Sposarsi
Urla e schiamazzi dalla strada. Una folla di persone attornia un carro: trasporta i beni della sposa, li stanno portando nella casa dove abiterà la nuova coppia. Ma dove siamo? E quando si svolge la scena? Siamo nella Firenze rinascimentale? Nella valle della Soule ottocentesca? O in Sardegna? Più o meno pubblicizzato e ritualizzato, il trasporto dei beni della sposa nella dimora della nuova coppia rappresenta in buona parte d’Europa un momento importante delle cerimonie nuziali1 (Figg. 6-7).
E allora seguiamolo, questo carro: accodiamoci anche noi al gruppo festante. Dove si dirige? Verso una nuova casa indipendente? Non necessariamente. I matrimoni non implicano infatti per forza la formazione di una famiglia autonoma, di una nuova unità coresidente: non sempre insomma chi si sposa mette su casa per conto proprio. Nella Carinzia rurale ci sono addirittura servi agricoli che dopo le nozze non vanno ad abitare con il coniuge2. E in Svizzera si sa di uomini costretti a sposare donne con cui hanno avuto rapporti sessuali dietro promessa di matrimonio che, dopo le nozze, si rifiutano di coabitare con la moglie3.
Inversamente, la formazione di un nuovo aggregato domestico non necessita sempre di un matrimonio. Ci sono infatti zone e⁄o gruppi sociali in cui tutti i maschi che si sposano portano le loro mogli in casa dei genitori, dando vita, così, a famiglie formate da varie coppie con i loro bambini («famiglie multiple», nel linguaggio degli studiosi delle strutture familiari). È il caso delle famiglie mezzadrili dell’Italia centrale; di quelle dei servi della gleba russi; delle comunità dell’Alvernia, dei Bauges, del Borbonese, del Nivernese, del Morvan che arrivano a includere una cinquantina di persone; delle grandi famiglie dei Balcani dette zadruga, che ne possono includere addirittura un’ottantina4 (Figg. 10-11). Ma l’aggregato domestico non può crescere all’infinito. Ad un certo punto può dunque rendersi necessaria la sua scissione: ecco allora che alcuni dei membri se ne vanno, si trasferiscono in un’altra casa dando origine ad una nuova famiglia senza che essa sia direttamente scaturita da un matrimonio5.
Dobbiamo allora concludere che in Età moderna le nuove coppie non andavano mai ad abitare da sole? E che il titolo dato a questo capitolo è in sostanza fuorviante? Assolutamente no. In Inghilterra, in Islanda, in Danimarca, in Norvegia, nella Francia settentrionale, in Olanda, in alcune zone della Germania, nella Penisola iberica meridionale e sud-orientale, nell’Italia del Sud e in Sardegna gran parte delle coppie dopo il matrimonio mettevano su casa per conto loro, creando famiglie formate da genitori, figli ed eventuali domestici. In gergo tecnico si dice che seguivano la regola di residenza «neolocale» e formavano aggregati domestici «nucleari». Nella Spagna e nel Portogallo settentrionali, nei Pirenei, nella Francia meridionale, nell’Italia centrale e, in parte, in quella settentrionale, nelle Alpi, in Austria, in buona parte della Germania, in Svezia, in Finlandia, nell’Europa orientale e balcanica era invece frequente che gli sposi andassero ad abitare con la famiglia del marito («patrivirilocalità»). Pur con notevoli differenze tra un’area e l’altra e tra un periodo e l’altro ciò rendeva più diffuse, in queste zone, le famiglie «complesse», vale a dire quelle in cui c’erano più coppie con i loro bambini («famiglie multiple») e quelle in cui uno o più parenti abitavano insieme ad una coppia con i figli («famiglie estese»)6.
Paese che vai usanze che trovi, si potrebbe dire. E infatti in buona parte è così. Le differenze non derivavano però solo da tradizioni locali: il tipo di insediamento della popolazione, gli andamenti demografici, il tipo di organizzazione socio-economica prevalente nelle singole aree, le leggi e, in campagna, le direttive dei proprietari terrieri, e poi ancora il ramo di attività delle famiglie e il loro livello di reddito spesso giocavano un ruolo importante nel differenziare una zona dall’altra e, anche all’interno di una stessa zona, un periodo dall’altro, un gruppo sociale dall’altro. Così se invece di guardare l’Europa da lontano avviciniamo lo sguardo come cosmonauti che rientrano sulla terra a bordo di una navicella spaziale, ecco che vaste aree apparentemente uniformi cominciano a brulicare di mille differenze.
Studi condotti su città inserite in regioni in cui le famiglie complesse erano piuttosto diffuse come Lione, Mâcon, Porto, vari centri dell’Italia centro-settentrionale mostrano che nel perimetro urbano c’erano più famiglie nucleari che nelle campagne circostanti. Molto probabilmente alcune caratteristiche della città, come spazi ristretti, scarsa diffusione della proprietà immobiliare, presenza di immigrati senza parenti, una mortalità più alta che nel mondo rurale, contribuivano a spiegare tale diffusione, insieme ad altri fattori economici e culturali. Non tutti si comportavano però allo stesso modo: vivevano in famiglie nucleari soprattutto i ceti artigiani e medio-bassi, mentre i nobili e i ricchi dimostravano una più marcata tendenza a vivere in famiglie complesse, tendenza, quest’ultima, che peraltro è stata talvolta riscontrata pure in centri situati in zone dove la famiglia nucleare era prevalente anche in campagna. È ad esempio il caso di Turi, una cittadina pugliese7.
Le differenze tra gruppi sociali diversi si facevano comunque sentire anche in campagna. Nella Galizia rurale di metà Settecento, ad esempio, le famiglie di nobili e hidalgos erano complesse nel 30,5% dei casi, mentre negli altri gruppi la percentuale di aggregati domestici di questo tipo era molto più bassa (oscillava tra il 10 e il 25,5%). Ma era dato di riscontrare differenze, talvolta profonde, perfino tra coloro che vivevano del lavoro dei campi. I braccianti senza terra e più in generale i lavoratori agricoli che non avevano poderi da condurre in proprio, presenti in zone diverse e lontane come il Portogallo settentrionale, varie aree italiane, l’Ungheria, il villaggio tedesco di Belm o la comunità spagnola di Melina, presso Valencia, erano accomunati dal fatto di vivere in famiglie nucleari più spesso dei contadini che erano insediati in un podere, fosse esso di loro proprietà o di un proprietario terriero8. Non a caso, dunque, l’alto numero di braccianti nella popolazione agricola è stato considerato uno degli elementi che spiegano la prevalenza di famiglie nucleari in molte aree della Penisola iberica e dell’Italia meridionale9. I contadini appoderati abbastanza spesso vivevano invece in famiglie complesse. Ciò non deve stupire. Essi avevano bisogno di braccia per lavorare il fondo agricolo. E dunque per loro avere una famiglia numerosa poteva essere una buona soluzione, anche se non era necessariamente l’unica: se e quando le braccia scarseggiavano si potevano assumere – per l’appunto – dei braccianti, o dei servi agricoli, che rispetto ai parenti permettevano anzi una maggiore flessibilità (questa seconda soluzione nell’Europa nord-occidentale veniva ampiamente preferita a quella di condividere la gestione della terra con persone legate da vincoli di parentela)10. Ma, come vedremo nelle prossime pagine, c’erano anche altre ragioni che potevano favorire la presenza di famiglie complesse tra i contadini che lavoravano un podere.
Coppie che vanno ad abitare da sole, uomini che portano in casa le loro spose: e le donne? C’erano mariti che si trasferivano a casa delle mogli al momento del matrimonio? Ce n’erano, ma erano senza dubbio complessivamente casi più rari. E la loro presenza era legata a condizioni demografiche e sociali particolari, più che a usanze locali in tal senso, che pure esistevano. «Perdetti la più bella occasione del mondo», dice Ménétra a proposito di una «deliziosa» vedova con una fiorente attività presso la quale egli lavorava e con la quale aveva una relazione. Inquieto tombeur de femmes, egli la lasciò per godersi, ancora per un po’, la sua libertà senza una moglie tra i piedi. Ma per i giovani artigiani che avevano concluso l’apprendistato e che nel corso dell’Età moderna incontravano crescenti difficoltà ad aprire una bottega in proprio, sposare la vedova di un mastro artigiano installandosi in casa sua era una delle soluzioni migliori per sistemarsi11.
Lo stesso poteva dirsi, in campagna, per i giovani senza mezzi che riuscivano a sposare ragazze che, non avendo fratelli, erano eredi di una fattoria (un’eventualità, l’assenza di figli maschi, che pare toccasse circa il 20% delle famiglie, mentre il numero effettivo delle ereditiere si aggirava spesso attorno al 30%)12. Ma se da un lato per lo sposo concludere un matrimonio del genere poteva essere un affare13, dall’altro in molte comunità lo esponeva, almeno nelle campagne francesi, a venir bollato con nomignoli denigratori e a subire scherzi più o meno crudeli in occasione delle nozze. Significativamente tali nomignoli pare fossero assenti in Bretagna e nel Bas-Léonnais, dove invece i matrimoni «uxorilocali», cioè per l’appunto quelli in cui il marito va ad abitare in casa della moglie, erano frequenti14. Pur circoscritte, non mancavano, infatti, le zone in cui tali matrimoni erano diffusi, come la Puglia, l’Alto Minho (Portogallo), le piccole isole del Mar Egeo15.
In Francia, ma forse anche altrove, in questo tipo di matrimonio, detto mariage en gendre, era del marito il «corredo» che veniva trasportato nella casa della sposa, con un ribaltamento dei ruoli che rischiava di intaccare le tradizionali gerarchie tra maschi e femmine e che pare rendesse queste unioni, laddove non erano frequenti, particolarmente soggette a tensioni e conflitti16.
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