Legnano story - note personali
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“COME SI AMMALAVANO E CURAVANO I VALDOSTANI”
Per studiare le malattie che colpiscono una popolazione la fonte di dati più comunemente utilizzata sono i certificati medici, scritti per finalità cliniche di diagnosi e cura o per esigenze amministrative della struttura che le prende in carico. Nei capitoli precedenti si sono studiate le malattie che colpiscono oggi la popolazione anziana valdostana utilizzando quanto riportato nella scheda di dimissione ospedaliera o in quella di morte. Oggi però, a differenza di un tempo, c’è consapevolezza dell’utilizzo di queste fonti preziose di dati e tutta la documentazione medica ha adottato dei sistemi di codifica delle diagnosi tali da potere essere riconosciute e studiate anche da chi, utilizzando quelle diagnosi per programmare degli interventi di sanità pubblica, medico non lo è. I medici di un tempo non avrebbero mai immaginato un utilizzo dei loro certificati medici come fonte di dati utili a generalizzare conoscenze epidemiologiche. La medicina in alcuni casi era ancora molto vicina alla stregoneria e i progressi di oggi, il rigore delle diagnosi e cure apparteneva al mondo della fantascienza.
“Come si ammalavano e curavano i valdostani” è tratto da: M. Ansaldo “Storie dimenticate” Testimonianze di vita sociale nell’antica Valle d’Aosta. Tipografia Valdostana, Aosta , 2002 pag.125.
“Ho sottomano qualche centinaio di ricette originali (sono un vecchio farmacista) che vanno dal 1702 via via sino al 1818. E’ uno spettacolo desolante! Sono come i grani della corona del rosario che scorrono sempre uguali fra le dita.
Cento e più anni di ricette dicono che la scienza medica è rimasta allora ferma a come era duecento, cinquecento e anche più anni prima: impotente a risolvere la malattia, guardata con riverente sospetto, immersa nella ”aria corrotta”, insidiata da fermenti putridi e corpi maligni.
Il medico si trovava come un tale davanti a una cassaforte della quale non sa o solo intuisce la combinazione. Il medico d’oggi ha la quasi certezza d’aver visto e curato giusto, con le chiavi che la scienza mette a sua disposizione.
Per sapere quali erano le più comuni e frequenti malattie e come le curavano gli antichi Valdostani, basta scorrere le ricette che l’Ospizio di Aosta custodisce nel suo Archivio.
La Casa era la sola Istituzione pubblica esistente nel Ducato d’Aosta, almeno sino alla fondazione dell’Ospedale della Sacra Religione o Ospedale Mauriziano nel 1772, in grado di ospitare ammalati. Aveva un farmacista e un medico convenzionati cui si appoggiava godendo degli sconti favolosi che andavano sino al 70% perché si trattava di preparazioni galeniche. I medici più noti erano il dott. Chapellain e il dott. Forré. I farmacisti, come le farmacie, erano quattro a partire dal 1702 quando iniziò una regolare contabilità. I farmacisti erano, cronologicamente, i dottori Tasca, Piazza, Chapellain, subito dopo la Restaurazione, il Monterinaldi presso l’Ospedale Mauriziano.
Lascio perdere medici e farmacisti attivi dalla seconda metà del milleottocento, perché incominciava allora l’industria farmaceutica con scatolette e bugiardini.
I farmacisti, beati loro, godevano salute di ferro e vita lunghissima con papalina in testa, fra l’odore delle droghe orientali e la penombra dell’officina farmaceutica.
Se si scorre un elenco delle patologie di quei tempi, si vede che occupa un relativo spazio, mentre l’elenco dei rimedi non finisce più di cantare le virtù di qualsiasi sostanza vegetale. Si tratta di canti di speranza senza l’ausilio della sperimentazione di laboratorio: si studiava in superficie senza affondare lo sguardo.
Per più di duecento anni si seguirono i dettami del famoso medico Mattioli; nelle case dove si sapeva leggere, si consultava “Certains remèdes du Grand Mattioli”… Si trattava di preparazioni artigianali costituite in gran parte da erbe, cortecce e qualche minerale tipo mercurio, piombo, argento ecc. Graveolenti unguenti, pozioni, sciroppi, elettuari, depurativi, teriache, clisteri, panacee, mercuriali, vescicatori, mitridate con confetti di giacinto, conserve e precipitati, sangue di stambecco ecc. e chi più ne ha più ne metta. Ma devo ricordare che nel 1703 il medico convenzionato dell’Ospizio Vernetti prescriveva come ricostituente, e il farmacista Tasca confezionava, la celeberrima mumia, cioè un pezzo di carne mummificato di un uomo non ucciso! A compensare questa aberrazione in quel tempo era già utilizzato il chin-chin, cioè la polvere di chinino solo o in associazione con la teriaca, indescrivibile miscela di erbe.
Malattie e cure di un tempo Le malattie più usuali erano quelle che riguardavano l’apparato respiratorio e la pelle… malattie facili da diagnosticare ma difficile da guarire. Ecco una ricetta scritta il 31 gennaio 1659 per curare la pleurite.
Era una specie di cerotto-pozione tratto dal primo brogliaccio di amministrazione dell’Ospizio, nel quale, secondo le abitudini di quei tempi, si scriveva di tutto. “Pour la pleurisie in principio morbi lors quil y a pointe. Il faut prendre une poignée de la poudre de hortie; etant bien nettes les mettre boullir parmy un verre de vin et huit onces de huile d’olive et faire cuire le tout jusqu'à le vin soit tout consumé; puis appliquer les horties a la pointe et boire le jus coulé a quel heure que ce soit y melant un peu de sucre”.
Seguivano le fratture e i chirurghi o “barbieri” aggiusta-ossa rabberciavano lasciando il più delle volte i famosi “esiti” postoperatori, evidenti nelle numerose persone claudicanti o storpie.
Ma, ripetiamo, le malattie più diffuse erano quelle che interessavano la pelle. Si può dire che il 90% delle persone era affetto da scabbia, rogna, pustole e porcherie del genere. La sporcizia conviveva come un vestito di tutti i giorni. Sotto le vesti preziose di una gran dama del 1700 era facile trovare le pulci…
Dopo le malattie della pelle, comuni come l’acqua di un ruscello, venivano le malattie dell’apparato digerente se si vogliono chiamare malattie le indigestioni o meglio i travagli di stomaco causati da certi cibi indigesti che si consumavano. Meraviglia che il pane nero di segala, largamente consumato, non favorisse l’intestino come denotano le numerosissime ricette. Il sale inglese o sal canale e i clisteri erano il punto di forza dei medici. Tenevano buona compagnia il tartaro emetico, il rabarbaro, tamarindo, olio canforato, chinino in polvere, santonina, teriaca, pomata a base di piombo, unguento antiscabbioso, clistere lenitivo, elisir di lunga vita, empiastri per tutti i gusti, unguento mercuriale… e così via sempre per quelle quattro o cinque malattie, meglio disturbi, che lasciavano vivere.
Insomma i Valdostani d’una volta avevano i malanni dei Piemontesi e dei Savoiardi, campavano poco, mediamente 45-50 anni. Oggi la scienza attribuisce al corpo umano centinaia di malattie, fornisce medicine per tutte, la guarigione è più sicura, si campa di più ma non per questo siamo più felici.”
“ANTICHI OSPEDALI E OSPIZI”
Oggi si guarda all’Ospedale regionale come ad una struttura per la cura delle malattie acute, che richiede alte tecnologie e quindi alti costi, che dopo l’intervento invia a strutture sanitarie più semplici e idonee alla prosecuzione della convalescenza, caratterizzate da ambienti meno clinici e più umani e simili alle comuni abitazioni. La diagnosi, le cure e le aspettative di guarigione sono eventi con elevata probabilità di successo per la grande parte delle malattie. Andare in ospedale è un evento ritenuto necessario a ristabilire una condizione di salute o un miglioramento ed è soprattutto un evento possibile a tutti. Ma un tempo le cose erano molto diverse…
“Antichi ospedali e ospizi” è tratto da: M. Ansaldo “Storie dimenticate” Testimonianze di vita sociale nell’antica Valle d’Aosta.
Tipografia Valdostana, Aosta , 2002 pag.57.
“Nel 1773 la Valle d’Aosta aveva ventiquattro ospizi e un “Hopital de la Cité d’Aoste” divenuto nel 1837 “Hospice de Charité”.
Gli ospizi disseminati sul fondovalle, quasi a formare una catena di solidarietà, erano sorti sin dai tempi antichissimi per assistere viandanti e pellegrini in viaggio di penitenza verso santuari; commercianti, poveri veri e falsi in trasferta verso caritatevoli piazze, galantuomini sorpresi dalle insidie della notte e dalle furie del cielo…
Gli ospizi accoglievano tutti senza chiedere la patente di buona condotta. Si pretendeva solo che si brigassero in fretta con un boccone di pane e un rapido riposo perché l’ospizio poteva per pochi, mentre le bussate alla porta erano fatte da molti. Di tutti questi ospizi ora c’è’ solo il ricordo storico. E’ ancora in servizio l’Ospizio del Gran San Bernardo ma i monaci non aspettano più nessuno. Il San Bernardo era una istituzione (congregazione) fondata dal monaco Bernardo di Mentone (996-1081). Nel corso dei secoli si arricchì di benefici sparpagliati sin nella Inghilterra, Francia, Germania e Italia.
Nel 1752 accadde un fatto che propiziò la fondazione dell’Ospedale Mauriziano. Scoppiò un conflitto di competenza fra i duchi di Savoia e il monastero del San Bernardo: i Savoia pretendevano di scegliere il candidato alla prevostura del monastero. Il San Bernardo invece, essendo territorio dello stato del Vallese, avocava a se stesso la nomina. Nel 1752 già ricordato, papa Benedetto XIV accordò ai monaci il diritto di Malattie e cure di un tempo nominare il prevosto e, in quanto papa, donò tutti i beni che l’Ospizio del San Bernardo possedeva negli Stati Sardi, all’ordine Mauriziano a condizione che quest’ultimo destinasse i suoi beni per la creazione di un Ospedale nella Valle d’Aosta. Sorse così l’Ospedale Mauriziano.
Si stendeva su due piani ricavati da una antica casa dei baroni Freydoz di Champorcher, casa immersa in una selva di giganteschi pioppi che filtravano il suono delle campane di Charvensod e coniugavano il loro verde con quello della montagna di Pila. Ora non c’é più nulla di quelle antiche memorie. Troneggia il palazzo della Amministrazione Regionale: otto piani di finestre accecano lo sguardo e fanno intravedere solo gente che lavora e guarda.
Prima che sorgesse l’Ospedale Mauriziano, chi si ammalava quale destino aveva? Colui che aveva soldi, una casa con un letto dove coricarsi, chiamava a domicilio il medico ducale o il suo “secondo”, godendo così del privilegio di guarire o morire a casa propria. Chi invece era povero e ramingo, poteva trovare ricovero e cure nell’Hôpital de la cité d’Aoste diventato poi lo ”Ospizio”, fondato dal tesoriere Bonifacio Festaz da Gressan nel 1657. Un chirurgo, un medico, uno speziale e delle suore erano sempre pronte a intervenire con la sollecitudine cristiana propria di quei tempi.
Nel 1724 operava un chirurgo di nobile famiglia, certo Leaval. Nell’archivio dell’Ospizio c’è la documentazione di molti suoi interventi eseguiti con i ferri chirurgici artigianali d’allora. Oggi i ferri li chiamiamo “serie chirurgica” avvolti in trousse come oggetti di bellezza. In quei tempi, la chirurgia aggiustava, riparava. Oggi cambia parti del corpo umano con la determinazione del meccanico che cambia una ruota bucata. Come anestetico si usava la “spugna sonnifera” ottenuta facendo bollire una spugna con succhi di erbe speciali, tipo mandragora, oppio, cicuta, lattuga ecc. manipolata dallo speziale-farmacista e fatta bollire per un’ora. La guarigione, quando avveniva, era sempre una sofferenza perché l’operazione difficilmente lasciava pulito il malcapitato, cioè senza esiti postchirurgici.
Ecco alcuni interventi del chirurgo Leaval:
- Trattato una donna affetta da dislocation de l’epoule (lussazione della spalla) con due grandi e profonde ferite al cranio. Curata per quaranta giorni e guarita.
- Curato un pellegrino, già schiavo, che aveva due grosse ulcere alle gambe. Guarito in dieci giorni.
- Curato un altro pellegrino affetto da un tumore al piede. Guarito in dieci giorni.
- Curato e guarito un giovane afflitto da un tumore freddo (froide) venutogli au glande du col (alla tiroide). Un mese di cura. In questo caso non si dice che era guarito perché, probabilmente, si trattava di una forma gozzo-tumorale.”
“quando le medicine si preparavano in farmacia”
Le farmacie di un tempo avevano un ruolo centrale nella cura delle persone perché preparavano esse stesse, al proprio interno e con ingredienti tratti dalla natura, molti dei medicinali che servivano a risolvere o ad alleviare i problemi di salute. L’industria farmaceutica e il ricorso eccessivo da parte dei cittadini, spesso non guidato dai medici, ha snaturato l’antico ruolo delle farmacie, dei farmacisti e degli stessi farmaci. Le indicazioni date nel recente Piano Socio Sanitario Regionale 2002 -2004 sono orientate a riassegnare ai medici e ai farmacisti ruoli da protagonisti nelle cura delle persone. Anche verso i farmaci si è adottato un atteggiamento diverso da quello comunemente in uso e ai farmaci provenienti dalle industrie chimico farmaceutiche si è offerta e affiancata la possibilità di conoscere e assumere farmaci di origine naturale o alternativa a quella della farmacopea tradizionale.
“Quando le medicine si preparavano in farmacia” è tratto da: M. Ansaldo “Storie dimenticate” Testimonianze di vita sociale nell’antica Valle d’Aosta. Tipografia Valdostana, Aosta , 2002 pag.42 .
“Tanti anni fa il farmacista indossava il camice nero e si sporcava le mani; oggi ha il camice bianco misurato al ginocchio, ha le mani pulite perché non maneggia più utensili e sostanze di laboratorio.
Tanti anni fa il farmacista aveva una attrezzata officina farmaceutica (si chiamava così). Scaffali e scansie erano gremiti, stivati da bocce di vetro, albarelle decorate, ampolle, scatole di legno per le erbe, cortecce, semi e radici… Sulle rastrelliere, bevute, storte, imbuti, matracci… In un angolo c’era l’alambicco di rame a cupola come una moschea… E poi allineati in artistica mostra decine di vasi per gli unguenti, gli Malattie e cure di un tempo oli, gli sciroppi e gli intrugli della universale Teriaca e del suo compagno Mitriade, carichi di oppio che calmava il dolore e faceva gridare al miracolo.
I vasi, prestigio della farmacia al pari dei farmaci inventati e preparati dal farmacista, erano di terracotta invetriata policroma, con il cartiglio che indicava il contenuto, incorniciato da simboli, figure e volute di vegetali. Quei vasi ora sono vuoti, ambiti e ricercati da amatori del bello e da antiquari. E poi nei cassetti del laboratorio c’erano spatole, forme per ovuli, supposte e pillole: oggetti di artigianale fattura con un segno d’arte tale da ben figurare oggi in un salotto di riguardo. E poi cumuli di tappi di sughero, di vero sughero della Barbagia, di tutte le misure anche minime per sigillare la evanescente boccettina con le gocce di biancospino e valeriana per gli instabili umori della giovane signora. C’era anche la grande damigiana di vetro verde foresta dove invecchiava il barolo chinato, capolavoro del farmacista.
C’era il torchio per l’olio di mandorle dolci che doveva essere sempre di recente spremitura. C’era il mortaio di bronzo, grande come una campana… e poi bilance e bilancini per dosare i veleni, le droghe.
Quelle droghe che ora è più facile trovare fra le mani dei giovani che nell’armadietto di farmacia.
Ora nel banco c’è il registratore di cassa, bello e lustro come una fuoriserie. Una volta, nascosta in un cassetto sottobanco c’era la ciotola di legno di bosso per il guadagno della giornata. Alzate le ante di legno a sera, e chiusa la farmacia, si faceva la “coppa”; si contavano monete spicciole che valevano. Ora si fa la mazzetta di carta moneta svalutata come un convalescente da grave malattia.
Nel retro della farmacia in discreta penombra c’era il salottino con le poltroncine di velluto un pò smunto. Era per gli amici (si poteva fumare il mezzo toscano) che portavano le notizie della piazza.
Bevevano il bicchierino di barolo chinato per dare voce e credito alle parole, come accadeva nel retro delle farmacie durante la rivoluzione francese, il risorgimento italiano.
Sono passati tanti anni da quando le medicine si inventavano e facevano in farmacia e pochi ricordano  la tipica figura del pistur. Come un campanaro a rovescio (il mortaio, era una campana rovesciata) il pesante pestello fra le mani pestava, frangeva, polverizzava erbe, semi, cortecce, frutti: la farmacia odorava di mercato orientale. I vecchi della valle del Gran San Bernardo ricordano, forse, il pistur valdostano Blanc che, nei primi anni del 1900 e anche dopo, con fantasia e azzardo, suggeriva tisane, infusi, decotti e clisteri; le erbe, si diceva, non avevano segreti per lui.
Ma non c’è più neppure il medico condotto di una volta, quello con barba e baffi alla Massimo d’Azeglio; con vento, pioggia, sole o neve, andava alle visite con la valigetta di cuoio a soffietto, come il mantice della carrozza a cavalli anch’essa scomparsa. I cavalli sono in regime di sopravvivenza e per salvarli li hanno affidati ai carabinieri a cavallo.
Nei tempi antichi la farmacia non era “chimica”, era “botanica” nel senso che la gente trovava nelle foreste, nei boschi, nei campi, negli orti di casa, nel cortile, nelle acque, nelle stalle le medicine belle e pronte per curare, non sempre per guarire le malattie.
Nell’Archivio Storico Regionale è conservato un ampio estratto in lingua e scrittura francese del settecento di un’opera del naturalista senese Pierandrea Mattioli (1500-1577). Divenne famosa come la Bibbia. Si tratta di un ricettario medico di erbe, piante e semi. I vasi di farmacia dovevano contenere: sugna di anitra, di oca, di cappone, di gallina; acqua di lumache, carne di cinghiale, di leone, di lepre, di volpe; polvere di cantaridi, castoreo, varie specie di corna; fiele, ossa umane, sangue di becco, di porco, tela di ragno, unghie di animali e (colmo della ciarlataneria e dell’inganno) latte di fanciulla vergine! Ci si curava con queste schifezze. Ma per la salute si beveva anche distillato di urina umana e raschiatura di cranio di uomo vivo cioè deceduto non per malattia ma per morte violenta.
Il millecinquecento passò all’insegna di questa farmacopea sotto la protezione dei santi fratelli medici Cosma e Damiano; ogni malato che guariva era da considerare un miracolato.
Per farla breve a arrivare al capitolo annunziato dirò che dopo il millecinquecento e sino ai nostri giorni la farmacia divenne veramente “chimica”, si giovò non solo di sostanze vegetali ma anche minerali e soprattutto di “sintesi di laboratorio”. Comparvero via via le medicine che ricolmano oggi le farmacie.
Sorsero le grandi industrie che fecero perdere sempre più al farmacista la caratteristica scientifica di Malattie e cure di un tempo “chimico del farmaco”, per passare a quella di consigliere terapeutico e di distributore di medicine, responsabile civilmente e penalmente del suo operato
 
 
 
 
 
“L’OLIO MIRACOLOSO”
Molti cittadini valdostani fanno ricorso a farmaci alternativi a quelli tradizionali. Non lo sono ancora molto gli anziani, ma la cultura generale nell’approccio alla cura delle malattie sta diventando quella di chi considera le medicine e i farmaci non convenzionali (fitoterapia, omeopatia, omotossicologia) come prodotti assumibili al pari degli altri perché garantiti da una scienza medica comune.
Questa garanzia di tutela e di salvaguardia nell’uso di farmaci non convenzionali che oggi esiste un tempo non esisteva e i prodotti utilizzati per la cura spesso si rivelavano panacee inventate da persone di malafede preoccupate solo dell’arricchimento personale.
“L’olio miracoloso” è tratto da: M. Ansaldo “Aosta antica racconta” Antologia di vita valdostana. Tipografia Valdostana, Aosta, 1990 pag.52.
E’ LA STORIA DI UN COLOSSALE INGANNO .
Nel Consiglio del 2 dicembre1630 il sindaco di Aosta chiede un mandato di pagamento di quindici pistole e due ducatoni, da lui dati ad un certo padre dominicano Jacobini, che aveva portato da Milano “L’olio miracoloso” che doveva preservare la Valle d’Aosta dalla peste 1 .
Questa cronaca dice che anche i Valdostani al pari dei Lombardi, dei Piemontesi e di altre genti d’Italia, erano caduti nell’inganno dell’olio miracoloso. L’inganno prese l’avvio nella chiesa della Madonna delle  Grazie in Milano sul finire del 1630 quando la peste, che aveva già portato via migliaia di persone, incominciava ad assopirsi perché disturbata dai primi freddi. Frate Geraldo racconta (22) .
“Essendo la città di Milano in mal termine per questa incurabile piaga, raccorsero diverse persone divote nella chiesa della Madonna delle Grazie et dopo aver fatto oratione si unsero dell’olio della lampada ed essendo appestati guarirono. Palesarono la cosa per la città, per il che molti infermi andarono a farsi ungere e anche dai luoghi vicini. Molti che avevano fede furono liberati. Di poi si palesò il miracolo anche nelle città più lontane, come Alessandria, Asti… Ed Aosta dove l’olio giunse nel settembre 1630”.
Di guarigioni miracolose in realtà non ce ne fu neppure una. Quella straripante ondata d’olio diffusa in tutta Italia, fu propiziata dal disperato bisogno di miracoli che avevano le genti immerse in un contagio senza rimedi.
In quei tempi, con immensa credulità, si vedevano ovunque streghe e malefici, santi, diavoli e miracoli.
Strade e piazze erano piene di miracolisti nelle vesti di falsi predicatori e di eremiti. Gli artigiani lavoravano sodo a fare ex voto, sorgevano santuari e cappelle votive: la gente chiedeva a Dio il pane quotidiano, dai santi volevano grazia di un miracolo quotidiano.
Fatalmente in questo clima psicologico, le prime unzioni diedero l’avvio a un generale inganno e per i frati che officiavano la chiesa della Madonna delle Grazie, furono pretesto per un colossale affare.
Costoro, in buona o cattiva fede che fossero, non potevano tirarsi indietro: sarebbero stati lapidati a furor di popolo; così la lampada continuò a versare olio miracoloso e la gente a morire di peste.
Anche il cronista frate Geraldo credette sinceramente all’olio miracoloso e se l’effetto venne a mancare fu, dice, perché il demonio aveva spento la fede e la devozione. Secondo il costume e la mentalità del tempo, nella vicenda non poteva mancare una scena demoniaca. Accanto al santo si inserisce così la strega, nel nostro caso l’untore.
La cronaca narra che un pover’uomo si lasciò indurre dal demonio e prendere anche lui un certo olio.
Chi l’avesse toccato, benché infermo e appestato sarebbe guarito. Quel disgraziato d’un uomo fece appena in tempo a ungere poche porte di case altrui, perché fu preso, incarcerato, messo ai tormenti. Confessò e morì sul rogo.
1 l’avvenimento si legge anche nel Ripamonti a pag. 136 dell’opera “De peste quae fuit Mediolani anno 1630”.
2 Giovanni Giovenale Gerbaldo “Carestia e peste del Piemonte negli anni 1629-30” Biblioteca Civica, Torino.
Malattie e cure di un tempo
 
Queste tristi cose accaddero a Milano. I cittadini temendo che vi fossero in giro altri untori, consultarono dei saggi e citarono in giudizio il demonio per sapere in che modo facesse morire tanta gente.
A tempo debito il demonio, non sappiamo sotto quali mentite spoglie, comparve davanti al giudice e disse molte bugie, ma finalmente confessò che molti erano stati unti con l’olio miracoloso si , ma mescolato con olio dell’inferno da certi stregoni, per cui erano già morte più di cinquecento persone.
Anche la Valle d’Aosta pagò dunque al frate dominicano il suo contributo all’inganno, sicura come altre contrade d’Italia, che, se i Valdostani morivano di peste, la colpa non era dell’olio ma del Maligno.
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