuro.
Era facile aspettarci un mondo migliore, dove la Scienza aveva risolto la maggior parte dei problemi della nostra epoca di provenienza. Un mondo privo o quasi di malattie, di guerre, di povertà, dove l’Uomo si preparava a conquistare le stelle. Questo era il desiderio che ci animava e che ci aveva fatto compiere il Viaggio. Certo, c’era anche chi non condivideva l’ottimismo dei più, chi pensava al contrario di trovare un mondo devastato dalle guerre e dagli effetti dell’inquinamento; un clima ormai compromesso ed un suolo sterile, devastato da cataclismi vari. Ma anche loro, in fondo al loro animo, credevano che più in basso di come ci trovavamo agli inizi del XXI secolo non si poteva andare: o avremo trovato un mondo nettamente migliore oppure non avremo trovato nulla, e in ogni caso valeva tentare il Viaggio. C’erano anche quelli portati di forza nel Futuro, una minoranza comunque: quelli “portati” da qualche amico o parente o chissà chi, qualcuno che nemmeno s’immaginavano.
Non tutti infatti avevano scelto di compiere il Viaggio, che era in effetti un viaggio senza ritorno.
Quando l’inventore del Viaggio, l’anonimo Viaggiatore del Tempo, aveva compiuto il grande passo non aveva idea delle conseguenze della sua invenzione. Noi lo immaginavamo nel suo laboratorio, mentre si chiedeva se valesse di più un viaggio nel futuro di cento anni o se contavano di più gli affetti che avrebbe lasciato nel Passato. era chiaro che, quando fosse riemerso nel Futuro, tutte le persone che aveva amato o soltanto conosciuto sarebbero state ormai morte. Questo era l’aspetto davvero triste del Viaggio nel Tempo. Era una sorte di esilio definitivo, per quanto volontario, un voltare le spalle alle persone care. Forse, mentre era euforico all’idea di vedere un mondo che non avrebbe mai potuto vedere altrimenti, gli era caduto lo sguardo su qualcosa che lo aveva fermato. Fare quel viaggio gli sarebbe costato molto. Tutto il suo entusiasmo doveva essere venuto meno in un attimo. Una strana nostalgia per il presente doveva averlo preso. Il pensiero di avere la certezza che non avrebbe trovato nessun volto conosciuto in quel futuro, per quanto dorato, doveva averlo trattenuto per chissà quanto tempo.
Tutto ciò finché non aveva trovato la soluzione, o per meglio dire la soluzione si era presentata da sola. Un esperimento aveva confermato che azionando la Macchina del Tempo – un oscuro meccanismo basato sulla fisica quantistica, di cui pochi avrebbero compreso il funzionamento – ed impostando la destinazione di un’ora avanti nel tempo, accadeva qualcosa di inatteso.
Lo stesso Viaggiatore del Tempo aveva poi raccontato la sua storia al Mondo, in forma anonima. Mentre si trovava disteso all’interno del Campo Gravitazionale generato dalla Macchina, con lo sguardo fisso ai macchinari e ai cronometri – quello interno al Campo e quello esterno di controllo – l’uomo aveva visto scomparire in un attimo il mondo all’esterno del Campo. Aveva immaginato qualcosa di simile a quanto avveniva nei romanzi e nei film sui viaggi nel tempo, ossia un tempo “accelerato” come in un video mandato su “avanti veloce”. Niente di tutto questo invece; spostarsi nel tempo equivaleva ad entrare in una meta-dimensione di passaggio dove ogni oggetto visibile scompariva ad eccezione dell’osservatore.
Ma non era solo in quel breve viaggio, la cui durata non era misurabile in termini di “tempo ordinario”; per qualche strano motivo poteva vedere, sospesi in un nulla dal colore indefinito, anche i due cronometri, entrambi fermi sull’attimo della partenza. Poteva percepire però lo scorrere di un tempo diverso, una diversa dimensione temporale separata dal tempo ordinario, dove i suoi pensieri passavano alla consueta velocità. Quello strano tempo percepito era paragonabile a qualche minuto. Quando il laboratorio riapparve attorno a lui, le lancette ripresero a muoversi.
Perché tutto era sparito tranne i due cronometri, posti uno all’interno del Campo ed uno all’esterno? Non aveva senso. Nessuna legge fisica poteva spiegare ciò che si era verificato; occorreva ricorrere a qualche forza telepatica sconosciuta, una “telecinesi temporale”. D’altra parte anche il terreno dei viaggi nel Tempo era quasi del tutto inesplorato e del tutto teorico. Niente era stato osservato direttamente… fino a quel momento.
In un primo momento si rallegrò di questo effetto imprevisto della sua invenzione. Poteva portare la sua donna nel futuro, se si fosse concentrato su di lei; il che non era affatto difficile. Avrebbero ricominciato in un mondo nuovo, una nuova casa, una nuova vita. Ma, preso dall’euforia, non aveva considerato un fattore fondamentale. Ci pensò quella stessa sera, quando ne parlò alla fidanzata. Così come, col solo pensiero, aveva “portato” con se nel tempo due oggetti e basta, questo era dovuto probabilmente al fatto che gli oggetti non possedevano un’analoga capacità telecinetica. Un oggetto, infatti, non pensa. Se avesse portato una persona, questa a sua volta avrebbe pensato magari senza volere a qualcun altro e così via come in un “effetto domino”. Per essere sicuri di viaggiare solo loro nel Futuro, senza portarsi dietro l’intera Umanità, dovevano non pensare a nessuno durante l’attimo della partenza. Sarebbero entrati insieme all’interno del Campo e si sarebbero pensati a vicenda intensamente.
Chi poteva ipotizzare che – proprio in quell’istante – un gatto sarebbe saltato all’interno del Campo…
* * *
Ademio e Lucia si aggiravano, insieme ad altri milioni di esseri spaesati, tra le rovine della città che fu una volta la Capitale e che era abbandonata come un guscio mezzo decomposto. Nessuno dei grandi sogni dell’Umanità, nessuna utopia si era realizzata, anzi! Che ironia! C’era davvero da ridere come matti, anche se in effetti era tutto così tragico da sconfinare nell’assurdo…
Quante persone erano rimaste nel passato, cent’anni prima? Impossibile dirlo, ma dovevano essere molto poche: centinaia, migliaia... in tutto il mondo! Esseri dimenticati dai loro simili, persi in un pianeta divenuto all’improvviso vastissimo ed ostile. Che atroce solitudine, pur per esseri abituati alla solitudine – sia stata essa volontaria o meno. Chissà se qualche discendente era sopravvissuto… era una possibilità che faceva venire i brividi.
Ademio provava un profondo senso di pena, senza sapere nemmeno lui di cosa andava in cerca. Ora che il Mondo doveva ricominciare, ora che occorreva rimboccarsi le maniche per tornare al livello che l’Umanità aveva raggiunto un secolo prima, ora che tutto o quasi andava ricostruito… gli tornava alla mente un celebre romanzo di uno scrittore vissuto nel XX secolo, e il suo ammonimento finale. L’uomo non si stanca mai di ricominciare, dopo la distruzione, questa è la sua virtù e la sua condanna.
Il sole continuava a splendere da un cielo sereno sulle rovine quasi irriconoscibili. Le strade erano difficili da seguire, ingombre com’erano di macerie, di scheletri di auto arrugginite, di cose strane. Era faticoso arrampicarsi su ostacoli di ogni tipo e forma, facendo attenzione a non ferirsi e a non farsi male, ma tanta era la voglia di esplorare che Ademio non si accorgeva quasi del sudore che gli inzuppava la maglietta. Era estate e tutto appariva in quell’atmosfera evanescente che fa pensare ad un miraggio. Era un mondo strano, che stentava a riconoscere.
La maggior parte degli edifici, dopo un secolo di incurie, era crollato e ne restavano solo pezzi di muri sgretolati, in mezzo alla vegetazione selvatica, che stringevano il cuore. Qualche raro palazzo però era in condizioni migliori. Forse lì si erano radunati gli ultimi rappresentanti della razza umana, prima che questa si “estinguesse” per riapparire molti anni dopo la loro morte.
C’era un largo viale che emergeva dallo squallore generale. Quel viale conduceva al centro della città. C’erano molti negozi e locali lungo la strada, dove ora era un po’ meno difficile camminare. L’asfalto era spaccato in più punti; dalle crepe emergevano alti ciuffi di erbacce e qualche albero che spandeva un odore pungente. Entrarono in un bar – quello che un tempo era stato sicuramente un bar – e si sedettero su due sgabelli di legno dall’aspetto abbastanza solido. Nonostante i segni del tempo, era stato senza dubbio un bar. C’era ancora la macchina dell’espresso che pareva in buono stato, e molte tazzine ancora integre disposte sul banco che parevano attendere le bocche dei clienti che avevano chiesto caffè e cappuccini.
Una bottiglia rotta di liquore giaceva nell’acquaio. Ademio osservava tutto con interesse, domandandosi quali immagini avesse riflettuto la specchiera incrinata e sporca dopo che l’Umanità aveva compiuto il Viaggio. Forse la faccia di qualche disperato che si chiedeva che fine avessero fatto tutti quanti. Quello sconosciuto non avrebbe potuto mai immaginarlo.
Firenze, 17 febbraio – 31 ottobre 2007